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dicembre 15, 2011

TOM WAITS, Bad as me

Una premessa: la voce di Tom Waits mi ha sempre fatto pensare ad un corda, una fune massiccia con tanto di nodo scorsojo & cappio per le impiccagioni: la corda può tendersi, assottigliarsi scricchiolando; si rilascia e sembra più massiccia; è morbida, sinuosa e al tempo stesso solida e ruvida, dalla grana grossa, una minaccia sgradevole e al tempo stesso calda, inquietante e confortante. Schiocca e crepita e sa di whisky, come se ce l'avessero intinta, e le sue curve sono le spire di un grosso serpente che nasce dal fecondo intreccio di serpenti più piccoli, attorcigliati stretti gli uni agli altri a loro volta, all'infinito.
Probabilmente, da un punto di vista musicale, nessuno è stato più efficace omologo di Charles Bukowski se non Tom Alan Waits, classe 1949, da Pomona (contea di Los Angeles), California. Molte delle sue canzoni - esempio principe la fantastica "Christmas card from a Hooker in Minneapolis" - potevano suonare come una trasposizione in musica di alcune poesie del vecchio Buk, e di queste mantenevano lo spirito e la stessa disperazione di chi rimane dalla parte sbagliata dello specchio, nell'incubo americano. 
Ovviamente poi ognuno trova la sua strada, e progressivamente, dagli album post-Rain Dogs in avanti, quella di Tom Waits è andata sempre più verso un'elettronificazione apparentemente disordinata e rumoristica, bizzarra, "distortamente" cavernosa - per i fan più granitici, niente più che il passaggio da Asylum a Island record avvenuto nel corso degli anni '80.
Progressivamente abbiamo assistito all'abbandono sempre più deciso del pianoforte e di molti degli strumenti tradizionali, con il sound della chitarra di Marc Ribot sempre più in primo piano e determinati aspetti (la rarefazione intimista di alcune ballad, il surrealismo di certe storie folk cantate come fossero poesie, la fumosità quasi jazzistica del pianoforte & voce, etc) che andavano via via scomparendo, fino all'eccesso di quel dimenticabilissimo Real Gone - già del titolo, funesto presagio di quel che pareva proprio essere - che sette anni fa era stato l'ultimo suo lavoro di inediti. 
Bad as me, il diciassettesimo album in studio (tredici titoli più un bonus cd con tre tracce nell'edizione deluxe), è un guardare indietro per tornare avanti, un emendare gli eccessi che si erano accumulati senza rinnegarli: e se niente si aggiunge (piuttosto impossibile aggiungere qualcosa dopo Rain Dogs e Swordfishtrombones!) quantomeno non si sbaglia il colpo. Di più: si riaffacciano ballads liriche à la Waits ("Last Leaf", efficace pezzo acustico in duetto con Keith Richards, vero e proprio alter ego dell'autore già dai tempi di Bone Machine; "New Year's Eve", che non sfigurerebbe nemmeno negli album di cui sopra, con una bellissima e malinconica melodia che culmina nella citazione di "Auld lang syne", canzone di fine anno per eccellenza; "Talking at the same time", "Back in the crowd", solo per citarne alcune), pezzi dall'impatto forte, tirati e dal groove violento e squadrato come un tempo ("Chicago", anche questa con Keith Richards alla chitarra, o "Get Lost", ad esempio, pezzi che nell'impianto ricordano assai cose come "Big Black Mariah" o "Down, Down, Down"), quelli più mefistofelici ("Hell Broke Luce", che al basso vede anche Flea direttamente dai RHCP o la title-track "Bad as me", per tacer della divertita "Satisfied", in cui ancora una volta con Keith Richards, Waits duella idealmente con Mick Jagger e il pezzo più famoso dei Rolling Stones), in cui l'autore gioca con la sua scenografica voce, i rumori e l'elettronica. 
Soprattutto però, la chicca arriva - ok: è fin troppo chiaro quale sia l'aspetto di Tom Waits che io prediligo! - col ricomparir del pianoforte e del contrabbasso, nella pur lampante citazione-imitazione di "Blue Valentines": ed ecco la dimessa e frusciante "Kiss me", forse il pezzo migliore dell'album, a rinverdire le atmosfere (troppo) presto abbandonate di Nighthawks at the Diner, con la chitarra che si muove estenuante, e la voce a sussurare:

...kiss me... kiss me, like a stranger, once again

dicembre 13, 2011

MIDNIGHT IN PARIS, Woody Allen

E ci riconciliammo dunque con Woody Allen, dopo l'incontro con l'uomo dei tuoi sogni buttato là tanto per fare, non finito e nemmeno tanto sbozzato, confusionario e messo a riempier l'anno duemiladieci, tra il buono Basta che funzioni novellamente newyorkese e questa Mezzanotte nella capitale francese volutamente così tanto svilita cartolina turistica nel tempo presente, quanto adorata e ricca metropoli culturale negli anni '20 prima e Belle Epoque poi.
Il quarantunesimo film di Woody Allen (quarantuno! Ininterrottamente uno l'anno da quanto? Ci starà pure qualche luna storta ogni tanto!) registra ancora una volta il genio in fuga, a prendere e darci aria nuova: dopo Londra, Barcellona, ancora Londra, anche tornare a New York ha un altro senso, è l'avere un occhio nuovo o rinnovato sul proprio mondo (e appunto Basta che funzioni, funzionava eccome). 
Stavolta la prova è a Parigi - e il prossimo anno è già in lavorazione Roma, con Benigni e Albanese fra gli altri - e già il posto sarebbe scivoloso di per sé (remember Venezia? Tutti dicono I love you, dico. Dico: lo ricordate? Il bel musical melenso che fu): la dichiarazione d'amore per un'epoca d'oro, un'epoca forse irripetibile quanto a fermenti, personalità, innovazioni, scoperte e quant'altro si vuole, assume e riassume tutto il miglior Woody Allen che conosciamo, quello che unisce il riso alla commedia di costume, il ritratto affettuosamente caricaturale dell'artista - mai come in questo caso lo sfondo si prestava! - alla barbarie (va da sé: ritratta assai meno affettuosamente) dei suoi contemporanei, la levità di fondo e la malinconia per un presente che sempre sarà un tempo "prosaico e insoddisfacente"; un tempo poco apprezzato, a vantaggio di "un passato vagheggiato e un futuro immaginato". Così il protagonista, ennesimo alter ego - invero un po' inefficace - del regista-sceneggiatore, il quale affida ad una improvvisa macchina d'epoca notturna il ruolo di time-machine per portarsi fuori da un presente di noia e scarsi stimoli, intellettualodi insopportabili e borghesi repubblicani, conducendo quindi di volta in volta l'allibito protagonista (Owen Wilson - come mai ogni attore che fa Woody Allen, fa Woody Allen, come se questo fosse compreso nel prezzo? Lo richiede lui stesso, o il bagaglio di tic, balbettii, movenze insicure e a scatti son l'inevitabile pegno al cospetto dell'Originale? Forse uno dei pochi attori capaci di evitarlo fu proprio il Jonathan Meyers di Match Point - e non è certo un caso se di solito si pensa a questo film come ad uno dei meglio riusciti del regista!) in mezzo a memorabili feste dei coniugi Fitzgerald, al salotto di Gertude Stein (Kathy Bathes, fantastica e dittatoriale sotto al suo famosissimo ritratto) in perenne colloquio con Picasso, a esiliaranti scene col coraggiosissimo Ernst Hemingway o con lo scapestrato mondo dei surrealisti, Dalì - azzeccatissimo Adrien Brody - in testa. 
Inevitabile - com'era già successo ne La Rosa purpurea del Cairo, film comunque assai diverso, specie per il senso di delicatezza e di candore che lo pervade, sentimenti qui del tutto assenti a vantaggio d'una tentazione al ritrattismo macchiettistico che non era possibile eludere - che il pendolarismo fra realtà e surreale, o comunque fra Prosaico e Réverie si riveli un inesauribile pozzo di trovate, e che l'intreccio rimanga più sullo sfondo - non per questo però ridotto a semplice contenitore di sketch. Sta qui forse, in questo sottile equilibrio - stavolta mantenuto - la capacità di farci ridere e sognare (allegria malinconica e riflessione acuta), che i migliori film di Woody Allen hanno.
Da notare anche il contrasto fotografico fra la Parigi attuale (turistica, un po' da paccottiglia) e tutta in ocra ed oro e il rosso sgranato e un po' caldo (modello pellicola dirò d'un tempo che fu, ché dire Vintage è ormai quantomeno stupido) del passato letterario, che par s'accentui al cospetto di Gauguin, Degas e Tolouse-Lautrec. 
È stato scritto che il senso del film è a metà fra la sterilità - piacevole e lenitiva, ma un po' fine a stessa - della nostalgia e la mancanza di coraggio nell'accettare ciò che il destino e il presente hanno deciso per noi, ma credo che il giudizio sia un po' limitante. È un film molto piacevole, che muoverà magari al riso solo una parte degli spettatori (quelli che sanno di cosa si sta parlando, per dirla in termini grossolani), ed è anche un film che prende molti dei temi consueti di Woody Allen, come spesso accade. In sostanza, un film da vedere e da gustarsi.
Si noti che non c'è da spendere una parola che sia una sulla parte affidata alla première dame de France, Carla Bruni, a riprova di quanto grande possa esser la stupidità dei media e del gossip in genere.

dicembre 04, 2011

PETER CAMERON, Un giorno questo dolore ti sarà utile (Someday this pain will be useful to you)

Ok, la dico grossa: Un giorno questo dolore ti sarà utile vale in tutto e per tutto The catcher in the rye, il testo epocale (1951) di J.D. Salinger, che da noi hanno tradotto coll’assai più infelice titolo de Il Giovane Holden. Di questo, il libro di Cameron ha la levità, il candore disarmante, l’(apparente) semplicità, la magia delle magie che pochi testi hanno dentro di sé (ad esempio non l’hanno gli altri di Salinger, né i Nove racconti Franny & Zoey): il farti scordare la “fatica” della scrittura prima e quella della lettura poi, in sostanza il loro meccanismo stesso; un fenomeno che diventa quasi una sorta di “lettura inconsapevole”, automatica – una specie di corrispettivo della scrittura automatica surrealista, però rovesciato dal punto di vista di chi fruisce l’opera – come se il libro si scrivesse dentro di te per empatia, un processo naturale e leggero in cui salta il tradizionale schema dell’occhio che segue sulla pagina dei segni grafici, a beneficio del cervello che li elabora e (quindi) dei tuoi sentimenti che li assorbono in modo più o meno profondo.
Leggere Un giorno questo dolore ti sarà utile è in questo senso un’esperienza più cinematografica che letteraria: va da sé che buona parte del libro è in forma di dialogo, praticamente una sceneggiatura bell’e buona, e non a caso già pronto è l’adattamento cinematografico, ad opera di quello stesso Roberto Faenza che qualche mese fa tirò fuori dal cilindro il sorprendente (terrificante) documentario Silvio Forever!
Lo schema di base del romanzo è riassumibile in una struttura dialogo-riflessioni (ancora una volta una sorta de Il mondo secondo…, uno schema apparentemente semplice ma che funziona solo se il testo è veramente un capolavoro - penso al Voyage au bout de la nuit, a Barney, al mondo secondo Garp, a qualche testo di Fante, e via così) che abolisce del tutto l’azione; una struttura che basta talmente a se stessa, è cioè così compiuta e perfetta come romanzo da rendere del tutto superflua anche un'eventuale riserva fatta in nome di un realismo, forse più fine a stesso ed ideologico-dogmatico che reale ed effettivo – in soldoni, che probabilmente un diciottenne odierno possa non avere pensieri di questo tipo, così cristallini, penetranti e al tempo stesso così efficaci nell'aprire crepe profonde nel granitico mondo degli adulti. 
James Sveck e Holden Caulfield ragionano allo stesso modo e si muovono allo stesso modo, ma al tempo stesso il primo non è il plagio pedissequo del suo (ormai) “nobile” predecessore, la sua brutta o comunque svilente copia: no, entrambi restano due entità completamente distinte e autonome – pensi a Holden perché ci pensi, ed è inevitabile farlo; ma lo fai non col fastidio di qualcuno che vede un patetico epigono che tende al suo modello, inevitabilmente senza raggiungerlo. È come se qualcuno in un’altra dimensione, in un altro mondo avesse dato vita allo stesso personaggio inconsapevolmente, per caso: una vera e propria magia. E Cameron dalla sua ha, credo – per quanto ogni presente sia il peggiore dei mondi possibile, agli occhi di chi lo vive (poi, l’evasione che uno sogna può essere in avanti o indietro, ma questo è un altro discorso) – un mondo che rispetto a quello degli anni ’50, qualche casino in più lo ha combinato. Un mondo ancora più contradditorio e, per quanto certo questa parola non basti a definirlo, brutto.
Poco da aggiungere, come sempre succede quando ci si imbatte in opere di questo livello. Di solito, l’unico cosa che si può dire è: leggetelo/guardatelo/ascoltatelo, quel che è di volta in volta.
E poi, per chiudere, si mette qualche parola di quelle scritte dall’autore, ché son così complete che in se stesse hanno anche la loro spiegazione, la loro critica, tutto:

