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gennaio 26, 2010

NINE, Rob Marshall

I.
Sono stato a vedere Nine.
Ebbravo bischero, verrebbe da dire.
Vabbe': comunque sia, ci son stato, indi per cui.
Indi per cui, potrei dir di quanto sia filmettino griffato & pubblicizzato (le auto italiane non hanno da fare altro che sponsorizzare film stupidi?), pieno di stelle, stelline, canzoncine, inquadrature da cartolina della Roma anni '50 e attori italiani.
Eggià, perché quando il film comincia e sullo schermo compare il logo di Rai Cinema, uno comprende fino in fondo in che trappola lo han cacciato, suo malgrado. Ciò considerando il fatto che, potranno piacere o non piacere, ma almeno di un certo livello qualitativo i musical americani solitamente sono. E ovviamente Rai Cinema, co-produttrice del tutto, infarcisce con ciò che ha: ed ecco Nasone Tognazzi (nemmeno poi troppo male, in fin dei conti), Valerio Mastandrea (un po' a disagio), Elio Germano (male al culo e becco sano), un sacco di altra gente di cui – deo gratias – mi sfugge il nome (pare ci fosse anche una che fa/faceva Cento Vetrine), e infine loro, desse, quelle là, insomma.
Chi?
Martina Stella.
Ommioddio, Martina Stella.
Ancora non è nulla. Tenetevi.
Sofia Loren.
Punto e a capo.
Ora: passi per Martina Stella, che è giovane, qualcuno dice anche bella (a me pare faccialmente deforme, poi fate un po' voi), dirne male sarebbe come scaldar l'acqua per il bagno e quindi la si passi in sordina (ma perché non va a lavorare, comunque sia? Ok, m'è scappata, si vada pure oltre); ma... Sofia Loren, porco cane, perché si ostina a esserci?
Proprio: quell'orripilante vetusto mascherone partenopeo che gioca a far l'italianità nel mondo pretendendo che tutti si creda quanta nostalgia ha della sua bella Napule (“e accattatev'illo” – sì, su per il culo!) ma risiedendo pervicace e con ingiustificatissima gloria in qualche bella villa californiana; leilì, insomma: perché non si ripone? Non sa recitare, non sa cantare, quando è in scena posa impettita che uno può pensare l'abbia imparato dal suo parente chiorbone. Perché è lì? Chi diavolo e cosa diavolo ha mai fatto, Sofia Loren? Ok, da giovane era bella & popolana, ed è comparsa in qualche film di DeSica padre. Poi?
Emblema di chi si sa ben vendere pur non avendo un cazzo da offrire, s'è sposata a Carlo Ponti ed è salpata per LA MERICA, ché lì c'era tanto bisogno di qualche ieratico paisà su cui versare qualche lagrimuccia pel bel paese andato; fatto questo, ogni tanto rilascia interviste pontificanti su questo e quello, fa comparsate come madrina d'eccezione (?) al tale e/o talaltro evento, e via e via e via. Perché? Chi la cerca? Chi la considera? Per qual motivo dev'essere sistematicamente omaggiata, Sofia Loren?
Aveva inoltre un qualche senso prenderla in un film pseudo-celebrativo di Fellini? Aveva mai recitato in un film di Fellini? Aveva una qualche connessione con Fellini - voglio dire, più di quanto possa avercene io che, come lui (ahimè), sono italiano?
(Ricordo a tal proposito che, intervistata dall'immancabile Mollica – mollica di nome e di fatto, mi vien sempre da dire – ebbe a ricordarci quanto lei fosse molto dispiaciuta di non esser mai stata diretta da Fellini, ma erano stati tanto in trattativa, lei e suo marito Carlo Ponti, col maestro e alla fine non sono riusciti comunque a trovare un accordo – ma accattatev'illo, dritto sul capo!)
Perché, perché, perché?, si chiede lo spettatore disperato, all'ennesima entrata in scena di quella maschera grottesca, di quel totem dipinto che par cigare, tant'è tirato, di quel feticcio scrauso fisso ed irritante.
Ma tant'è: oramai ce l'avevan messa; ti tocca guardarla.
Tra le altre, tutte riunite come in un mazzo di carte mescolato – uno da ramino e uno da scopa – figurano Penelope Cruz (già Sandra Milo), Nicole Kidman (Anita Ekberg? Peccato che invece di significar la dea giunonica & voluttuosa dell'immancabile immaginario fellininano, incarni casomai un insaccato gonfiato e botulinico – davvero, non c'era un'attrice più adeguata?), Marion Cotillard (Giulietta Masina – brava, invece, e molto), Kate Hudson (giornalista di Vogue, presenza più o meno inutile ma non dannosa), la cantante dei Black Eyed Peas (Fergie-Saraghina – diciamo anche azzeccata, va') e via a calare.
A tirar le fila, doppiato male (come il resto del cast - e questa è una novità: solitamente i doppiaggi son di ottima qualità, a meno che non ci sia di mezzo qualche psuedo-celebrità televisiva che simpaticamente vuole prestare la sua voce per il cartoon di punta) da PierFrancesco Favino, a bordo d'una Giulietta fiammante guidata a gagarone come nemmeno un calciatore di ultima generazione, Guido Contini-Federico Fellini-Daniel DayLewis. Bravo, molto bravo, eh? Peccato paia più un Bukowski che un Fellini; né ad aiutare interviene il fatto che, seppur per poco, ci mostri un fisico da atleta, appiccicato su una faccia tra il trasandato e il maledetto che meglio s'attaglierebbe appunto al vecchio Buk più tanto palestra che non al Maestro di Rimini o a Mastroianni. E già che siam qui, lasciamo stare ogni paragone con quest'ultimo, va'.

