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giugno 30, 2006

VOLVER, Pedro Almodovar

Ovvia giù, ultimamente coi film son stato fortunato. Voglio dire, almeno lì... è stato quasi rieletto Berlusconi, la Nazionale non è ancora uscita dai Mondiali, Melissa P. ha pubblicato un altro libro, checcazzo! Comunque: c’è stato Capote (sì, col mio idolo Philip Seymour-Hoffmann – quant’è che lo dico che è il mio idolo, e che potessi me lo dipingerei sulla maglia, o ricaverei una scultura-capitello poggia ripiano per il mio tavolino da fumo in salotto? Non fosse che non fumo l’avrei già fatto, giuro) che è stato un capolavoro assoluto; c’è stato Crash che non era da meno; c’è stato Syriana che anche quello valeva assai e assai.. Un po’ ingarbugliato, ma alla fine resti veramente felice d’averlo visto. C’è stato anche Radio America di Altman, che finalmente, dopo l’orrido The Company, è tornato a fare un film all’altezza di lui, e c’è stato Romance & Cigarettes, per il quale si può dire la stessa cosa. Certo, poi ho sciupato tutto andando a vedere anche il Codice da Vinci (Tom Hanks, più fisso che mai) e Orgoglio e pregiudizio (con quella trota unicellulare/mezza-fia-che-si mette-fisso-in-posa-ma-a-cazzo che è di Keira Knightley o come cazzo si scriverà, vedete un po’ se uno si può mettere a vedere come cazzo si scrive Keira Knightley - nome del cazzo), tanto per dirne due, ma mica può andare seNpre bene. 
Poi sono andato a vedere Volver. Ci sono andato pieno di pregiudizi. Di solito un film di Almodovar è eccessivo, irreale, un po’ gratuito. Di solito c’è qualche vicenda sessualmente dolorosa (una violenza, ad esempio) ambientata nei bassifondi – puttane, travestiti, la strada, la miseria – e tutt’intorno travestitismo e promiscuità, voglia un po’ fine a se stessa di provocare, uomini assenti o comunque cumuli di nullità piene di merda, a petto di donne eccezionali e forti e superiori a tutto, anche nelle avversità e nelle sconfitte. Il tutto è immerso in un clima di critica (spesso e volentieri) alla religione e alla famiglia intesa in senso borghese, il che non è neanche male non fosse per una sensazione di disagio in chi si trova di qua dallo schermo, come se l’autore volesse un po’ troppo manieristicamente darci dentro, e arrivasse (involontariamente) ad auto-svilirsi. Comunque sia, la società di Almodovar è unicamente matriarcale; i soli uomini che vi hanno diritto di cittadinanza sono quelli che si travestono da donna, quando non proprio transessuali. Elementi del genere sono delle vere e proprie costanti, dei veri e propri marchi di fabbrica. Unici. Ora, queste cose possono esser lette positivamente o negativamente, ma in ogni caso configurano Almodovar come Artista. Come Fellini, ad esempio, che ha quei tre o quattro elementi ossessivi, costantemente ricorrenti e presenti, che costituiscono il fondale del suo cinema/Arte. Lo stesso discorso si può fare per l’autobiografia: o questa si scioglie nell'arte, salendo di un gradino, o resta nella collana di aneddoti, magari fastidiosi perché magari moralistici, comici a tutti i costi, pretenziosi, ecc. Il punto sta proprio qui: in Fellini spesso e volentieri questi elementi si fondono e trascendono nell’arte, superando il loro aspetto (in sé e per sé) macchiettistico o di carattere. In Almodovar no, o comunque non sempre. Tanto per dire – vi fregherà un cazzo? Lo dico uguale – avevo volutamente evitato (oh, magari avevo fatto male, eh? che ne so...) Parla con lei e La mala educacion, coi coglioni rotti da quell’orrido polpettone melodrammatico e eccessivo, ma anche esagerato (lo salvava solo l'inquadratura notturna di Barcellona, all'arrivo della protagonista), che era Tutto su mia madre (in cui una suora, che ovviamente non ha i baffi e ovviamente è uguale a Penelope Cruz, è stata violentata). Avevo visto anche Tacchi a spillo, Legami, Matador, (quando la sua musa era Victoria Abril) qualche pezzo di Carne Tremula e Kika, ma l’impressione che mi restava era quella di un regista molto originale, un artista (coi suoi tic e le sue ossessioni), ma che non mi pareva tutto ‘sto genio dell’arte. Se vai a vedere una mostra al Poumpidou di Parigi di Ilio Machado Cacini, noto scultore nel parmigiano, primo inventore della tecnica cosiddetta “a morso”, non è detto che ti piaccia. Anzi, magari farà pure oggettivamente cacare. Ma non per questo pensi al Cacini come idraulico o come impiegato del catasto. Il Cacini è un artista, con una sua personalità e un suo ben preciso iter e progetto, magari. Poi, Piero Manzoni è un’altra cosa; ma un’altra cosa è anche Filippo Wanda, fotografo-pittore della domenica, che mette su la sua Personale nella cittadina d’origine, offrendo magari anche un rinfresco al termine.
Ma qui divago, e non sto dicendo proprio un beneamato cazzo lesso.
Quindi, ratto & repente: Volver andate a vederlo, merde, e vedrete quasi un capolavoro (io comunque continuo a preferire Fellini): ottima storia, ben oliata e senza falle, ottime attrici, ottima fotografia. Bellissima la Madrid povera e derelitta, con le salite in terra battuta e le case strizzate dal sole (di Levante si vede volutamente solo una strada, oltre a due-tre interni, e del tragitto da Madrid a Levante delle trivelle-pozzo assolate). Ci sono gli elementi tradizionali di Almodovar, qui uniti (quasi – resta qualche concessione al non-realismo, tipo Penelope Cruz che dal niente mette in piedi e manda avanti un ristorante, e fa pure pieno di gente) perfettamente e trascesi nell’arte, come si diceva, e come accade in Fellini. Vedrete Carmen Maura e Lola Duenas, rispettivamente la Caramelli vecchia e la Caramelli brutta (ok, è una che conosco io, non c’entra un cazzo ma lo dico uguale – d’altra parte, ricorderete che in Dogville c’era Il Bellandi). E poi vedrete tutta una serie di omaggi al cinema “povero” italiano – la cosiddetta commedia all’italiana – degli anni ’50, da Almodovar citato e ammiccato in tutta una serie di occasioni, prima fra tutte la protagonista del film, che nel fisico doveva ricordare Sofia Loren, nell’acconciatura Claudia Cardinale, e nel complesso Anna Magnani (omaggiata, tra l’altro, dal passaggio finale in Bellissima di Visconti, che Carmen Maura guarda alla TV in chiusura di film).
Penelope Cruz, casomai, è un po’ "troppo" e rischia di stonare. Non certo in senso cinematografico: è bravissima, così come lo sono le altre due. No, proprio in senso fisico: è un po’ troppo bella (non credo fosse stata mai così bella) come elemento di quella famiglia, e il tentativo di involgarirla, col trucco, i tacchi, il linguaggio – perfetto nelle intenzioni, perfetto e in carattere con il personaggio (anche la regia parrebbe voler contribuire, con tutta una serie di inquadrature a "rimarcare") – ha l’effetto contrario, contribuendo a farla sembrare ancora più bella. Ma son cose perdonabili, tutte.