Non sono uno psicopatico (anche se non credo che gli psicopatici si definiscano tali), è solo che non mi diverto a stare con gli altri. Le persone, almeno per quel che ho visto fino adesso, non si dicono granché di interessante. Parlano delle loro vite, e le loro vite non sono interessanti. Quindi mi secco. Secondo me bisognerebbe parlare solo se si ha da dire qualcosa di interessante o di necessario.
[...]
Quasi tutti pensano che le cose non siano vere finché non sono state dette, che sia la comunicazione, non il pensiero a dargli legittimità. È per questo che la gente vuole sempre gli si dica «Ti amo, ti voglio bene». Per me è il contrario: i pensieri sono più veri quando vengono pensati, esprimerli li distorce o li diluisce, la cosa migliore è che restino nell’hangar buio della mente, del suo clima controllato, perché l’aria e la luce possono alterarli come una pellicola esposta accidentalmente.
[...]
Ecco un’altra ragione per cui non voglio andare all’università: non voglio essere uno appena laureato che si dà un sacco di arie per il suo primo «lavoro vero», sbandierando un potere che non ha e credendo che fra un anno o due dirigerà Vogue o Vanity Fair. L’aspirante Anna Wintour ce le aveva dipinte in faccia, le sue visioni di mega uffici, pranzi al Four Seasons e servizi fotografici a Tangeri.

ottobre 18, 2011

"Non è vero, ma è bello che tu me lo dica"


La mediocrità non è mai delle persone complicate?.

E' molto facile cogliere qualcosa di speciale in persone apparentemente fuori dalle righe.
D'altronde oggi nessuno lavora più, tutti fanno qualcosa di artistico.
E' la società moderna che emargina e condanna una filosofia di vita semplice.
La semplicità con cui si affrontano le cose, il modo semplice in cui ci si pone davanti ai problemi è soltanto per le persone non mediocri.
La mediocrità non è mai delle persone semplici.
E' in questa ottica che inquadro il film di Sorrentino.
Un film che mi ha fatto pensare " finalmente un film italiano diverso, che non è italiano"
Con una semplicità disarmante il regista ci racconta il percorso di evoluzione di un uomo schiacciato dal peso del suo passato(rappresentato da un peso che si porta sempre dietro,  un carrello del supermercato, un trolley) fino alla riscoperta di se stesso e del proprio volto finalmente pulito dal trucco di una maschera adolescenziale a cui era ancorato da tempo.
Così' Cheyenne, il protagonista del film, una rockstar in pensione, che ha smesso di vivere quando ha deciso di interrompere la sua carriera di artista e spreca il suo tempo in un ozio depressivo, viene scosso dalla morte del padre e dalla tenacia dello stesso applicata alla ricerca ossessiva di un nazista che lo aveva umiliato in un campo di concentramento.
Il semplice fatto della morte, la presa di coscienza dello scorrere del tempo, della finitezza della vita, spingono Cheyenne finalmente a capire che il tempo ben speso è l'unico bene della vita e che fino ad allora il suo tempo è stato sprecato, che ormai è tardi, è tardi per molte cose ormai lasciate andare.
Alla fine del percorso Cheyenne impara a spendere il suo tempo ed ad evolversi fino a mettere in mostra il suo vero volto ed  ad abbandonare ogni peso irrisolto.
Perchè dura lex sed lex, si muore alla nascita.

ottobre 17, 2011

THIS MUST BE THE PLACE, Roberto Sorrentino

"Il mondo secondo Cheyenne", avrebbe potuto intitolarsi il film, un frizzante ed originale breviario di metodi e filosofie coi quali passare attraverso la vita, mantenendo uno sguardo che tanto più penetra a fondo delle cose quanto più pare distaccato e lontano. Uno sguardo quasi di bambino: per la sua purezza, per la sua freschezza, per il suo stupore e al tempo stesso per la sua ostinazione; un senso del grottesco e un mazzetto di figure secondarie – il tatuatore, l'agente di borsa che presta l'amatissimo pick-up, il cacciatore di nazisti, la professoressa, l'inventore di trolley, il bambino con la fobia dell'acqua – che potrebbero venire dritti in linea retta dai Coen (la co-protagonista Frances McDormand non a caso ripropone pari pari lo stesso personaggio cui aveva dato vita in Fargo); un interprete assolutamente unico nonché vero cuore del film ancor e assai più della vicenda in sé, che niente più si rivela se non una giustapposizione di scene tutte egualmente valide, surreali e al tempo stesso concretissime, esilaranti ed amare ("hai mai fatto caso al fatto che oggi non lavora più nessuno, ma tutti fanno qualcosa di artistico?")
La linea narrativa patisce forse un po' questo carattere del film, che comunque certo non ricerca la verisimiglianza e il canone della logica causa-effetto più tradizionali: la ricerca di un criminale nazista attraverso la classica America periferica popolata di marginalità e caffè e motel e miserie più o meno spicciole (secondo il più tradizionale canone del film/romanzo on the road) è assolutamente secondaria, e al suo posto poteva benissimo starci la ricerca di un figlio, di una madre, di un qualsiasi altro evento potesse fare da sfondo agli incontri, alle massime, al distacco straniante della maschera del Candide aggiornata ai giorni nostri in chiave rock. Forse questo – il fatto che la ricerca dell'aguzzino del padre non sia poi tutto questo casus belli, tutto questo motivo per mettersi in viaggio, per scrivere la prima pagina del proprio bildungsroman – un po' si sente, come ogni tanto si avverte un eccesso di simbolismo un po' fine a se stesso: la baracca in mezzo al nulla del criminale nazista; l'inutile chiusa con Sean Penn senza più trucco davanti alla finestra della madre in remota attesa del figlio; la stessa figura di quest'ultima, messa forse lì a vieppiù (inutilmente) aggiunger pathos – tutte, forse, metafore un po' stonate e pretenziose, figlie irriducibili di un modo di pensare il cinema (quello italiano, appunto) come qualcosa di nobile, indegno a meno che non si veicolino in un modo tra il lezioso e l'accademico concetti che si giudicano “alti”, magari indugiando nell'(ab)uso di fatti di storia o cronaca che a questo si prestino (l'olocausto, il fascismo, i fatti di cronaca nera – quanti film italiani cosiddetti "impegnati" ci cascano?), e accompagnando il tutto con l'altrettanto irriducibile (e fastidiosa) tendenza al melodramma ed alla lacrima, qui peraltro e grazie a dio brillantemente evitata dall'attore (“no, tardi è tardi!” – e immaginatevi la stessa scena con qualche coppia di divetti nostrani e preparate i fazzoletti).
Nel complesso un film che sorprende, originalissimo e visionario (bellissima fotografia, di Luca Bigazzi), molto meno italiano del solito, ma che forse pone la storia un po' troppo al servizio della tecnica, il plot al servizio dell'estetica. Bello - anche se forse una goccia di provincialismo ci può stare, nel far apparire un musicista perché se ne sceglie un pezzo... - il cammeo di David Byrne, nella parte di se stesso (ancora: niente più che un pretesto per un'altra delle perle di Cheyenne).

ottobre 07, 2011

CARNAGE, Roman Polanski

Capita d'imbattersi nel film perfetto, e di non averne quindi da scrivere granché. Perfetto perché dalla regia cristallina e semplice e misurata, perfettamente calibrata sui quattro unici personaggi che da soli basterebbero a riempir qualsiasi scena; perfetto perché tale è la sceneggiatura, che riprende la pièce teatrale di Yasmina Reza, Le dieu du carnage (il dio della carneficina), e la asciuga da qualche ampollosità dell'originale e ne amplifica (magia del cinema) la potenza, pur mantenendola meravigliosamente teatrale.
Tra un semplice prologo e una chiusa speculari ed in esterni si snoda (tra una soggiorno una cucina e un bagno - della serie, ognuno - Polanski - si arrangia come può...) - l'esile vicenda (un confronto civile tra due coppie di personaggi per appianar un fatto spiacevole relativo ai rispettivi figli, i quali hanno avuto una lite ai giardini il giorno prima, con uno dei due che ne ha riportato due denti rotti) su cui si innestano in modo assolutamente avvincente e chiaro, con una naturalezza che letteralmente "fulmina" lo spettatore, le dinamiche di convivenza civile, di relazione, di contatto fra le persone nella società.
Mirabile, più che tutto, è il modo in cui si scivola inesorabilmente in un gioco al massacro che tutto coinvolge e tutto distrugge: tra i quattro personaggi alleanze si intrecciano e si sciolgono, per poi tornarsi a stringere; naufragano etichette di bon-ton che poi riemergono, ipocrisie e aggressività si manifestano; emozioni si denudano e s'ammantano di buone intenzioni e frasi fatte; ci si mostra gli uni con gli altri i muscoli e i denti, per poi crogiolarsi cameratescamente nelle comuni miserie e banalità della via - il tutto in un balletto che, ancora, soprende per quanto è vero e profondo e per come è stato reso in modo tanto naturale, in quella che prima di tutto sarebbe nient'altro che finzione.
E una considerazione simile è ancor più al suo posto se si pensa ai quattro attori, i veri e propri gioielli dei 79' dorati di cui si compone il film. Inspiegabile il mancato riconoscimento di miglior attore/attrice (andato invece al pur bravo Michael Fassbender alias magneto-da-giovane di Jane Eyre) a uno a caso fra Jodie Foster, Kate Winslet, John C. Reilly, Christoph Waltz: quattro tipi, quattro maschere, ma al tempo stesso qualcosa di più, di molto di più; esattamente come la vita, in cui un soggetto è un personaggio ma non solo, ha determinati tic ma al tempo stesso qualcosa ha più e qualcosa in meno. Bravissimi, incredibili, tutti; e Christoph Waltz (ma dov'eri fino ad oggi???) con la sua maschera (ancora: qualcosa più di una maschera!) del Colonnello Landa di Inglorious Bastard a tirar le fila, col suo credo gelido e perfettamente consequenziario rispetto al mondo - un mondo in cui ciascuno è solo, e "la coppia è la prova più terribile che Dio possa infliggerci, la coppia e la vita di famiglia", come ha a dire invece l'altra figura maschile dei quattro, spalla e caratterista di vecchia data di numerosi film - in cui si trova a vivere, quello appunto nel "dio della carneficina".
Carnage ha tranquilla serenità e la semplicità del capolavoro: in casi come questo, l'unica analisi possibile resta la più semplice - andate a vedere questo film.
Ogni spiegazione, ogni parola, sarebbe inutile, e niente aggiungerebbe di più.