II.
Comunque sia, come riadattamento cinematografico di un vecchio musical di Broadway, Nine non fa altro che deludere, e si può senz'altro dire che Rob Marshall avesse materiale assai meglio assortito in Chicago, a partire dalle musiche, qui poco più che canzoni mediocri e di (falsa) atmosfera. Valga per tutte l'orrida Cinema Italiano, cantata con piglio da hit, voluti patinamenti da sfilata di moda e penosi inserti in lingua da Kate Hudson. Be Italian di Fergie ha più o meno lo stesso grado di perniciosità per chi ascolta, col ridicolo involontario che sempre il Made in Italy visto attraverso gli occhi d'uno straniero trascina con sé: tovaglia a quadrettoni, schizzi di sugo sulla canotta e machi ipersessuati e ossessionati dalla mamma, coi baffi. Il resto del materiale musicale (Chicago – ancora per dire – aveva una ricchezza ben diversa, anche solo come soluzioni orchestrali e complessità armonica) è invece uno zuppone insignificante e insulso, sempre a metà fra un insopportabile recitativo d'opera e qualche aria riuscita male, con climax raggiunto da una mostruosa Sofia Loren che ci "delizia" con un soave canto che con dei paraorecchi rinforzati si gusterebbe certo meglio.
Per quel che riguarda il film in sé e per sé, ovvio che in un musical va perso tutto il significato di un film come 8 e ½: il simbolismo, la complessità di un film nel film inteso come messa in scena di un meccanismo creativo che in quanto genio, arte in sé, ha valore indipendentemente da cosa vuol narrare (“non ho niente da dire, ma voglio dirlo lo stesso”, diceva Mastroianni nell'originale, e questa frase-manifesto avrebbe certamente potuto esser ripresa qui, e mica male ci sarebbe stata). Questo tuttavia può esser bene messo in conto, e 8 e ½ a ben pensarci si può anche prestare ad una simil riduzione musicale: rimane la superficie, il maestro con le sue muse e le sue ossessioni sessuali, e una crisi che è poco più che l'esaurimento nervoso di una star dei giorni nostri. Ancora poco, e magari lo facevan tirar di coca, il Maestro. O rifarsi gli zigomi e le labbra, tipo la povera Nicole Kidman (tra l'altro, decisamente ridicolo il duetto al bordo d'una fontana nell'immancabil bel paese di fiaba coi lampioni e non un'anima in giro, tutti indecisi forse se omaggiar La dolce vita o 8 e ½). E rimane – buona questa, e affidata al miglior personaggio di tutto il film – l'idea del Fellini genio cannibale e onnivoro, “puro appetito” (come appunto lo dipinge la moglie Giulietta Masina-Marion Cotillard, verso la fine), sfruttamento logoramento e distruzione di tutto ciò che intorno a lui si para in nome esclusivo dell'Arte, maledizione mostruosa ma consueta di chi artista lo è per davvero e subisce l'incanto del dover rielaborare a tutti i costi e non importa (in realtà importa eccome, ma niente egli può) a che prezzo ogni manifestazione del reale, sia questa una persona od un'idea. Ennio Flaiano, che con lui (e Tullio Pinelli) ebbe a condividere l'idea di molti dei suoi film migliori – 8 e ½, La dolce vita, I vitelloni, Il Bidone, Lo sceicco bianco, La strada – dal canto suo diceva più o meno questo:
“Mi ha trattato come fossi una bottiglia di Coca Cola; lui tira dalla cannuccia e aspira”.
Questo rimane, anche. Ma più che tutto, rimane Sofia Loren. Impressa, un film horror senza esserlo., un'esperienza da fare a stomaco vuoto. Con lei, un sacco di paccottiglia.
A volte (spesso), meglio riguardar l'originale.

