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settembre 30, 2004

AA.VV., Undici settembre, Contro-narrazioni americane

Alcuni fra intellettuali, scrittori, cantanti, e insomma personaggi di spicco del mondo US raccolgono un pensiero sui fatti dell’undici settembre.
Quanto alla presenza femminile: c’è la poetessa schifosamente lirica, la vetero-femminista gay-isterica, la pasionaria, la rocker trasognata e psichedelica, la scrittrice enfatica, ecc. Quanto a quella maschile: la cosiddetta punta di diamante dalla narrativa giovane americana, lo scrittore affermato, il poeta orfico, lo scrittore-reporter, ecc.
Non che si debba parlare della forma, per un libro così, ci mancherebbe altro. Una raccolta di scritti sull’undici settembre, per quanto si cerchi di farci un po’ di soldi su (un libretto di 150 pagine - con scritti spesso di getto, poche paginette messe insieme per l’occasione da ciascun “scrittore” - per 9 euro, mi pare un po’ poco etico…), non è qualcosa che debba avere pretese letterarie. Però, quanto ai contenuti, magari, quelli sì: se cioè qualcuno è stato penetrante nella sua analisi relativa al perché tutto questo è successo; se qualcuno ha rappresentato passi significativi della presa di coscienza collettiva di quel momento; se qualcuno ha colto i segni del dopo la catastrofe, di cosa potrebbe venire adesso, e via così. Il panorama, in questo è piuttosto desolante: qualche appello alla retorica contaminata col lirismo più o meno estremo (Toni Morrison – pare un temino della High School – Grace Paley – una pseudo-parabola abbastanza insignificante, piena di retorica – Arto Lindsay – ermetismo fortemente lirico, quasi senza senso, Giannina Braschi – “prosa d’arte”, un po’ confusa, che parte bene in un modo, e poi si perde dietro a deliri poetici o quasi); qualche onesto reportage (Joanna Scott e Charles Bernstein, seppure il secondo un po’ inutilmente sopra le righe e “ricercato”); una testimonianza dell’“altra parte” o quasi (Suheir Hammad – sentito, ok, ma un attimino più di analisi e capacità critica, insomma…), un paio di fastidiosi scritti dal dorato mondo dello spettacolo (Patti Smith – irritante, banale e pretenziosa: vada a lavorare, lei e il suo voler essere poeta e vate ad ogni prezzo – e Laurie Anderson – cazzo, c’era proprio bisogno di lei che scrive qualcosa sulla tragedia?); paginette messe così, senza niente chiedere (Paul Auster e Jonathan Franzen), e soprattutto alcuni contributi veramente sconcertanti, come quello di Judith Butler e Mary Caponegro. Sulla prima, mentre leggete, vi comincia a frullare questa domanda in testa, più o meno: “ma questa, cosa cazzo sta dicendo? Ma è scema?”. Sul serio, proverete a chiedervi cosa diavolo ci possano entrare le minoranze gay e lesbiche; perché anche dopo tutto questo, questa citrulla si metta a tirar fuori che loro sono i migliori, che sono discriminati, che non è giusto, ecc (dio santo, per fare pendant potevano metterci un pezzo di un ragazzo delle superiori, che diceva qualcosa del tipo: “cioè, io credo che sia molto male quello che è successo alle torri, e Bin Laden è un pezzo di merda e Bush è un pezzo di merda, cazzo. Io però legalizzerei la marijuana, cioè, mi pare impossibile che non sia legale, cazzo”). Sulla seconda, si resta abbastanza colpiti dal fatto che l’attentato, secondo lei, abbia tolto agli adolescenti di oggi la possibilità di vivere la vita del campus universitario (“non posso permettermi un vergognoso dolore secondario per una figlia che l’11 settembre ha subito una volontaria battuta d’arresto proprio all’esordio dei suoi studi superiori?” – no, che non puoi, testa-di-cazzo-suprema!; “il vostro settembre non vi riserva innocenti flirt con i compagni o il fatto di aver preso per sbaglio il maglione della compagna di stanza […] Non potrai più rientrare a casa col mal di testa per la sbornia né dormire fino a tardi dopo essere rimasta in piedi fino a notte fonda a parlare di vita, di amore e di sogni” – ma, cara signora, mi dispiace tanto… ci pensa mai che un maglione i bambini di Baghdad non l’avranno nemmeno mai visto? Non ho veramente parole!)
In definitiva, le poche cose degne di nota qui sono 4: il pezzo di DeLillo (anche se non penetrante e acuto come ci si aspetterebbe da lui – e comunque, a paragone degli altri pare DeTocqueville!), quello di Amitav Ghosh (onesto reportage, però serio, coinvolgente e come dovrebbe essere, insomma…); John Barth (che quantomeno indaga un aspetto, magari marginale ma comunque si fa delle domande vere), e soprattutto David Foster Wallace, che nel suo stile consueto, mosso, brillante ma intelligente, racconta la provincia americana (solito discorso: il racconto è breve, e Foster Wallace impressiona. Con chili di pagine in più, diventerebbe stucchevole).
Insomma, nel complesso, dice poco, e significa ancor meno. Più che altro irrita, facendo (involontariamente) vedere una cospicua dose d’imbecillità. Tutti i rappresentati (eccetto i famosi) insegnano all’università: sono messi benino, negli USA!
Ultima annotazione: si parla e si straparla, da noi e non solo, degli ultimi due ostaggi che sono tornati a casa. E per carità, siamo tutti felici per loro, che non c’entravano nulla eccetera eccetera. Tuttavia: a nessuno viene in mente che tutte queste storie – qualche ostaggio liberato (guarda caso sempre dai nostri eroici soldati) qualche altro purtroppo tragicamente ucciso, siano un discorso estremamente funzionale alla causa di Bush? Un modo per distogliere l’opinione pubblica, da sempre mooolto sensibile a quelli che potremmo definire fatti di cronaca nera, quelli eroici, caritatevoli & consimili, da quel che è stato effettivamente fatto in Iraq? Insomma, cosa credete che costi a Bush e a gente come lui l’avere sulla coscienza qualche testa in più, ormai? Quando vi mandano le immagini delle “due Simone” (cazzo, quanto è squallida questa espressione) e vi rimbombano con atti di eroismo, eroi, appelli alla pace, ecc, quanti di voi si ricordano per che cosa la guerra è stata combattuta, e per che cosa tutt’ora prosegue, come guerriglia? Non sarà tutto strumentalizzato e manovrato? Non crederete che i terroristi (quelli delle alte sfere, ché coloro che mettono in pratica e materialmente eseguono sono solo altra carne da macello, stavolta al contrario) siano in contatto stretto con qualcuno che invece afferma di combatterli? Il terrore, la paura (e notate quanti allarmi ad hoc e sempre senza seguito vengono lanciati negli Stati Uniti) non saranno piuttosto elementi che favoriscono il potere e creano consenso, distogliendo da una vera e propria volontà di analizzare, di capire? Ma poi, qualcuno pensa?