luglio 29, 2011

SAM LIPSYTE, Venus Drive

Ogni generazione considera la precedente come qualcosa da abbattere, comunque da superare: si tratta spesso del classico conflitto "figli contro padri", nell'accezione magari di un manipolo di enfants-terribles che vanno a tirar la barba bianca ai soloni, a ciò che è accademia, istituzione, gloria nazionale magari un po' polverosa e ingombrante. Una sostituzione di un determinato codice di valori, di un repertorio di immagini e metafore e concetti, uno svecchiamento di fondo che a volte magari è scriteriato o fine a se stesso (e a volte niente c'è da svecchiare!); a volte ha un suo indubbio merito e una sua necessità: ci voleva proprio, vien da dirsi.
Per quanto alle “singole” generazioni d'avanguardia, prese – mettiamola così – cellula per cellula, epoca dopo epoca (per quanto oggi, ancor più di ieri, si tenda inevitabilmente ad una generalizzazione di fondo, rimpiattando tutta la polvere letteraria sotto lo stesso tappeto del post-moderno), questo meccanismo risulti sempre nuovo, è, questa, una dinamica che invariabilmente si ripete nella storia dell'uomo, al di là di limitazioni letterarie, artistiche e via discorrendo.
Come sempre, in tutto c'è del buono del cattivo, del loglio e del grano – per usare un'espressione da accademico polveroso o vecchio trombone che dir si possa volere. Nello specifico, mi sembra che accanto ad indubbi meriti di quella che oggi può dirsi la punta più d'avanguardia di questo processo – vale a dire gli scrittori che, con 20-35 anni sulle rispettive spalle, si trovano ad operare in quello che del mondo occidentale è ombelico e fulcro, senza nulla voler togliere alle periferie (intesi non come luoghi minori, giacché molti degli scrittori di cui sopra operano tutt'altro che a New York o Los Angeles; bensì come posti in cui effettivamente si langue in tutti i sensi – ad esempio da noi, tanto per dire) – si torni sempre lì: e detta proprio sinceramente, lasciare (dico nomi alla rinfusa, ognuno metta quel che preferisce...) Hemingway o Capote, o Flaubert o Carver, o Richler o Steinbeck, o chiunque insomma vogliate, per abbracciare un continuo battere e girare sempre intorno allo sballo che quest'acido procura, alla figura del ragazzo senza lavoro che si droga, allo scioperato che abita il sobborgo ed è sfasato rispetto al mondo e fuma marijuana, a tutta la gamma possibile di roba da tirare da iniettarsi da fumare da inghiottire da assumere, insomma: fino a che punto si tratta di un ritratto effettivo e sentito, e fino a che punto di un mettersi in posa esagerato, un'esibizione forzata e spinta al limite nient'altro che per meravigliare/scandalizzare chi ben pensa e chi la polvere d'accademia ama e brama, tanto per fare?
Io per me, che peraltro non benpenso e la polvere non necessariamente amo, per quanto ciò potrà valere, mi scandalizzo ben poco, né ci vedo chissà qual fascino o attrattiva nelle descrizioni artistiche dello sballo. Il principio è sempre il solito: non tutti hanno a essere Bukoswki solo perché scrivono di sbornie o scopate, insomma.
Né si può ripetere all'infinito lo schema, magari con tecniche diverse che senz'altro son nutrite da una indubbia e puntuta fantasia, magari alimentata e affinata dalle scuole di scrittura (che qualcosa effettivamente fanno – viene il dubbio, considerando che tutta questa generazione più o meno esce da corsi di scrittura creativa di qualche college!), e da un senso del frizzante brioso che diverte e effettivamente dà ogni volta un sentore d'aria nuova (per l'appunto più frizzante!): se a un determinato codice, magari polveroso, datato, magari un po' magniloquente e in pompa magna, in definitiva non perfettamente aderente alla realtà odierna; se vi si vuol sostituire questo, grazie tante, io mi tengo ancorato al passato.
E questo avviene in certa misura con Lipsyte, che anche con buona parte di grano alla fine lascia interdetti, perché i personaggi son sempre gli stessi e tutta questa marginalità a metà fra lo svampito e lo straniato pare un po' forzata. Molto meglio il suo senso di ironia e di grottesco, che però è ben lontano da Saunders, o anche la tecnica narrativa e la sintassi andate mossa, che rivaleggia (e perde, forse) con un altro tizio all'incirca gli stessi limiti, che si chiama Rick Moody. Si rasenta la farraginosità, e non si sa mai per certo se scriva bene o scriva male. Nel tempo che te lo chiedi il racconto è giunto al termine, e hai letto di un'altra droga, di un'altra storia un po' sconclusionata che magari stavolta non ti ha colpito nemmeno più di tanto, sommata a tutte le altre, sempre a metà fra qualche frase un po' ad effetto e qualche contorsione linguistica notevole però un po' fine a se stessa...
Invecchio io?

luglio 05, 2011

BODY AND SOUL, Micheal Radford

Documentario che ricostruisce più o meno efficacemente la musicalità assoluta di Michel Petrucciani, che è quanto di più “Mozart” aggiornato ai giorni nostri si possa immaginare. Il film ha sicuramente un suo perché, e fra qualche annotazione di tecnica pianistica e di colore, nonché dall'insieme emerge senz'altro la personalità e la caratterizzazione per così dire quotidiana dell'artista, ma quello che danneggia forse il risultato finale è la schematicità della regia. Michel Radford (già regia per Il Postino, Il mercante di Venezia) si limita al compitino e rinuncia, forse per contrasto col Genio Assoluto che si tova a dover sceneggiare, a qualsiasi tipo di virtuosismo od originalità nelle riprese, limitandosi a giustapporre qualche dichiarazione e un po' di musica, un'intervista e del materiale di repertorio magari dal vivo, qualche racconto di episodi a un altro po' di musica. Uniche due particolarità: nessuno dei personaggi chiamati a dir la loro è mai identificato da una sovrimpressione (e questo non è che giovi granché, alla lunga) e tutti parlano nella loro lingua, sottotitolati (e questo invece giova, senz'altro). Alla fine la ripetitività dello schema – che accompagna l'artista Petrucciani dalla nascita alla morte, dalla Francia alla California, a Big Sur, poi a New York e di nuovo alla Francia – invariabilmente nella forma fissa ed alternata di momento orale-momento musicale stanca e forse fa evaporare un po' del demone artistico, con tutto quanto ciò si porta dietro, che una regia un po' più movimentata avrebbe trasmesso.
Certo, restano alcune emozioni forti: i ricordi degli altri jazzisti - dal Charles Lloyd folgorato e riportato sulla via del Jazz dalle mani del piccoletto trovato in casa a suonare il piano, all'affetto quasi fraterno di Joe Lovano, Aldo Romano e via discorrendo; le riflessioni dello stesso Petrucciani (spesso, per parola degli stessi amici, nient'altro che aneddoti ingigantiti di un uomo del sud), e le sue quattro mogli e l'episodio doloroso del figlio, probabilmente e in un certo senso vittima del Genio del Padre, capace – lui – di annullare il grave handicap e sublimarlo nella musica e nell'eccezionalità di un dono cui tutto si può perdonare e a cui tutto può cedere il passo, fino al bruciare se stessi e i propri (pochi) anni nell'arte, potendo beffardamente dire che va tutto bene, sto benissimo e vivo alla grande. Normali sarete voi.
Si può anche riflettere che, quando ciò non si dà, la prospettiva cambia, e parecchio; ma dal momento che il documentario è sul Michel Petrucciani uomo e artista, body and soul, questo può essere un (amaro) effetto collaterale del film, e meglio di tutto è senz'altro chiudere con quanto riportato nelle circa due ore di interviste e ricordi:
un pianoforte è nulla più che uno strumento musicale. Se però al pianoforte siede Herbie Hancock, siede Chick Corea, siede Michel Petrucciani, il pianoforte suonerà come Herbie Hancock, come Chick Corea, come Michel Petrucciani (io avrei aggiunto Thelonious Monk e Bill Evans – magari pure sostituendo uno dei primi due, eh?). Se al pianoforte siede qualcun altro, il pianoforte suonerà come un pianoforte.
Molto semplice, e molto sintetico: sta in questo, forse, la musicalità assoluta, il "mozartiano", di cui dicevo poco sopra. Il film lo cattura solo in parte, sarebbe stata necessaria forse una regia meno schematica, capace al tempo stesso di mantenere un ordine (per dire: l'ordine non c'è, nemmeno con questo schematismo!) e una creatività, sullo stesso filo. Difficile, e - comunque - il non esserci riusciti non toglie il sapore di fondo al film-documento, che resta un ottimo viaggio da intraprendere e ascoltare.

giugno 27, 2011

THE CONSPIRATOR, Robert Redford

Che bel film che ha fatto Robert Redford, un film maestoso e solenne senza volerlo essere o apparire, lucente e nobile nella sua semplicità, quasi un La parola ai giurati (di cui condivide lo spirito e la “grana” teatrale del copione) quarant'anni dopo!
Un film che resti a guardare affascinato, con la sua fotografia retrò e i dialoghi belli, un film che riesce a tenerti comunque in tensione fino all'ultimo nonostante il fatto sia storico e - per questo - la fine già nota.
Su tutto, il ritmo splendidamente teatrale dell'insieme (prima prova da sceneggiatore per J. Solomon), una regia senza manie di protagonismo o virtuosismi (nell'insieme la mano e il respiro possono senz'altro ricordare quella di Clint Eastwood), la bravura degli attori – dal già professor Xavier giovane James McAvoy al procuratore (altro ex “X-men boy”) Danny Houston, fino ovviamente a Robin Wright e Kevin Kline – l'evocativa musica di un evergreen delle colonne sonore come Mark Isham e la fotografia di Newton Siegel, (anche lui direttamente dagli X-men – e tre!).
Alla fine dei giochi, il tanto polemicamente sbandierato messaggio "Liberal" – e quindi la politicizzazione e strumentalizzazione a priori del film– è più un battage pubblicitario suo malgrado che qualcosa di effettivamente pesante dentro l'impianto del film: più che una lezione di stile, cinematograficamente parlando, di etica giuridica; più che un appassionato eloquio sul diritto e sull'egualitarismo, non credo sia dato scorgere, in un orizzonte in cui i maneggi del potere – la "ragion di stato" sbandierata dall'ottimo Kevin Kline e dalla giuria militare istruita raddrizzata a un passo dallo scioglimento della vicenda e nuovamente soggiogata in definitiva – e le sue quotidiane ingiustizie e prevaricazioni sono nulla più che fatti registrati oggettivamente. La condanna, se in questi termini si può parlare, più che da un motivo puramente politico, nasce da uno morale (è – per dire – lo stesso equivoco in cui si dibatte, e si vuol dibattere, la politica odierna: "criticate solo perché siete della parte avversa" – il che è anche perfetto, tra l'altro, per spostare l'attenzione dalla sostanza al veicolo, dal fine al mezzo; e nel frattempo si intorbidano un altro po' le acque, si prende tempo e il resto si vedrà), e basterebbe a dimostrarlo la chiusa del film, con le amare parole che scorrono in sovrimpressione. In sostanza: sancito dipoi il diritto per ogni civile al ricorso al tribunale non Militare a prescindere dai tempi di pace o di guerra, il figlio della Surrat sarà giudicato da un Tribunale Civile che, non trovando accordo sulla sentenza definitiva, rimetterà in libertà il suddetto.
Il film si chiude così, con una nota tutt'altro che trionfale o di scioglimento perfetto della vicenda nei termini di un castigo ai cattivi (siano essi i Potenti, o i Cospiratori, o tutti e due) e un premio ai buoni.
E qual è il messaggio che ci resta, a questo punto? Una condanna pura e semplice, in nome della ragione illuminata, dei principi liberali, dell'uguaglianza e dell'egualitarismo di fronte alla legge, del principio inter armas silent leges (direttamente traslato da Cicerone alla sceneggiatura del film)?
“Non dovrebbe”, risponde l'avvocato Aiken: poi, si potrà anche sostenere che Robert Redfort sia un sobillatore e un denigratore dell'ordine costituito e un comunista e un anti-patriota, quel che volete: ma ciascuno, poi, dovrebbe esser padrone delle cazzate che dice e scrive. Il che, purtroppo, non è più da troppo tempo.
Parole in libertà, scollate dal loro significato - che volete farci, una gran moda: ma questo, comunque, nulla dovrebbe togliere alla bellezza del film.

