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ottobre 18, 2011

"Non è vero, ma è bello che tu me lo dica"


La mediocrità non è mai delle persone complicate?.

E' molto facile cogliere qualcosa di speciale in persone apparentemente fuori dalle righe.
D'altronde oggi nessuno lavora più, tutti fanno qualcosa di artistico.
E' la società moderna che emargina e condanna una filosofia di vita semplice.
La semplicità con cui si affrontano le cose, il modo semplice in cui ci si pone davanti ai problemi è soltanto per le persone non mediocri.
La mediocrità non è mai delle persone semplici.
E' in questa ottica che inquadro il film di Sorrentino.
Un film che mi ha fatto pensare " finalmente un film italiano diverso, che non è italiano"
Con una semplicità disarmante il regista ci racconta il percorso di evoluzione di un uomo schiacciato dal peso del suo passato(rappresentato da un peso che si porta sempre dietro,  un carrello del supermercato, un trolley) fino alla riscoperta di se stesso e del proprio volto finalmente pulito dal trucco di una maschera adolescenziale a cui era ancorato da tempo.
Così' Cheyenne, il protagonista del film, una rockstar in pensione, che ha smesso di vivere quando ha deciso di interrompere la sua carriera di artista e spreca il suo tempo in un ozio depressivo, viene scosso dalla morte del padre e dalla tenacia dello stesso applicata alla ricerca ossessiva di un nazista che lo aveva umiliato in un campo di concentramento.
Il semplice fatto della morte, la presa di coscienza dello scorrere del tempo, della finitezza della vita, spingono Cheyenne finalmente a capire che il tempo ben speso è l'unico bene della vita e che fino ad allora il suo tempo è stato sprecato, che ormai è tardi, è tardi per molte cose ormai lasciate andare.
Alla fine del percorso Cheyenne impara a spendere il suo tempo ed ad evolversi fino a mettere in mostra il suo vero volto ed  ad abbandonare ogni peso irrisolto.
Perchè dura lex sed lex, si muore alla nascita.

ottobre 17, 2011

THIS MUST BE THE PLACE, Roberto Sorrentino

"Il mondo secondo Cheyenne", avrebbe potuto intitolarsi il film, un frizzante ed originale breviario di metodi e filosofie coi quali passare attraverso la vita, mantenendo uno sguardo che tanto più penetra a fondo delle cose quanto più pare distaccato e lontano. Uno sguardo quasi di bambino: per la sua purezza, per la sua freschezza, per il suo stupore e al tempo stesso per la sua ostinazione; un senso del grottesco e un mazzetto di figure secondarie – il tatuatore, l'agente di borsa che presta l'amatissimo pick-up, il cacciatore di nazisti, la professoressa, l'inventore di trolley, il bambino con la fobia dell'acqua – che potrebbero venire dritti in linea retta dai Coen (la co-protagonista Frances McDormand non a caso ripropone pari pari lo stesso personaggio cui aveva dato vita in Fargo); un interprete assolutamente unico nonché vero cuore del film ancor e assai più della vicenda in sé, che niente più si rivela se non una giustapposizione di scene tutte egualmente valide, surreali e al tempo stesso concretissime, esilaranti ed amare ("hai mai fatto caso al fatto che oggi non lavora più nessuno, ma tutti fanno qualcosa di artistico?")
La linea narrativa patisce forse un po' questo carattere del film, che comunque certo non ricerca la verisimiglianza e il canone della logica causa-effetto più tradizionali: la ricerca di un criminale nazista attraverso la classica America periferica popolata di marginalità e caffè e motel e miserie più o meno spicciole (secondo il più tradizionale canone del film/romanzo on the road) è assolutamente secondaria, e al suo posto poteva benissimo starci la ricerca di un figlio, di una madre, di un qualsiasi altro evento potesse fare da sfondo agli incontri, alle massime, al distacco straniante della maschera del Candide aggiornata ai giorni nostri in chiave rock. Forse questo – il fatto che la ricerca dell'aguzzino del padre non sia poi tutto questo casus belli, tutto questo motivo per mettersi in viaggio, per scrivere la prima pagina del proprio bildungsroman – un po' si sente, come ogni tanto si avverte un eccesso di simbolismo un po' fine a se stesso: la baracca in mezzo al nulla del criminale nazista; l'inutile chiusa con Sean Penn senza più trucco davanti alla finestra della madre in remota attesa del figlio; la stessa figura di quest'ultima, messa forse lì a vieppiù (inutilmente) aggiunger pathos – tutte, forse, metafore un po' stonate e pretenziose, figlie irriducibili di un modo di pensare il cinema (quello italiano, appunto) come qualcosa di nobile, indegno a meno che non si veicolino in un modo tra il lezioso e l'accademico concetti che si giudicano “alti”, magari indugiando nell'(ab)uso di fatti di storia o cronaca che a questo si prestino (l'olocausto, il fascismo, i fatti di cronaca nera – quanti film italiani cosiddetti "impegnati" ci cascano?), e accompagnando il tutto con l'altrettanto irriducibile (e fastidiosa) tendenza al melodramma ed alla lacrima, qui peraltro e grazie a dio brillantemente evitata dall'attore (“no, tardi è tardi!” – e immaginatevi la stessa scena con qualche coppia di divetti nostrani e preparate i fazzoletti).
Nel complesso un film che sorprende, originalissimo e visionario (bellissima fotografia, di Luca Bigazzi), molto meno italiano del solito, ma che forse pone la storia un po' troppo al servizio della tecnica, il plot al servizio dell'estetica. Bello - anche se forse una goccia di provincialismo ci può stare, nel far apparire un musicista perché se ne sceglie un pezzo... - il cammeo di David Byrne, nella parte di se stesso (ancora: niente più che un pretesto per un'altra delle perle di Cheyenne).

