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giugno 25, 2013

JOHN WILLIAMS, Stoner

Prima di tutto, di cosa si parla? Si parla di un libro scritto nel 1965 da un professore universitario di umili origini, un professore con una carriera piuttosto ordinaria e senza acuti presso l'università Denver; un professore al suo terzo romanzo, coi due precedenti finiti in un dimenticatoio senza infamia e senza lode, staccato dal tempo, consueto esercizio accademico di abilità fine a se stessa a cui l'hortus conclusus (piglia e porta a casa - era per non nominar la Torre d'Avorio che fa sì Accademia, ma italiana...) dell'Accademia con la 'A' maiuscola ogni tanto inevitabilmente porta (Butcher's Crossing, il secondo titolo, di cinque anni addietro, è un'indagine sulla vita di frontiera nel Kansas del 1870 - dio, riuscite ad immaginar qualcosa di più avvincente & succulento? Tenete a mente che cinque anni prima nella CityLights Book di Ferlinghetti era stato appena letto The Howl; nel 1957 era uscito On the Road, ed erano già stati pubblicati Catcher in the Rye, The Old man and the Sea, The Grass Harp, per dire...)
E stesso destino attende immancabilmente anche Stoner, storia romanzata di un professore di inglese dalle modeste origini contadine, cresciuto in una fattoria vicino a Columbia, Missouri, passato come il lento incedere d'un grande fiume attraverso varie vicende fino al trovar la propria strada nelle Lettere dopo aver abbandonato studi d'agraria intrapresi in modo piuttosto casuale e passivo. Una tranquilla vicenda di provincia, dal 1910, con un protagonista diciannovenne, al 1956, l'anno della morte: un monotona vita priva di eventi significativi, quasi fuori dal tempo, con due guerre mondiali sullo sfondo e un'amante ad increspare un fluire di avvenimenti altrimenti assai sommesso.
Eppure in questo testo avviene il miracolo, apri il libro e si sprigiona la luce: a dispetto dell'asciuttezza del carattere di Stoner, della banalità delle vicende che si susseguono, della semplicità della trama. 
Ecco, proprio la trama: Stoner è la dimostrazione pratica di quanto possa essere marginale un intreccio, se si riesce a sprigionar questa magia con le parole. Nel romanzo non succede nulla, o quasi: banali situazioni, casi della vita. E Stoner è pure un po' scialbo, passivo ma senza essere l'Eroe passivo di tanti romanzi, o l'inetto di turno, tanto per scomodare Musil o Svevo. Stoner è come il suo nome suggerisce, squadrato e inquadrato, una pietra, semplice in tutto ciò che fa, senza mezzi toni o pieghe dell'animo.
Eppure ti trovi a fare il tifo per lui, a seguirlo con una partecipazione che non ti spieghi, a sentir quasi del male fisico quando subisce torti, quando si "incaglia" in qualche secca. Sarà un entusiasmo, un coinvolgimento che la mano dello scrittore passa sulla pagina come per via fisica, un fluido invisibile, sarà quel che sarà: a me era successo - non che debba importare a qualcuno, eh? - con Armance, romanzo giovanile di Stendhal. Il senso che sprigiona dal romanzo è secondo me identico; capisci che c'è qualcosa che ti sfugge, qui come nell'altro, qualcosa di più, e non è nemmeno un fatto di stile (ovviamente il romanzo, visto il padre, è scritto più che bene, in ottimo e correttissimo inglese, senza nemmeno troppi fronzoli o abbellimenti) o di orginalità di qualcosa. Semplicemente, è la magia della letteratura, una vera e propria epifania. Non puoi nemmeno dire di riconoscere Stoner come tuo simile, come tuo parente che condivide la miseria della vita. No: c'è qualcos'altro, e anche senza intreccio, senza trama o quasi lo avverti, e devi continuare a leggere, sperando che dia una svolta, che batta i pugni, che qualcosa di bello lo ricompensi.  Eppure sai già che anche quando questo avverrà (la vicenda di Katherine Driscoll), tutto è destinato a finire. Ma lo accetti come lo accetta Stoner, che poi rimarrà immobile anni dopo, ritrovandosi il suo libro in mano, dedicato a W.S. e tu sentirai esattamente quel che prova lui in quel momento, come se tu avessi vissuto la vicenda, come se tu stessi tenendo in mano quel libro.
Questa, senza se e senza ma, è la magia della letteratura, questa è la forza dell'Arte - ok, mettici anche un finale di livello veramente assoluto, con la descrizione del peggioramento delle condizioni di salute del protagonista, la stasi della sofferenza, il deliquio, la morte. 
Sei a dama: pagine che letteralmente "ti tirano dentro".
Su tutto c'è come un senso di dolente e tranquilla nostalgia, una perdita accettata e inevitabile, con le parole di Katherine Driscoll ("se anche non avremo altro, abbiamo almeno avuto questo") a fare da perfetta epigrafe.
Nato entro l'ovatta dell'accademia, il libro non poteva inevitabilmente avere un uditorio ampio - nel chiuso dell'orto nasci, nel chiuso dell'orto rimani: dopo anni di oblio, nel 2006 (si badi: dodici anni dopo la morte del mediocre professor John Edward Williams, il quale nel frattempo aveva pubblicato un altro romanzo: Augustus, una rappresenzatione romanzata della violenza ai tempi dell'imperatore romano Augusto - e qui, qualcosa mi dice che la magia come si era posata si era già alzata in volo, nonostante nel 1973 il titolo abbia vinto ex-aequo il National Book Award con John Barth, Chimera) fu in qualche modo riscoperto, pubblicato dalla New York Review Book, e il forziere rimasto nascosto e sepolto finalmente si aprì: il fascio di luce magica si era sprigionato dalle pagine.
Da lì alla illuminante postfazione di Peter Cameron, il resto è cronaca.
Un testo magico, come metafisico.