maggio 30, 2011

THE TREE OF LIFE, Terrence Malick

Spinto ed alfin convinto dai trionfalismi critici di – almeno per me – certificata ed autorevolissima provenienza, son quindi giunto a vedere l'opera che ha sbancato l'ultimo festival di Cannes, questo Albero della vita secondo Terrence Malick. Non ci sarei andato altrimenti, sia perché credo che il regista sia un po' prigioniero di se stesso e della sua ossessione Artistica (metto la A maiuscola non per caso); sia perché il precedente film, (datato 2005: The New world, con Colin Farrel impegnato a rifare una seriosa versione di Pochaontas), era una discreta palla al piede, seppur opera originale e tutto quel che vuoi; sia, infine, perché i film che combinano le variabili "lunga gestazione" più "alone messianico-apotropaico" (vedi anche alla voce David Lynch) hanno sempre qualche controindicazione minacciosa. E così è, invariabilmente: ci sediamo per assistere a due ore e venti di immagini senz'altro molto belle e suggestive, e musica ancor di più; fotografia senz'altro da apprezzare, ma ci sentiamo il tempo che scorre pesante addosso, dilatandosi attorno al niente, o poco oltre. L'impianto del film è veramente poca cosa – diciamo, riassumibile nelle eterne domande di matrice flagello-cristiana: “Signore, perché mi fai questo?" "Perché a me?" "Perché permetti che accada il male?" "Perché noi dobbiamo esser buoni se tu sei cattivo?" – e sia che il mondo sia visto attraverso gli occhi di un bambino (prima), quasi-adolescente (poi), dipoi uomo fatto; oppure attraverso quelli della madre, passando attraverso un punto di vista puramente visivo-illustrativo ad illustrare - appunto - il miracolo della vita e la sua bellezza, poco cambia. Resta una pretenziosità inutile che è spesso eccesso ed artificio: le inquadrature di sinistri e scuri alberi spogli dal basso verso l'alto, col cielo grigio sullo sfondo (ce le aveva già propinate – cambiava solo la musica, ché lì udivi la Sonata al Chiar di Luna di Beethoven – Gus Van Sant in Elephant, e il risultato era stucchevolmente simile); uno stormo di uccelli che danza nel cielo, fra i grattacieli del tempo moderno, col “mondo che è peggiorato, oggi” (spunto tirato fuori da un malinconico ed assorto Sean Penn, grande - lui - come di consueto, ma nient'affatto sviluppato – e questa mi pare a conti fatti una gran colpa); tutta una serie di vulcani che eruttano, acque impetuose e musica che accompagna e sottolinea; scene di vita, salti temporali arditi. Soprattutto inquadrature del cielo e la voce fuori campo del personaggio di turno a bisbigliare le sue domande senza risposta a un Dio la cui casa – dice la madre al piccolo – è in cielo. Veramente troppo.
Così come oltre il limite siamo nel trattamento del tempo, certo volutamente non narrativo o consequenziale, ma veramente troppo ondivago e onirico: il bambino diventato grande che ritrova dentro le sue fantasie la famiglia e il suo passato, dopo aver camminato in un arido deserto – fin troppo ovvia ipostasi della sua vita nell'oggi – e riveduto se stesso da piccolo; la morte di uno dei fratelli, o le scene di vita spicciola e concreta (oltre alle famiglie in litigio e ai bambini che giocano col sottofondo della Moldava di Smetana si pensi anche al Brad Pitt padre – a proposito: tanto celebrata anche la sua interpretazione; non mi pare che almeno per stavolta si possa parlar di chissà quali virtuosismi! – che fa forse convivere in sé la rappresentazione del dio buono e misericordioso con quello vendicativo e irato) che nulla aggiungono a un normalissimo trattamento che chiunque ne poteva fare: in fin dei conti che il mondo è un posto brutto e ingiusto lo si può dire anche con meno pretenziosità ed assai maggior efficacia.

Tutto sommato a me sembra che lo spettatore si senta sempre come in attesa di qualcosa che dovrebbe avvenire e che invece non avviene mai. Si attende l'epifania, la rivelazione che ci toccherà nel profondo. E quando questo non avviene, ti scopri a ripensare quindi al messaggio di fondo del film, cercandolo sfrondando da immagini che peraltro Kubrick in 2001: Odissea nello spazio ci aveva già mostrato (e quindi niente di nuovo).
E il messaggio, alla fine, è il classico pugno di mosche, un po' gonfiato dall'enfasi.

C'è chi ha scritto di questo film nei termini di un'esperienza più che cinematografica, e quindi totalizzante (ciò può esser vero se vogliamo vederlo come un affresco della vita nella sua interezza, quasi una cosmogonia: una famiglia americana che è in realtà tutti noi, il mondo, la vita in sé stessa, le domande le sofferenze e le gioie che questa ci passa – va da sé che questo non è sufficiente a fare un capolavoro!); chi ne ha parlato come di qualcosa che si vede come si ascolta una sinfonia, con un tema che torna ossessivo (e il tema sarebbe quello del dolore e della perdita, che contraddice l'illusione e tensione umana verso l'amore e la bontà - ma anche in questo caso non mi sembra chissà quale verità o novità sconvolgente); chi, con meno esaltazione, ha parlato di un film di poesia (senz'altro vero), o di una specie di National Geographic film, per arrivare a chi parla di un film che fa il verso al suo regista, auto-parodiandolo inconsapevolmente.
Dopo aver ammantato di (calcolato?) mistero la sua opera durante la lunga gestazione e realizzazione, Malick, per rimanere nel personaggio austero e schivo che si è creato, quasi un compiaciuto guru, sceglie di non presentarsi nemmeno alla consegna del premio. E - verrebbe da dire - così chiude il cerchio.

maggio 20, 2011

D. MEANS, Episodi incendiari assortiti (Assorted Fire Events)

Raccolta di racconti esile nelle dimensioni quanto densissima nei contenuti, questo lavoro dello scrittore statunitense David Means (il suo primo pubblicato in Italia) ha in sé tutta la desolazione del Midwest americano – quell'esser sempre un po' a metà di tutto, né carne né pesce, sempre in una condizione media e mediocre, con un paesaggio che nulla ha di seducente e molto del disturbante (senza esser terrificante o apocalittico: semplicemente spiacevole, o un po' deforme), quel senso di "vorrei ma non posso", né di provincia né di centro del mondo, che è sempre a un passo ma è sempre irraggiungibile, pura mèta a cui tendere invano - desolazione cui peraltro molti altri ci hanno abituato, e molto, molto di nuovo. Può certo piacere o non piacere, ma a livello formale la capacità di Means di spostarsi, spostare il punto di vista, movimentare il tempo, soprattutto giocare con i processi mentali che si ingenerano a partire da, è incredibile, e certo lo fa apparire come nessun altro. È, credo, uno stile profondamente unico e personale, per la cui buona riuscita è fondamentale anzitutto l'aver compreso (da parte dell'autore) il fatto che questo genere di densità e contorsione può riuscire solo entro lo spazio del racconto, meglio se breve o comunque non troppo lungo. Altrimenti si scivola nel manierismo e nella contorsione fine a se stessa, col povero lettore che si arrabatta invano a stendere il filo, a sciogliere i nodi, a scoprire (inutili) enigmi, magari risalendo a ricostruire una catena di eventi per poi scoprire addirittura che l'epilogo è del tutto immaginario e ipotetico, come perduto o secondario (Incidente ferroviario - Agosto 1995, o anche I travagli della vedova, La presa). Ciò perché spesso il filo si nasconde, ed anche nudi fatti di cronaca o genericamente familiar-autobiografici hanno questa impronta (Quello che fecero, uno dei pezzi migliori della raccolta, Episodi incendiari assortiti, Il cacciatore di gesti); ma siamo sempre rassicurati dal fatto che non un'asciutta vicenda o concatenamento di eventi conta (per questo è fondamentale la durata del pezzo, il respiro della pagina), quanto il descrivere ciò che questi eventi muovono nella figura del protagonista, nella sua mente. Al centro dei racconti di Means c'è sempre una figura singola – soprattutto: sola – e i suoi processi mentali, siano questi ricordi, suggestioni, idee, possibilità; tutti quanti mossi tra passato presente e futuro, e in base ad un qualcosa che si sta svolgendo al di fuori. In definitiva, è la scrittura la protagonista assoluta (ad un certo punto della raccolta, in un breve racconto, a titolo Quello che spero io, a prender la parola è proprio l'autore in prima persona, intavolando un dialogo con la scrittura, in un gioco di rimandi che diventa scrittura sulla scrittura, meta-narrazione), e la libertà con cui la mente procede e si fa parola scritta. Si va avanti non con una consequenzialità puramente narrativa, bensì ad illuminazioni poetiche, improvvise, squarci tristi o nostalgici. Va da sé che la raccolta non può, per sua natura, essere uniforme o di livello costante; tuttavia determinati passi, determinati momenti colgono nel segno, e a fronte di una lettura tutto sommato “difficile”, rimangono meravigliosi barlumi e pesanti perle (tra cui si segnala in particolare Il lamento di Sleeping Bear).
Il piccolo volume ha suscitato enormi consensi in USA, e Means è stato inserito - senz'altro a ragione - tra i migliori scrittori statunitensi del nuovo millennio; quantomeno tra questi uno dei più originali. In Italia non ha forse riscosso lo stesso successo di altri di quest'ultima generazione (Saunders, Lethem, per tacer del compianto David Foster Wallace) e solo tre anni dopo è stata fatta uscire (per altro editore) la sua nuova raccolta, dal titolo Il pesce rosso segreto (The secret Goldfish) che più o meno ricalca gli schemi e gli stili della precedente. Comune un po' a tutti gli scrittori "made in Usa" di ultima generazione è la ricerca di un'originalità tematica e stilistica (Saunders ad esempio fa dello humor la sua arma di ricerca), ma in Means il discorso è ancora diverso: c'è una specie di partecipazione dolorosa, qualcosa che è come se toccasse nel profondo l'autore prima di tutto... una specie di poesia in forma di racconto, una tangibile forma di coinvolgimento personale.