ottobre 07, 2011

CARNAGE, Roman Polanski

Capita d'imbattersi nel film perfetto, e di non averne quindi da scrivere granché. Perfetto perché dalla regia cristallina e semplice e misurata, perfettamente calibrata sui quattro unici personaggi che da soli basterebbero a riempir qualsiasi scena; perfetto perché tale è la sceneggiatura, che riprende la pièce teatrale di Yasmina Reza, Le dieu du carnage (il dio della carneficina), e la asciuga da qualche ampollosità dell'originale e ne amplifica (magia del cinema) la potenza, pur mantenendola meravigliosamente teatrale.
Tra un semplice prologo e una chiusa speculari ed in esterni si snoda (tra una soggiorno una cucina e un bagno - della serie, ognuno - Polanski - si arrangia come può...) - l'esile vicenda (un confronto civile tra due coppie di personaggi per appianar un fatto spiacevole relativo ai rispettivi figli, i quali hanno avuto una lite ai giardini il giorno prima, con uno dei due che ne ha riportato due denti rotti) su cui si innestano in modo assolutamente avvincente e chiaro, con una naturalezza che letteralmente "fulmina" lo spettatore, le dinamiche di convivenza civile, di relazione, di contatto fra le persone nella società.
Mirabile, più che tutto, è il modo in cui si scivola inesorabilmente in un gioco al massacro che tutto coinvolge e tutto distrugge: tra i quattro personaggi alleanze si intrecciano e si sciolgono, per poi tornarsi a stringere; naufragano etichette di bon-ton che poi riemergono, ipocrisie e aggressività si manifestano; emozioni si denudano e s'ammantano di buone intenzioni e frasi fatte; ci si mostra gli uni con gli altri i muscoli e i denti, per poi crogiolarsi cameratescamente nelle comuni miserie e banalità della via - il tutto in un balletto che, ancora, soprende per quanto è vero e profondo e per come è stato reso in modo tanto naturale, in quella che prima di tutto sarebbe nient'altro che finzione.
E una considerazione simile è ancor più al suo posto se si pensa ai quattro attori, i veri e propri gioielli dei 79' dorati di cui si compone il film. Inspiegabile il mancato riconoscimento di miglior attore/attrice (andato invece al pur bravo Michael Fassbender alias magneto-da-giovane di Jane Eyre) a uno a caso fra Jodie Foster, Kate Winslet, John C. Reilly, Christoph Waltz: quattro tipi, quattro maschere, ma al tempo stesso qualcosa di più, di molto di più; esattamente come la vita, in cui un soggetto è un personaggio ma non solo, ha determinati tic ma al tempo stesso qualcosa ha più e qualcosa in meno. Bravissimi, incredibili, tutti; e Christoph Waltz (ma dov'eri fino ad oggi???) con la sua maschera (ancora: qualcosa più di una maschera!) del Colonnello Landa di Inglorious Bastard a tirar le fila, col suo credo gelido e perfettamente consequenziario rispetto al mondo - un mondo in cui ciascuno è solo, e "la coppia è la prova più terribile che Dio possa infliggerci, la coppia e la vita di famiglia", come ha a dire invece l'altra figura maschile dei quattro, spalla e caratterista di vecchia data di numerosi film - in cui si trova a vivere, quello appunto nel "dio della carneficina".
Carnage ha tranquilla serenità e la semplicità del capolavoro: in casi come questo, l'unica analisi possibile resta la più semplice - andate a vedere questo film.
Ogni spiegazione, ogni parola, sarebbe inutile, e niente aggiungerebbe di più.