settembre 21, 2004

JOE R. LANSDALE, La notte del drive-in (Drive-in), e soprattutto… In fondo alla palude (The bottoms)

Allora, chiariamo subito una cosa: mi dispiace che Lansdale piaccia a Ammaniti, il cui volumetto a fumetti – associazione a “mettersi in ridicolo” in tre, peraltro: con Daniele Brolli e Davide Fabbri – ultimo uscito (speriamo non solo in ordine di tempo, ma ahimé, so già che sarà una speranza vana) mette solo rabbia per la pochezza e la ridicolezza e ingenuità, (come per molte altre sue cose, ipervalutate inutilmente) Insomma, fa veramente cacare, come poche altre cose. Non dico nemmeno il titolo, ché c’ho paura di fargli pubblicità. Comunque, non siamo qui per dire ‘ste cose. Del resto, ad Ammaniti piace pure John Fante, non si può mica impedirgli ALMENO di leggere bene. Dicevamo, Joe R. Lansdale: Joe R. Lansdale è, a mio giudizio, il Quentin Tarantino della scrittura. Si è nutrito di tutto, della (cosiddetta, ma il discorso sarebbe lungo e fine a se stesso) “serie A” e della “serie B”, ignorando (parole sue) “che potesse esistere una qualche graduatoria di valore tra una forma letteraria e un’altra. Credo che questa sia stata una delle cose più significative della mia carriera: l’ignoranza”.
Prende dal basso, dal popolare, dal filmone di serie Z, da quei libretti che in Italia si chiamerebbero Urania, dai fumettacci da quattro soldi e non, dalla suspence più vieta e scontata, dall’horror grossolano. Così come dal libro con la L maiuscola, il classico, il romanzo di formazione, i quadretti raffinato di caratteri, e via così. Rimesta tutto insieme, e poi ci mette l’ingrediente magico. Che sarebbe la sua Arte, quella vera. Quella che uno ha o non ha, e che lo fa automaticamente (o quasi) Artista anche se parla di ricette di cucina e/o di carburatori e valvola a farfalla. Certo, non sempre funziona, ma questo è un altro discorso. Nessuno è perfetto, no? Lo stesso fa Tarantino, comunque, nel cinema. Kill Bill è l’esempio lampante di cose prese e raccattate qua e là e sublimate (alé! E vai di parolone! Mi sono guadagnato il rispetto & la stima di tutti voi, mi par giusto) e trascese (e due – mi paio veramente ganzo!) nella sua Arte. Perché c’è un motivo per cui non restano nella serie B, entrambi. E spesso ci sfugge, ma è quello: la stessa relazione che ad esempio lega e distingue Romeo & Juliet di Shakespeare dall’originale della vicenda, raccolta da Luigi da Porto un secolo prima; o quella fra Ariosto e i cantari popolari; fra Boccaccio e la cultura del suo tempo, e così via.
Ma insomma: La notte del drive-in realizza tutto questo. Resta un fumettone (come Kill Bill), per certi versi, un “horror di serie B”, è un omaggio a qualcosa che si è amato da ragazzi, ma al tempo stesso contamina il tutto con qualcosa di più sottile e letterario. E ci mette l’Arte, appunto. La fantasia (che grazie a quell’ingrediente magico RESTA fantasia, e non scade di troppo nel banale e nel grossolano) più lo stile.