maggio 16, 2011

D. DU MAURIER, Gli uccelli e altri racconti (The Apple Tree)

Dovendo dipoi (speriamo nel tempo affinché giunga in uno spazio mentale che si possa considerar ragionevolissimo e breve) recarmi in Cornovaglia per motivi di fondamentale importanza quali il mio personal diporto, diletto ed interesse nonché per spirito di vision del mondo (quindi, tutti motivi assai più importanti rispetto a ciò con cui di solito facciam nostro malgrado i conti - almeno io), ho deciso d'intraprendere il riempimento di una delle tantissime mie lacune colpevoli – più o meno tali – attraverso la conoscenza di una delle cosiddette voci del posto, bella quanto non molto conosciuta, sebbene da molti registi (Alfred Hitchcock su tutti) sia stata sfruttata come una miniera.
Si rimane sinceramente molto colpiti più che tutto dalla modernità di scrittura e di analisi psicologica dei personaggi; la Du Maurier rifugge in modo pressoché perfetto quanto di solito si ascrive al femminino in letteratura (ovviamente, parlo al ribasso: assolutamente non mia intenzione colpire scrittrici di gran calibro; solo che dico che nel mediocre gli uomini fan schifo in molti modi, magari anche più bassi e vili; le donne si assomigliano) ed è una pura mano che scrive, impermeabile al banale, al tumido e al melodrammatico, allo scipito e al lagrimevole: semplicemente inquietante nella sua complessità il ritratto per assenza di Midge (Il melo, forse il miglior racconto della raccolta – e non è un caso che il titolo orginale della stessa fosse The Apple Tree; ma si sa, bisogna pur vendere, e se da uno dei racconti Hitchcock ha tratto uno dei suoi film più famosi perché non sfruttarlo? Tutto in fondo è merce, oggi); davvero sorprendente il trovarsi di fronte a racconti di larga campitura, quasi dei romanzi brevi, in cui si può trovar sottigliezze di analisi del personaggio da grande scrittore ottocentesco – a me continua a venire in mente Maupassant, e da lì Huysmann, fino ad Edgar Allan Poe – e facilità e immediatezza di scrittura da scrittore a noi contemporaneo, fatto ancor più da rimarcare se si considera che questi racconti sono del 1952!
Tra gli altri, già notato di Midge (per tacer del marito), il personaggio dell'operaio di Baciami ancora, sconosciuto, col suo punto di vista distaccato e dimesso, potrebbe tranquillamente uscir fuori da una raccolta di racconti di Carver, laddove il tono da feuilleton fin de siècle della marchesa de Il piccolo fotografo s'innerva di venature noir quantomeno soprendenti (e appunto hitchcockiane, forse – paradossalmente - assai più che nel celeberrimo Gli Uccelli, che nulla più che un ottimo spunto tematico è stato per il regista).
Le figure della Du Maurier, mentre forse interessa meno alla scrittrice la descrizione del circostante - curioso come pur riuscendo lei a scrivere soltanto in Cornovaglia, così poco faccia entrare poi questa terra a caratterizzare le sue pagine, pagine in cui più che altro si descrive una generica, per quanto molto bella e seducente, campagna inglese - si stagliano su uno sfondo che è molto spesso la provincia, intesa sia come rifugio dalla Grande Città, che come condizione ideale per un raccogliersi narrativamente sul personaggio e su questo scavare, pur non tralasciando un gusto per la trama (in quarta di copertina parlano di gotico, ma è un po' un calcar la mano, esattamente come si fa quando stesso concetto di vuole applicare a certi racconti di Maupassant) e per la sospensione dell'intreccio – una certa suspence, un certo thrill, che uniti alla sottile analisi psicologica fan sì che su tutto scenda come un sottile senso di straniamento, cosa che magari ci rende il tutto ancor più moderno – che chiudono il cerchio, e fanno di Daphne Du Maurier sì un caso – perché non è conosciuta quanto merita?, e via discorrendo – ma soprattutto una grande scrittrice.

maggio 15, 2011

TRAFFIC, Steven Soderbergh

Traffic è un film notevole, sotto molti punti di vista. Vincitore di quattro premi Oscar nel 2000 (regia, sceneggiatura, attore non protagonista, montaggio), ha un cast di primissimo ordine, e il regista – si noti, non stiamo parlando di Stanley Kubrick o qualche altro mostro sacri - riesce a tenere il gioco in mano a tal punto da potersi permettere di trattare star di prima grandezza (Micheal Douglas e Catherine Zeta-Jones, per dire) come se tali non fossero, al di fuori cioè degli obblighi che la loro presenza farebbe supporre, e cui invece spesso costringe: un film fatto per, costruito sulle misure di.
La forza del film è, oltre che nei suoi interpreti, la sua complessità d'intreccio, la capacità di far comprendere senza spiegare esplicitamente - senza cioè porsi su un piedistallo e da lì far discendere con sicumera una lezione moralistica e didascalica, illustrativa e dimostrativa (Oliver Stone?) – la realtà del narcotraffico, colta prima di tutto in termini visivi e simbolici, e poi raccontata lucidamente in tutta la sua tragica complessità – ahimè! – inestirpabile (in questo senso credo che l'epilogo della porzione di film riservata a Micheal Douglas e famiglia sia l'unica stonatura di una perfetta quanto triste sinfonia; un "fuori luogo", un qualcosa d'obbligato, una costrizione – la produzione, le major, qualche alto papavero: tutto in nome se non proprio di un consueto lieto fine, quantomeno di un raggio di luce – siamo in un film, vogliamo far credere alla gente che i buoni alla fine vincono o comunque la speranza la conservano sempre, proprio perché sono i buoni?).
Spettatore impotente, guardi e rifletti, capisci che tutto questo è qualcosa di più che un film; ti rendi conto che vie di scampo non ce ne sono – o, se ci sono, sono sempre parziali, sporche, dal confine sottilissimo: facile sarebbe chiedersi perché una ragazza di sedici anni bella, ricca, intelligente, con tutte le possibilità del mondo davanti a lei, debba proprio perdersi nella droga; facile sarebbe chiedersi perché la moglie di un ricco professionista presunto impresario edile e (invece) comprovato pesce grosso del traffico di droga fra il Messico e gli USA non dia un taglio a tutto questo una volta esploso il bubbone ma anzi si improvvisi trafficante ella stessa, mandante di assassini, eccetera. Si va al di là della vicenda narrata, del puro fatto di un film, e al tempo stesso si ammira la lucidità di un documento e di un'inchiesta che metaforicamente riproduce l'esperienza della e nella droga (Stephen Gaghan – e si tenga a mente il nome – sceneggiatore con Steven Soderbergh, è un ex-tossico), con una storia che si avvolge su se stessa, seducente, sinuosa e poi disperante, spietata e spossante, senza vie di scampo, e in cui tutto può essere il contrario di tutto, esattamente come labile è il confine tra il bene e il male, tra i buoni e i cattivi, con la legge del caos che apparenta e impasta tutto, intrecciando vicende apparentemente assai lontane tra loro: il poliziotto di Tijuana Javier Rodriguez (Benicio del Toro, fantastico come sempre, premiato giustamente con l'Oscar come attore non protagonista – un vero e proprio esempio di Arte in movimento: ecco, il suo personale spicchio di piccola redenzione finale appare meno stridente di quello riservato a Micheal Douglas – possa forse essere perché al netto di ogni religione?) suo malgrado corrotto senza nemmeno accorgersene, irretito fra le spire del cartello concorrente agli Obregon, rappresentato a livello di “legge” dal generale Salazar (udite udite: un Tomas Milian mefistofelico e strabiliante); la sua vicenda con quella del giudice antidroga di stanza a Washington (con tutte le declinazioni di quel potere che dovrebbe simili piaghe combattere e che spesso – quando non sia proprio del tutto inadatto - si ritrova ad esser piaga esso stesso) e quella del trafficante di San Diego e dei poliziotti (Luis Guzman, Don Cheadle, altri due assolutamente a dare meravigliosa quanto consueta prova) che per incastrarlo lavorano; quella, per finire, dei ragazzi e degli uomini che nella droga finiscono per trovare una via, ciascuno a suo modo e al suo livello, ciascuno trascinato inesorabilmente dal fascino di qualcosa che agisce, fino ad esserne parte, sulla natura umana, i cui lati peggiori, si sa, son sempre quelli più facili da blandire.
Il messaggio di fondo, oltre alla bellezza stilistica dell'insieme – a volte un po' troppo schematica, forse: anche direttore della fotografia, Soderbergh sceglie programmaticamente di contrapporre le tonalità ocra e sgranate di Tijuana e del Messico al colore-calore tendente all'arancione di San Diego e all'azzurrino come patina che ingessa Washington e il potere in genere – è un grande senso di difficoltà, una constatazione dolorosa di uno stato di cose che per com'è esteso e cosa coinvolge e cosa tocca dentro di noi, ha in sé un senso di tragico e immutabile che gli attori per primi sono bravi a rendere, mentre la tessitura del film fa ripensare, dal punto di vista dello schema tecnico-narrativo, all'Altman di America Oggi, nonché, dal punto di vista dell'ambizione e complessità d'intreccio, al Coppola de Il Padrino, entrambi padri nobili di un prodotto che non sbiadisce certo troppo, al confronto. Da un punto di vista letterario, invece, Traffic trova certo il suo parallelo (per così dire, "postumo") – ancor più approfondito, ancor più tragico - ne Il Potere del Cane di Don Winslow.
Curiosità: la distribuzione italiana decide di doppiare le parti che nella versione originale erano state lasciate in spagnolo con sottotitoli (la parte messicana del film), perché si in Italia si vuol sempre esser tetragoni alle lingue, e guai se lo spettatore fa un piccolo sforzo in più. Incuranti di quello che si perde...
altra curiosità: la musica originale del film è suonata (fra gli altri) da Herbie Hancock e The Flea (Red Hot Chili Peppers)
Ultima curiosità: nel 2005 lo sceneggiatore del film, stavolta regista (con Soderebergh produttore) fa la stessa identica cosa trasportando il tutto in Medio-Oriente e passando dalla droga al terrorismo: il risultato è ugualmente tragico e intricato, e si intitolerà Syriana; gli Oscar stavolta saranno due (sceneggiatura e miglior attore non protagonista) e il senso di smarrimento e impotenza di fronte al male, identico.

aprile 27, 2011

Don Giulio diventa Papa!


Sono un Morettiano, non me ne vogliate.