gennaio 22, 2010

ELMORE LEONARD, Killshot

“Le dirò un'altra cosa. Non l'ho mai vista, mia nonna, spedire i gabbiani a scacazzare sulla macchina di qualcuno. Sì, certo, la gente diceva che ne era capace, ma io non l'ho vista mai. Una volta si era messa in testa di trasformarmi in un gufo. Io dissi: «non voglio diventare un gufo, voglio diventare un merlo». Va bene, disse lei. Così mi chiusi nella capanna del sudore, e ci restai per qualche ora. Va be', me ne esco tutto nudo, una coperta addosso. Lei comincia a battere su quel suo piccolo tamburo e a cantare in ojibway. Poi smette, mi dice di gettare la coperta e volare via. Io la getto a terra e alzo le braccia. Non succede niente. Mi tocco tutto quanto e le dico: «non sono un merlo, sono sempre io». E lei: «Quand'è l'ultima volta che hai fatto il bagno?» Io: «Quando mi sono lavato vuoi dire? Ieri» . Lei: «Oh, non dovevi fare il bagno per un mese». E così non sono diventato un merlo”. Alzò di nuovo il bicchiere a mo' di brindisi: “Questa è la storia della mia vita, che la capisca o no”, e bevve.
Carmen disse: “C'è qualcuno che vuol diventare un merlo?”
Lui parve gradire questa frase e arrivò quasi a sorridere: “Se potesse diventare un uccello, quale sceglierebbe?”

C'è un detto, nel settore, in USA. Si dice, più o meno: "volevo suicidarmi, poi ho scoperto che Elmore Leonard ha scritto un altro libro".
Non sarà sempre vero, forse.
In questo caso, certo sì.
Killshot (libro vecchio - noialtri arriviamo sempre esimi - nuova traduzione. Nulla più di un'operazione commerciale, a ricordare che la letteratura è prima di tutto merce, e come ogni merce, conta più che altro come la vendi. Il cosa è altro discorso, anche se in questo caso, non per merito di chi vende per carità, siamo al di sopra di ogni sospetto) è qualcosa di fenomenale. Come sempre per i romanzi di Leonard non è un semplice thriller, non un semplice noir, non una detective-story. È anche ciò che forse ci separa maggiormente da questo tipo di grandezza: da noi il thriller è genere; ben coltivato (a volte) quanto si vorrà, ma genere. Su noi pesa ancora l'eredità settaria degli Urania o chi per loro. Là è tranquillamente mainstream, con tutto ciò che questo comporta (lasciamo a gente più brava un'ipotetica associazione tra questo dato e una tipologia di società assai più avvezza al crimine e all'omicidio, alle pistole, etc).
In ogni caso, eccezionali le caratterizzazioni dei personaggi, col solito e meraviglioso senso di grottesco/humor nero/ridicolo sottinteso che racchiude i due "cattivi", Blackbird e Richie (e Donna, che pur personaggio "cattivo" non è); notevolissime le descrizione d'ambiente. Sul podio, dialoghi. Fulminanti, perfetti, come vedersi lì ed agire.
Una bravura disarmante, e resta da vedere l'interpretazione - ammesso che esigenze di vendita del film non ne abbian fatto scempio - che di Blackbird ha dato Mickey Rourke (e che di Donna ha dato chi??? Rosario Dawson? Ma siamo impazziti? Forse qualche scempio c'è stato, sì), nel film che nel 2007 è uscito - quantomeno da noi - sotto silenzio, con la regia del John Madden post orrido Shakespeare in love. Sin City e The Wrestler dovevano ancora passare, forse, e Mickey Rourke era ancora dato per finito & bollito.
In ogni caso, detto azzeccato, come per Mr. Paradise, Freaky Deaky, parte di Cat Chaser (primi capitoli, poi la tension cala...) e A caro prezzo. Andrò controcorrente, ma i due Chili Palmer non mi eran piaciuti granché.
E fortunatamente me ne restano ancora un po'. Non come per John Fante...