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maggio 15, 2011

TRAFFIC, Steven Soderbergh

Traffic è un film notevole, sotto molti punti di vista. Vincitore di quattro premi Oscar nel 2000 (regia, sceneggiatura, attore non protagonista, montaggio), ha un cast di primissimo ordine, e il regista – si noti, non stiamo parlando di Stanley Kubrick o qualche altro mostro sacri - riesce a tenere il gioco in mano a tal punto da potersi permettere di trattare star di prima grandezza (Micheal Douglas e Catherine Zeta-Jones, per dire) come se tali non fossero, al di fuori cioè degli obblighi che la loro presenza farebbe supporre, e cui invece spesso costringe: un film fatto per, costruito sulle misure di.
La forza del film è, oltre che nei suoi interpreti, la sua complessità d'intreccio, la capacità di far comprendere senza spiegare esplicitamente - senza cioè porsi su un piedistallo e da lì far discendere con sicumera una lezione moralistica e didascalica, illustrativa e dimostrativa (Oliver Stone?) – la realtà del narcotraffico, colta prima di tutto in termini visivi e simbolici, e poi raccontata lucidamente in tutta la sua tragica complessità – ahimè! – inestirpabile (in questo senso credo che l'epilogo della porzione di film riservata a Micheal Douglas e famiglia sia l'unica stonatura di una perfetta quanto triste sinfonia; un "fuori luogo", un qualcosa d'obbligato, una costrizione – la produzione, le major, qualche alto papavero: tutto in nome se non proprio di un consueto lieto fine, quantomeno di un raggio di luce – siamo in un film, vogliamo far credere alla gente che i buoni alla fine vincono o comunque la speranza la conservano sempre, proprio perché sono i buoni?).
Spettatore impotente, guardi e rifletti, capisci che tutto questo è qualcosa di più che un film; ti rendi conto che vie di scampo non ce ne sono – o, se ci sono, sono sempre parziali, sporche, dal confine sottilissimo: facile sarebbe chiedersi perché una ragazza di sedici anni bella, ricca, intelligente, con tutte le possibilità del mondo davanti a lei, debba proprio perdersi nella droga; facile sarebbe chiedersi perché la moglie di un ricco professionista presunto impresario edile e (invece) comprovato pesce grosso del traffico di droga fra il Messico e gli USA non dia un taglio a tutto questo una volta esploso il bubbone ma anzi si improvvisi trafficante ella stessa, mandante di assassini, eccetera. Si va al di là della vicenda narrata, del puro fatto di un film, e al tempo stesso si ammira la lucidità di un documento e di un'inchiesta che metaforicamente riproduce l'esperienza della e nella droga (Stephen Gaghan – e si tenga a mente il nome – sceneggiatore con Steven Soderbergh, è un ex-tossico), con una storia che si avvolge su se stessa, seducente, sinuosa e poi disperante, spietata e spossante, senza vie di scampo, e in cui tutto può essere il contrario di tutto, esattamente come labile è il confine tra il bene e il male, tra i buoni e i cattivi, con la legge del caos che apparenta e impasta tutto, intrecciando vicende apparentemente assai lontane tra loro: il poliziotto di Tijuana Javier Rodriguez (Benicio del Toro, fantastico come sempre, premiato giustamente con l'Oscar come attore non protagonista – un vero e proprio esempio di Arte in movimento: ecco, il suo personale spicchio di piccola redenzione finale appare meno stridente di quello riservato a Micheal Douglas – possa forse essere perché al netto di ogni religione?) suo malgrado corrotto senza nemmeno accorgersene, irretito fra le spire del cartello concorrente agli Obregon, rappresentato a livello di “legge” dal generale Salazar (udite udite: un Tomas Milian mefistofelico e strabiliante); la sua vicenda con quella del giudice antidroga di stanza a Washington (con tutte le declinazioni di quel potere che dovrebbe simili piaghe combattere e che spesso – quando non sia proprio del tutto inadatto - si ritrova ad esser piaga esso stesso) e quella del trafficante di San Diego e dei poliziotti (Luis Guzman, Don Cheadle, altri due assolutamente a dare meravigliosa quanto consueta prova) che per incastrarlo lavorano; quella, per finire, dei ragazzi e degli uomini che nella droga finiscono per trovare una via, ciascuno a suo modo e al suo livello, ciascuno trascinato inesorabilmente dal fascino di qualcosa che agisce, fino ad esserne parte, sulla natura umana, i cui lati peggiori, si sa, son sempre quelli più facili da blandire.
Il messaggio di fondo, oltre alla bellezza stilistica dell'insieme – a volte un po' troppo schematica, forse: anche direttore della fotografia, Soderbergh sceglie programmaticamente di contrapporre le tonalità ocra e sgranate di Tijuana e del Messico al colore-calore tendente all'arancione di San Diego e all'azzurrino come patina che ingessa Washington e il potere in genere – è un grande senso di difficoltà, una constatazione dolorosa di uno stato di cose che per com'è esteso e cosa coinvolge e cosa tocca dentro di noi, ha in sé un senso di tragico e immutabile che gli attori per primi sono bravi a rendere, mentre la tessitura del film fa ripensare, dal punto di vista dello schema tecnico-narrativo, all'Altman di America Oggi, nonché, dal punto di vista dell'ambizione e complessità d'intreccio, al Coppola de Il Padrino, entrambi padri nobili di un prodotto che non sbiadisce certo troppo, al confronto. Da un punto di vista letterario, invece, Traffic trova certo il suo parallelo (per così dire, "postumo") – ancor più approfondito, ancor più tragico - ne Il Potere del Cane di Don Winslow.
Curiosità: la distribuzione italiana decide di doppiare le parti che nella versione originale erano state lasciate in spagnolo con sottotitoli (la parte messicana del film), perché si in Italia si vuol sempre esser tetragoni alle lingue, e guai se lo spettatore fa un piccolo sforzo in più. Incuranti di quello che si perde...
altra curiosità: la musica originale del film è suonata (fra gli altri) da Herbie Hancock e The Flea (Red Hot Chili Peppers)
Ultima curiosità: nel 2005 lo sceneggiatore del film, stavolta regista (con Soderebergh produttore) fa la stessa identica cosa trasportando il tutto in Medio-Oriente e passando dalla droga al terrorismo: il risultato è ugualmente tragico e intricato, e si intitolerà Syriana; gli Oscar stavolta saranno due (sceneggiatura e miglior attore non protagonista) e il senso di smarrimento e impotenza di fronte al male, identico.

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