Ammiro e apprezzo qualsiasi cosa faccia Moretti. Questo perchè mi son sempre sentito in sintonia con il suo modo di pensare. Non è facile andare a vedere un film e pensare questo film potrei averlo scritto io.
Habemus Papam è un film di maturazione del regista già provata con La stanza del figlio, in parte ma solo in parte non riuscita, che riapre il pensiero del regista, dopo le parentesi politiche, alla sua filosofia.
Il film mi pare diviso in due parti anche fin troppo slegate tra loro. Una  che mi piace definire morettiana, più ambientata all’interno del vaticano dove il regista attore è a contatto con i cardinali e le loro debolezze e paure e una seconda parte incentrata sul Pontefice e sui suoi dubbi.
Aldilà della trama, il film riporta Moretti a riprendere il filo conduttore di tutti i suoi film. La sua filosofia incentrata sulla solitudine.
Il tema o meglio il filo conduttore dei film di Moretti è la solitudine. la solitudine del talento più precisamente. Di chi comprende e non si riconosce nella società.
Ogni personaggio di Moretti brilla di solitudine, quella joiciana per intenderci, anche in un film dove il filo conduttore metaforico è uno sport di squadra, il personaggio nella piscina piena di atleti che giocano a palla  a nuoto, è solo.
Ed ecco che Habemus papam in questa ottica  non è altro che l’evoluzione naturale di Don Giulio, protagonista di La messa è finita (il film più bello di Moretti). Solo che lo spavento di Don Giulio di non essere adeguato al compito assunto e cioè di non riuscire ad essere capace di risolvere i problemi agli amici e parenti che ormai non riconosce più perchè cambiati e quindi di cambiare a sua volta per comprenderli,  qui assume connotati certo più importanti essendo Papa e non  prete di periferia a dubitare del proprio ruolo. E così se prima era difficile pensare di dare il consiglio giusto all’adulto che voleva fare la prima comunione o al genitore, padre, che separatosi voleva costruire una nuova famiglia, tanto da indurre Don Giulio a dubitare della sua stessa fede ed a portarlo ad attuare scelte di deresponsabilità scappando lontano in un posto “dove non c’è nessuno e la chiesa è una tenda ancorata al terreno per non essere portata via dal vento”, adesso le scelte riguardano  l‘idea stessa della esistenza delle linee guida della nostra società, vale a dire delle ideologie.
Quelle linee ideologiche con le quali la società ha creato la religione, le chiese, i partiti.
La fede nella esistenza e l'esietenza stessa di queste costruzioni sociali, chiesa compresa.
E così mentre Don Giulio chiudeva la messa con una scena bellissima dove tutti ballavano in chiesa sulle note di ritornerai ridendo nella speranza di ritrovarsi, il messaggio finale diHabemus Papam pessimista ci comunica il fallimento delle ideologie, direi di tutte e conseguentemente della nostra società.

HABEMUS PAPAM, Nanni Moretti

Ad un primo sentire, ad un ripensarci a caldo, quel che il nuovo film di Nanni Moretti lascia è un che d'irrisolto, un qualcosa che rimane in sospeso, un giudizio che non si forma compiutamente. A qualche giorno di distanza mi continuo a chiedere perché: c'è forse uno spunto geniale nella sceneggiatura, nell'idea di fondo del film; ci sono momenti sinceramente esilaranti, altri decisamente originali e pure stilisticamente notevoli; il consueto tocco d'autore, ormai vera e propria cifra stilistica che sconfina nell'autocitazione (ancora piacevole - gli habitué avranno certamente capito che intendo il consueto momento di sospensione quasi lirica della canzone, del - diciamo così - "ballo d'insieme", del tableau che si sofferma come fuori dallo schema narrativo, innalzato dalla musica); ma forse manca una direzione finale, una sintesi, un approfondimento e una sviluppo in profondità del tema di fondo. È piuttosto ovvio che questo tema di fondo sia il sentimento d'inadeguatezza e paura, sempre attuale per i nostri tempi e ancor più bruciante e d'impatto se lo si immagina appiccicato a chi dubbi non dovrebbe nutrirne per sua stessa realtà costitutiva, parlo ovviamente del papa, un papa eletto direttamente da Dio per tramite di un conclave appunto dall'alto illuminato ed ispirato. E niente di più terreno si può immaginare, per contro: dalla scena in cui ogni cardinale si augura in cuor suo di non essere eletto (una delle migliori del film), ai ritratti che caratterizzano ciascuno di loro colto nel proprio particulare (nessuno – chi si riempie di ansiolitici, chi gioca a carte, chi fa i puzzle – dei cardinali di Moretti è preso nell'atto di pregare: difficile pensare che sia un caso), come immaginare un sentimento diverso nutrito in petto da chi da tal consesso fuoriesce quale presunta guida? Quindi: riflessione sulla dicotomia esistente tra una istituzione (la Chiesa, fatta – male, per quanto qui prevalga sguardo tutt'altro che fustigatore e machiavellico, casomai indulgente e bonario – dagli uomini) e quel che questa dovrebbe rappresentare (il divino, che dappertutto si potrà trovare fuorché in Vaticano)? Tentativo di ripensare il mondo e la presenza dell'uomo in esso nei termini dell'antico adagio del palcoscenico e di noialtri come attori, lì ad indossare costantemente una maschera e magari chiedersi cosa comporti e quanto pesi (ed ecco la catartica fuga del neo-papa entro i rassicuranti – si fa per dire... – luoghi di chi per l'appunto esorcizza questo sentire confinandolo e confinandosi al di là di un arcoscenico e un sipario)?
Il fatto probabilmente è che Habemus papam commedia è – e buonissima – e commedia resta: sarebbe sbagliato voler vedere qualcosa che forse non c'è, o c'è solamente a tratti (quanto a questo in effetti qualche scivolone, qualche superficialità sono piuttosto lampanti, valga per tutte il papa in borghese che incrocia, sulla porta di casa di questa, la psicologa da cui ha cominciato il trattamento – un tocco d'irreale un po' troppo stridente); di sicuro c'è un interprete notevolissimo (ovviamente Michel Piccoli, la cui dolente umanità, il senso di straniamento, l'ineluttabile percorso verso un nuovo gran rifiuto che lo muovono sono veramente straordinari), e un altro costantemente sopra le righe, come da tradizione – la sua forza e la sua debolezza: ricordate l'orrido (e sopravvalutatissimo, quasi una fictionesco) La stanza del figlio? Accantonate simili tonalità e colori, la figura dello psicanalista ci regala momenti assolutamente irresistibili, e torna il Moretti a cui basta un'inquadratura e un'esclamazione per dare al suo film una comicità pura (il dialogo sul darwinismo col cardinale dialogo che riprende le battute del loro primo incontro subito prima della prima “seduta” medica per il nuovo papa, mentre tutt'intorno si svolgono ardite partite a pallavolo è un momento che ha veramente pochi precedenti, a mio parere, nella storia della commedia). Azzeccato e acuto, giustamente condotto quasi in flebile controcanto – anche se si poteva marcar di più: perché riservare tutte le riserve di acidità per il solo TG2? - il ritratto dei giornalisti. Originalità, senza strafare o far espliciti sberleffi: un tocco da veri maestri. E per di più, non si avverte quasi mai quel senso di povero, di misero, di stantio che affligge il cinema italiano. E non è poco.
Tra tutto quello che è stato detto (oscar della stupidità – la novità! - agli articoli de Il Giornale e soprattutto di Libero), forse semplicemente questo è un film che chiude in modo minore, facendo quindi falsamente pensare a qualcosa di tirato via e a qualcosa di inespresso che rimarrebbe nell'aria, tra quelle tende che restano mosse dal vento sul balcone da cui non si affaccia nessuno.
E forse proprio in questo sta la sua grandezza, nell'annunciare musicalmente una cadenza e andarci serenamente incontro, come serenamente Michel Piccoli decide di cedere a quel che prova dopo aver ascoltato un sermone di un umile e (anche questo non un caso: "Cardinale, palla prigioniera non esiste più da vent'anni!") giovane prete di periferia, che parla della necessità di riconoscersi bisognosi di aiuto, del nostro non essere adeguati. Ecco: spogliate questo messaggio della valenza un po' autoflagellante propria del cattolicesimo, ed ecco il consueto tema registico morettiano, da La messa è finita in giù, passando per Ecce bombo, e via andare.
Cosa siamo diventati?

aprile 17, 2011

ELMORE LEONARD, Out of sight

A differenza di Lansdale, i libri di Leonard apparentemente non danno dipendenza. O magari ne danno, ma in misura meno immediata. Questo soprattutto perché, forse, leggere un libro di Leonard non è un'impresa così d'evasione come i temi e le trame lascerebbero invece supporre. Uno stile ellittico, che cerca continuamente il fuori fuoco virtuosistico, il flash-back e l'inserzione mossa, il taglio e il tratto da artista vero (a me con Leonard viene costantemente da pensare all'arte contemporanea, da Pollock a DaKooning, poi non so se questo sia plausibile o esteticamente corretto) si accompagna a un plot che è un intricato insieme di situazioni, riferimenti storici e (soprattutto) personaggi, sempre più còlti che descritti apertamente (in questo forse la tecnica da pittore dei nostri tempi, nel non ritrarre qualcosa d'altro, cogliendo essenze e ricreando); sempre presi in profondità e caratterizzati non con elaborati ed eleganti periodi da romanziere, perifrasi analitiche e sottili, bensì con tratti nervosi e del tutto imprevedibili - un dato adesso trasmesso "per obliquo" ed un altro cinquanta pagine dopo, detto per inciso, e qualcos'altro ancora poi da coglier tra le righe dei dialoghi, e via così. A rimettere insieme i pezzi un po' ci vuole, ed è un impegno: un'evasione col suo prezzo, mettiamola così. In più, c'è forse il discorso di una certa irregolarità: alcuni dei lavori di Leonard sono saghe, ma non del tutto consecutive e perfettamente susseguenti o conseguenti l'una all'altra - cosa che per il successo e l'immediatezza di una saga (le fiction - ahimè - insegnano!) pare invece fondamentale: invece in Leonard un personaggio si ritrova anni dopo, senza ricordi del precedente episodio, con significativi cambi di orizzonti, magari solo in un racconto; il tutto quasi che lo stesso protagonista abbia avuto per il suo autore due o tre diversi destini più o meno legati, destini che proprio in grazia del suo essere immaginario e immaginato ha potuto vivere (con Jack Foley, ad esempio, protagonista di questo Out of sight, succede qualcosa di simile con Road Dogs; lo sceriffo Carl Webster ha invece una saga più ordinata e un romanzo forse più nobile come Hot Kid, etc.)
Comunque sia: passa un po' di tempo, leggi qualcos'altro, ti distrai, cambi rotte, e quindi ti ritrovi immancabilmente lì, con un altro libro di Leonard in mano, un altro pezzo di qualche anno addietro, un altro frammento che Einaudi StileLibero sta tirando fuori con veste aggressiva e rinnovata (idem per quel che riguarda i prezzi, ma su questo lasciam correre, ché così a poco serve: oggi - massì, seguiamo il marketing e i suoi diktat! - tutto è un capolavoro, quindi costa. Pagate!), per render giustizia ad una produzione sterminata e fino ad oggi disciolta fra le più introvabili ed irregolari edizioni economiche, fra racconti e romanzi, sempre ascrivibili entro la tanto vituperata sottocategoria del genere (crime novel, noir, western shortcut, e via così, se vi piaccion le etichette), eppur sempre qualcosa di più, vuoi per la tecnica di scrittura, unica e un po' spiazzante, vuoi per riferimenti storici ben precisi e parimenti impegnativi per chi legge.
Certo, ci sono punte più o meno alte; manca secondo me il capolavoro, la punta di diamante, e l'opera di Leonard è più un continuum in cui conta più che tutto lo stile (per quel che mi riguarda il miglior libro è forse Mr Paradise - ancor più sorprendente se si pensa che è stato scritto da un ottantenne - seguito da A caro prezzo e Killshot, mentre se l'autore fosse riuscito a disperdere un po' meno, anche Cat Chaser sarebbe tra i più notevoli - il primo capitolo è assolutamente fantastico, poi la magia si perde...); ma veramente si tratta di una voce unica e a cui tantissimo deve molto del cinema odierno (Tarantino, per dire il primo a cui penso, sebbene lui ami forse più citare Charles Willeford e Edward Bunker), che non a caso spesso attinge al di là della semplice ispirazione e indirizzo stilistico per tradurre (bene o male) sullo schermo molti dei romanzi: Get Shorty, Jackie Brown, Be Cool, Killshot, e ne tralascio sicuramente molti.
Nel caso in questione, il turno è di Steven Soderbergh, il quale cerca visivamente, lavorando di forbici e di inquadrature un po' sui generis, di tradurre lo stile ellittico di Leonard, riuscendoci specialmente nel tete â tete tra Karen Sisco (Jennifer Lopez, invero non molto credibile come Federal Marshal) e Jack Foley, sì che uno arriva a scordarsi anche quel troppo di patinato che ogni tanto affiora (incontro tra le due star più sexy di Hollywood e altre baggianate del genere). Certo, scontiamo poi il buonismo imperativo e l'happy ending di cui il pubblico si deve - ma perché poi? - giocoforza nutrire, col finale alterato e riscritto, ma questa non è colpa di Leonard (men che mai, visto che non firma nemmeno la sceneggiatura), né - probabilmente - di Soderbergh, che comunque firma qualcosa di meglio della saga biecamente da cassetta di Ocean (Eleven Twelve e Thirteen) e qualcosa di peggio della saga del Che (L'Argentino e Guerriglia) e si diverte a rendere coi cammei cinematografici (Micheal Keaton, gioco doppio ché ricalcato sul Jackie Brown della notevole coppia Leonard+Tarantino, Samuel L. Jackson) la rigogliosa foresta di personaggi che colora i romanzi dell'autore.
Buoni sentimenti e cattivi al loro posto, o quel che volete, nel film; ma nel libro - as usual - c'è più libertà, più intensità, la meraviglia dell'originalità di situazioni che di fatto son sempre le stesse (come ambito sociale, alchimia dei comportamenti, etc.) eppur son sempre nuove, e come ogni volta o quasi Elmore Leonard, mentre si fa ammirare per lo stile, diverte.
Non male, direi.

aprile 04, 2011

The Spleen Orchestra

Premetto che non sono un esperto – perché, potrebbero obiettare gli utenti (quei due o tre massimo quattro e non fa testo il sodal altro latore della presente Somma Opera Critica - anzi sì, vai: esageriamo!) i quali, insanità loro, leggon le presenti pagine virtuali: di cinema, di letteratura, di teatro, di sciroppo di fragole saresti un esperto? Ma certo che no, diavolo! Diciamo che – dovessi – amerei definirmi con le samraimiani parole riservate al protagonista de L'Armata delle Tenebre, di esperto “del cazzo e della merda” – eppurtuttavia due parole sulla performance della nottata di jer sera in quel di Prato, Siddharta Alternative Club, ad opera dei succitati, meriterebbe spendere.
The Spleen Orchestra è (autodefinizione) “un circo freak all’insegna dell’immaginario Timburtonesco. Atmosfere gotico-fiabesche e brani tratti dai più celebri film di Tim Burton eseguiti dal vivo”. Otto elementi (batteria, pianoforte e tastiere, fisarmonica, chitarra, basso, voce maschile più voce femminile e costumista) che danno vita ad uno spettacolo memorabile e di livello veramente notevole, sia dal punto di vista musicale e vocale che da quello scenografico, il tutto omaggiando Tim Burton e Danny Elfman, il musicista che da sempre ne condivide le strade in chiave musicale, un po' come Johnny Deep e la moglie Helena Boham Carter davanti la macchina da presa.
Nel caso, sarebbe anche troppo facile ricordare i primi Genesis, quelli per intenderci di Peter Gabriel che si travestiva e di Tony Banks che traduceva in sonorità strampalate eppur meravigliose i personaggi che il front-man creava e cantava sul palco.
Sia, tutto sommato, tanto; forse troppo? Eppur non credo di andarci assai lontano: la presenza scenica del vocalist maschile (Moreno “Sguangia” Teriaca) è assolutamente d'impatto, e le sue capacità vocali, di recitazione e impersonificazione – dico senza esagerare: metodo Stanislavskij puro – strabiliano; gli arrangiamenti musicali (ad opera della vera e propria mente del gruppo, il pianista-tastierista-direttore artistico Silvano Spleen) sono di un livello da professionisti veri e - cosa che nel giro conta assai - producono un insieme sonoro che mai disturba o arruffa i singoli strumenti entro il casino rimbombante di una batteria percossa tanto per riempire. Fateci caso: poi sarà colpa mia, ma tutti i gruppi che uno finisce ad ascoltare (parlo di roba semi-professionale, prima che gli stessi abbian colmato quel margine finale che li divide da fama & professionismo) più che musica, fanno rumore. La voce non si sente (e spesso è un bene – i corsi per chitarra, tastiera, basso etc. ci sono anche per autodidatti, anche all'edicola in comodi fascicoli; ma quelli per voce? Di solito si appioppa a una ragazzotta vagamente intonata o ad un qualch'emulo – in camera sua, magari allo specchio, se non proprio sotto la doccia – di Jim Morrison il microfono, e si dice loro: vai canta!); la batteria copre tutto il resto, rintrona e rullante-cassa-rullante-piatti-cassa-rullante-mammamia fa un grande e grossissimo casino, complici anche un fonico da barzelletta e un impianto di amplificazione non proprio da manuale, sia questo in testa al locale, (in cui spesso conta più che la gente non si senta e basta, rispetto al non sentirsi per ascoltar qualcosa, o magari anche solo per ballare – rumore-distorsione-rumori-distorsioni), sia in testa al gruppo che ha pagato i watt ma non li riesce ad usar granché. Se ci fate caso, prima o poi in un concerto di un gruppetto, ci sarà sempre qualche membro che fa disperatamente cenno al tizio al mixer che lui - poveretto - non si sente. Noi con lui, peraltro.
Ma vabbe': poi, il discorso cambia un po' se ci si sposta sull'acustico o sul jazz – ove potendo sentire, nel vero senso del termine, vengon fuori i difetti tecnici o (più che tutto) d'espressione – ma tutto questo sol per dire che così non è con la Spleen Orchestra, che produce un'intelaiatura sonora di prim'ordine: la batteria – pur essendo (eccome!) anche percossa e non solo “spazzolata” - non prevarica, il basso non “buba”, il pianoforte crea e frizza, la fisarmonica ricama, la chitarra si fa apprezzare anche quando arpeggia. E la voce, signori, la voce: si sente! Entrambe! (Forse la cantante, Alessandra Marina, potrebbe "tenere" un po' meglio nei vocalizzi, ma si è trattato veramente di momenti, sporcature o cali episodici, forse assolutamente casuali). Notevoli le facce e le impersonificazioni di entrambi, con costumi ed effetti da prima classe; più che tutto però quel che colpisce è l'istrionica capacità del front-man, che tiene ed assorbe la scena con anche una mimica facciale che è tutto un programma: il tutto fa davvero sì che si abbia l'impressione di esser davanti a qualcuno (molti?) in carne ed ossa, magari uscito da un film - attenzione: il confine tra il bello ed il ridicolo, qui, sarebbe assai sottile, quindi doppia lode!
E tutto quanto sopra non vien peraltro dopo l'impasto sonoro e gli arrangiamenti che fotocopiano impeccabili gli originali, trascinandoti di colpo accanto a Jack Skeletron, Willy Wonka, The Bride, e via così.
In definitiva: originalissimi. Interessante idea, realizzata assai bene, certo meritevole di più notabil palco (almeno rispetto a questo!)

marzo 31, 2011

SILVIO FOREVER, R. Faenza-F. Macelloni

Andate a vedere Silvio Forever. Se ci riuscite, certo, giacché ad esempio la rai ha oscurato il promo del film (mancava il contraddittorio nelle dichiarazioni della defunta mamma Rosa, o non era rispettoso mostrare una defunta ma quand'era ancora viva in un film - non s'è mai capito troppo bene quali fossero i motivi) e non è detto che il medesimo riesca a durar granché, in sala. Andateci: non ci sarà niente di più di quel che non abbiate già visto, e purtroppo non sposterà d'una virgola la situazione attuale, che è un po' lo stesso dato di fatto che poteva valere per Videocracy prima e Draquila - L'Italia che trema poi. Però andateci lo stesso: perché il senso di disgusto che si avverte durante quel che si vede, alternato agli spasmi d'ilarità che si provano quando si riesce, magari solo per un attimo, a vivere la situazione sullo schermo come se fosse effettivamente solo sullo schermo, sono impagabili. In entrambi i sensi; in entrambe le direzioni. E mettiamoci pure il senso (non sarà molto, lo so: ma contentiamoci!) pseudo-consolatorio e un po' (lo ammetto: ma concediamoci anche qualche atto d'amore verso noi stessi!) auto-referenziale di non esser mai appartenuto al novero dei tanti – tanti? Io son tra quelli che di brogli ha sempre accusato l'accusatore, in nome d'una ben nota strategia d'un marketing spicciolo che più o meno recita: accusa il tuo avversario di quello che fai tu – che l'hanno in qualche modo fatto arrivare dove si trova, e che ci fa sentire come orgogliosi nel ripeterci “io sono diverso, io sono diverso, io sono diverso”.
Al di là di e più che tutto, forse, l'importanza di film come questi sta nel fatto che mantengono bassa – o contribuiscono a darle una salutare scossa – la soglia di assuefazione che chi comanda vorrebbe diffondere a macchia: vedere che siamo comandati da un tizio che dice di avere, già a quattro-cinque anni, salvato la vita alla sorella che era caduta in un mastello per i panni; che a sei andava a mungere le vacche e veniva pagato in natura e portava il secchio di latte in casa, per sollevar seppur di poco le ristrettezze da tempo di guerra del focolare; che a sette raccoglieva la carta per strada e la metteva a macerare nella vasca da bagno e rivendeva poi quel che ne risultava come carburante (qui – confesso – non m'han retto gli occhiali sul naso, e dal ridere mi son finiti sotto la poltrona del tizio davanti); che a scuola faceva i compiti ai compagni in cambio di soldi, salvo poi restituire le somme qualora questi ultimi non fossero arrivati al sei; che negli anni dell'Università (ovviamente la Cattolica) metteva a disposizione del prossimo, dopo ciascun esame superato, i propri mirabolanti riassunti, manco a dirlo notati ben presto dai piani alti di detta università, dalla quale conseguentemente affluiron tosto danari per coprire i diritti d'autore (?) del brillante laureando, col medesimo che ovviamente dava il tutto regolarmente in beneficenza – insomma, ascoltare tutto questo è, credo, quantomeno salutare ed istruttivo.
Se poi viene raccontato direttamente dal protagonista, insomma... che aggiungere? Già perché il docu-film di Faenza e Macelloni ha questa particolarità: nessun racconto su Berlusconi, fatti salvi qualche opinione o qualche aneddoto raccontati dai diretti interessati (Indro Montanelli, Marco Travaglio, Dario Fo, ma anche mamma Rosa, Mike Bongiorno, e via così), viene da fonti diverse rispetto alla sorgente primaria e più pura: la voce diretta dell'attuale presidente del consiglio, che racconta la sua vita e parla di sé in interviste, talk-show, comizi. E ricostruisce da solo la sua storia, Una Storia Italiana (sì: confesso che io li ho entrambi, e li custodisco geloso!);  quella di uno strepitoso personaggio della commedia dell'arte – per dirla con le parole con cui è stato presentato il film. Una storia che diacronicamente annovera gli inizi misteriosi nell'edilizia, il mausoleo privato e le vicende di governo; le comparsate da Vespa e il puttanajo da – si spererebbe: macché! – crepuscolo del sultanato di provincia che s'è aperto e continua ad aprirsi nonostante mamma Rosa avverta ad inizio film: "mai vedrete Silvio nelle foto con le donne". No, mai: e se ci sono, son tutte tizie di specchiata moralità. E l'SMS di Nicole Minetti a un'altra tizia di cui (mi si perdonerà) non ricordo il nome: “più troie siamo, più bene ci vorrà”, è solo un elaborato messaggio in codice per dire che il premier l'altra sera ha fatto beneficenza all'UNICEF.
E non si pensi – più di tanto: cioè, non nel senso in cui lo fu ad esempio Draquila, di Sabina Guzzanti – a un'operazione brutalmente militante: quello che viene fatto qui, con anche la collaborazione di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo (autori de La Casta) è semplicemente elencare, mostrare, incollare. Certo – alcuno potrebbe obiettare – si posson fare operazioni ben assai militanti con semplici opere di taglia e cuci, ma alla fine le parole contano, e le azioni pure; e di entrambe, almeno qui, per lo spazio di 85 minuti 85, è direttamente responsabile il medesimo. L'opposizione – quella propriamente detta, quella politica – non compare mai (e direi che non è un caso); i tanto vituperati magistrati di sinistra nemmeno: compaiono, nella parte di loro stessi, Zapatero ed Angela Merkel, con le loro facce tra l'incredulo e l'imbarazzato; compare il simpatico Gheddafi, a cui s'è pensato bene a suo tempo di baciar la mano; compare il buon Dell'Utri, quando dice che la mafia non esiste. Il resto è nient'altro che - appunto - una storia, una storia raccontata dal protagonista. Un'autobiografia non autorizzata.
E cercate di vederlo, se potete. Sarà pur meglio di Amici miei - Come tutto ebbe inzio o qualcosa del genere, no?
(Ok, da un punto di vista più strettamente cinematografico, si potrebbe notare come al cinema italiano sia rimasta quasi solo simile strada, la strada del documento e del film-verità, per fuggire alla asfitticità e miseria a cui lo inchiodano con precisione quantomeno preoccupante commediole scipite e banalmente di carattere, regionali e dozzinali, che vorrebbero replicare, vieppiù svilendolo, un modello che altra fortuna e altri interpreti ebbe in altre epoche, ma lasciamo stare, ché la cosa s'addice sì, ma mi pareva s'addicesser più due parole sul contenuto e se ci mettiamo a far gli schizzinosi anche sull'estetica e sulle questioni di stile si va ancor meno lontano
).

marzo 28, 2011

CLOCKERS, Spike Lee

Amo Spike Lee. Credo che a un primo livello, superficiale, “di pancia” o qualcosa del genere, sia proprio una cosa così: o adori i suoi film o non lo sopporti. Questo certamente perché i temi sono più o meno sempre gli stessi, tanto che probabilmente i detrattori potrebbero cercare di ascriverlo (come si fa inopinatamente di solito - mossi da non so bene qual intento catalogatore, dall'alto della nostra boria – quando si vuol rimpicciolire, rimettere al proprio posto, distribuendo patenti “da minore” rispetto a – che cosa, tra l'altro?) al cinema di genere: brutalmente, e per voler liquidare la cosa, potrebbero senz'altro sostenere che Spike Lee si macchia dell'orribile colpa di fare film di genere, quindi può certamente esser preso con sufficienza, con un sorriso di circostanza, lo stesso che di solito i medesimi riservano a chi scrive noir (orrore!), thriller (mioddio!!!) e via così. Come se la grandezza, l'arte, la bellezza, quel che diavolo vi pare e serve a far vivere meglio questi gran signori, dovessero senza tema di smentita trovarsi tutte nel cosiddetto mainstream, che è ovviamente puro, assoluto, e non si contamina certo con gli spuri e vituperabili generi, tantomeno con uno che sforna invariabilmente film sulla questione razziale. Questa la sua colpa, questo il suo genere. Che tanto poi la questione razziale è faccenduola di poco conto, roba da caratteristi...
ora, sicuramente il regista su questo aspetto gioca, e a volte pure pesantemente (oltre ai continui rimandi a Malcom X e Martin Luther King, anche chiamare la propria casa di produzione 40Acres & a Mule Filmworks, a perpetua memoria della promessa di risarcimento fatta agli schiavi africani alla fine dello schiavismo, vale a dire quaranta acri di terra e un mulo, è dato assai significativo) ma ovviamente poi, se riusciamo a metter da parte tutte le idiozie di cui sopra, saremo anche serenamente in grado di vedere che ad esempio un libro come In fondo alla palude è un capolavoro assoluto anche se (per dire) da noi è uscito in prima edizione nella collana dei Gialli Mondadori e non nei nobilissimi Meridiani; che Lehane o Leonard sanno ogni tanto (ogni tanto, per carità: e chi vorrà sostenere che l'intera produzione di – chessò – Capote o Hemingway sia meravigliosa a prescindere, nella sua interezza?) essere grandi scrittori. E mille e mille altre cose, tra cui non ultima che il regista di New York (in realtà è nato in Alabama, ma fa lo stesso – solo Woody Allen è newyorkese quanto lui) ha sfoderato quantomeno due film di assoluto livello, sotto tutti i punti di vista, e uno è senz'altro questo, il suo film numero otto, datato 1995. Chi ha familiarità con la sua filmografia saprà di certo qual è l'altro, che credo resti anche uno dei migliori film in assoluto per l'ultimo decennio – parlo ovviamente de La 25° ora (2002), che ha tutte le rotondità dell'Opera Matura, con le due rispettive lettere maiuscole e i singoli e ricorrenti temi trascesi e fusi nel capolavoro, quindi non stiamo tanto a perderci tempo.
Detto per inciso, altre suoi notevolissimi lavori sono He got game (del 1998, film con un paio di sequenze che varrebbero le famose scene del “triello” di Sergio Leone ne Il buono, il brutto e il cattivo: fanno scuola! – mi riferisco ad alcune scene di gioco e soprattutto all'ultimo pallone in aria mentre Denzel Washington va verso il muro della prigione) e Inside man (2006), ma appunto perché lo diciamo per inciso non importa stare a dir molto altro.
Clockers comincia come un documentario sulla vita di strada (i crudi titoli di testa - come sempre a valere qualcosa di più di quel che sembrano nella produzione del regista – cadaveri, gente che guarda, nastro giallo do not cross, sangue sul marciapiede); diviene un saggio sulla cultura afro-americana e sull'integrazione, e si chiude come una vicenda a metà fra la cronaca e il noir, con un manicheismo che come sempre succede nei film di Spike Lee pare esser l'unica fonte di aggregazione nonché l'unico punto focale della vicenda, e invece è l'esatto contrario, con i neri del ghetto visti tutt'altro che con aprioristica condiscendenza e coi bianchi che non necessariamente sono i bastardi oppressivi che detengono il potere e schiacciano i Fratelli – altro che film di genere, ma questo vallo a spiegare agli intellettualoidi!
C'è un'umanità e una partecipazione in questi personaggi (Strike – per me sarebbe stato da Oscar – suo fratello Viktor, il poliziotto André, la stessa coppia di detective Keitel-Turturro, o il magnifico Delroy Lindo, che ci spiega come il Male possa essere una gabbia in cui ti trovi quasi per caso, e il confine da varcare non è poi mai così lontano) che raramente vediamo in un film; e l'assenza di retorica o facili moralismi sarebbero una lezione che farebbe tanto comodo imparare a tanti, primi fra tutti due nomi eccellenti e ben più celebrati, quali Steven Spielberg o Oliver Stone.
Brooklyn è uno sfondo – in questo senso il regista ha fatto grossi passi in avanti rispetto a Fa' la cosa giusta (1989, sua prima opera a tutti gli effetti), in cui in uno scenario un po' caricaturale si muovevano figurine altrettanto eccessive, in uno schematismo di fondo quello sì un po' manicheo – che conquista suo malgrado, col suo squallore a metà e la sua decadenza assolata: e Strike sogna una fuga dai suoi blocks e al tempo stesso vi è intimamente legato (ideale dell'ostrica aggiornata ai nostri giorni), perché solo qui si fanno i soldi, e solo con la droga.
Sembra tutto così immutabile, così prestabilito che se non sei un duro non sei niente.
Spike Lee rende così bene la caratterizzazione, l'ambiente, l'agire umano con le sue varietà (dalla ferocia insensata all'amore protettivo della madre; dal senso di oppressione che l'uomo ottiene – quasi beffarda ricompensa – dal suo volersi integrare e piegare nel sistema allo spirito di emulazione che tragicamente perpetua ed amplifica pessimi modelli, quasi avessimo capacità innate di assorbire e ricreare più facilmente il peggio piuttosto che il suo opposto); tutto quanto è così reale che ti sembra di esser lì, in mezzo alla gente e muoversi con loro. E su tutto c'è anche un intreccio di prim'ordine, tratto da un romanzo di Richard Price; una musica e una fotografia che assolvono in modo del tutto virtuosistico ai propri compiti (rispettivamente di Terence Blanchard e Malik Sayeed, da sempre collaboratori del regista), e un'ultima, struggente sequenza di chiusura, anch'essa da scuola di regia: il bambino che gioca felice coi modellini dei treni, mentre Strike felice ed incredulo, su quel treno che finalmente ha preso, guarda l'orizzonte, e un cartellone pubblicitario recita "no more packing", promessa (forse non mantenibile, ma chissà!) di una nuova vita, nel tramonto.

marzo 27, 2011

PIRANHA 3D!


Il titolo , la locandina, i trailer mi avrebbero  fatto presupporre una boiata di film colossale.

Invece questo remake del film di Dante del 1978 è  più riuscito dell’originale e rappresenta un tributo ai film di Corman e alla sua filosofia cinematografica.
Di fatto ci sono tutti gli elementi del cinema cormaniano.
Dosi industriali di sesso, sangue, azione, perdere meno tempo possibile sulla caratterizzazione dei personaggi e il loro spessore psicologico e utilizzare ogni espediente splatter per catturare lo spettatore.
La  trama è decisamente infantile: un terremoto apre una faglia sul fondo del lago, da dove escono migliaia di piranha preistorici enormi, affamati e feroci.
I voraci pesciolini troveranno un supermercato di carne umana, visto che sul lago si sta celebrando una sorta di festival della tetta.
Le scene di sesso, mai volgare, ironiche e divertenti sono garantite da migliaia di ragazze seminude. Il numero di comparse, (belle ragazze in costume), fa rabbrividire  e impallidire le comparse di Ben Hur.
Inoltre, per dare pepe al tutto, sono state inserite nel cast anche due attrici porno Gianna Michael e Kelly Brock.
Le scene splatter invece di far inorridire riescono ad essere divertenti.
Il giudice del concorso miss tetta dura, per esempio, perde letteralmente la testa  mentre guarda le tette di due ragazze e non si accorge che sono state tagliate in due da un cavo di acciaio.
C’è anche il cameo di due grandi attori, Richard Dreyfuss vestito come l’oceanografo da lui interpretato ne Lo Squalo e Christopher Lloyd che interpreta una specie di fratello del suo Doc di Ritorno al Futuro.
Insomma, ci si diverte molto in questo film, soprattutto chi ama il genere.
Che cosa si può chiedere di più ad un horror volutamente di serie B se non di farci divertire?
Direi niente.