Il volume raccoglie Il Drive in e il seguito di questo (Il Drive-in 2), e indubbiamente il primo presenta più freschezza e capacità di meravigliare, nel suo orrido, e nel suo tratteggiare personaggi eccezionali (ad esempio il predicatore Sam e la moglie. Se ne trovano pochi, di personaggi così ben riusciti, a giro per altre pagine), di quelli che per una ragione o per l’altra ti restano dentro anche a lettura ampiamente conclusa. Il secondo per certi aspetti è come se soffrisse di un complesso-del-colpo-di-scena-a-tutti-i-costi (oltre a una specie di ondeggiamento che è un po’ una caduta nel polpettone senza riscatto: si accenna a dei dinosauri, ad esempio, un Tirannosauro viene visto attraversare la strada, poi questi scompaiono e nessuno ne sente più parlare) anche se il banale e il grossolano, o l’incredibile (in senso negativo, come non-credibile), sono quasi sempre evitati, cambiando quasi completamente scena e ambientazione (pur concludendo il tutto dove tutto era cominciato). Insomma, Popalong Cassidy non ha la forza del Re del Popcorn. E Grace un po’ irrita, nel suo essere una specie di alter-ego femminile dell'autore, come irritano tutti gli esaltati per le arti marziali. Ma il primo vi lascia attaccati a leggere, finché non è finito: ed è qualcosa di più che un romanzone, che uno zuppone da adolescenti.
È il vertice creativo di Lansdale? No, perché In fondo alla palude è pure meglio. Sparisce pure quel poco di grossolano che ci poteva essere nel Drive-in, e la possibilità di contaminare fonti popolari con il romanzo di formazione danno origine a un giallo (e difatti per la prima volta in Italia fu pubblicato nella collana del Giallo Mondadori) che non è solo letteratura di genere – tradizionale appiglio per relegare questo o quest’altro scritto nella “serie B”, oltre a discreto luogo comune che ha una parte di vero e tre parti di cazzata – ma vera e propria opera per soddisfare anche i puristi della forma. Potremmo dire, per proseguire con il parallelismo, che il Drive-in sia Kill Bill (toh, tra l'altro entrambi in due parti, e con la prima migliore della seconda!), e In fondo alla palude, Pulp fiction: più immediato e di gran presa il primo, più meditato e articolato (con più pretese, sia letterarie che cinematografiche, insomma), il secondo.
Comunque, pare una formula perfetta: si mette uno sfondo (il Texas, nel caso dell’autore, e lo si rappresenta bene, nei minimi particolari, razzismo e provincialismo compresi, il tutto messo su carta da chi quell’aria ha da sempre respirato), si prende il popolare (l’horror ne il Drive-in, la vicenda degli omicidi in questo), lo si contamina con qualcosa di “alto” (il romanzo di formazione o la rappresentazione realistica della Società, o lo stile, insomma), si aggiunge quell’ingrediente magico di cui sopra (che non è facile), e tutto funziona – tra l’altro, se invece del popolare, si mette il caratteristico, ecco che avremo Cormac McCarthy invece di Joe R. Lansdale, ma questo è un altro discorso. E invece non funziona sempre: La sottile linea scura, ultimo romanzo di Lansdale è una delusione, e pare mancante proprio di quell’ultimo ingrediente. La lampadina non si è accesa, insomma. C’è tutto, il resto: c’è il Texas, c’è il popolare e c’è l’“alto”; ma sarà perché è tutto troppo simile (davvero, pare un auto-plagio!) a In fondo alla palude che l’Arte manca, e allora non appassiona la parte popolare (il delitto, quel che c’è dietro, quel che dovrebbe appassionare), come stile non dà nulla, e anzi si può notare come alcuni personaggi restino incerti, magari tratteggiati pure maluccio (ad esempio Buster, il vecchio protezionista, che parla per metà come un “povero negro schiavo” e per metà come Tom Wolfe), e anche lo sfondo risulta piuttosto noioso e irreale.
Ma l’uomo capra e diversi altri personaggi del fondo della Palude...
Tante cose, eh? e merda a tutti, ma soprattutto a me.

settembre 20, 2004

G. SAUNDERS, Pastoralia

Di Saunders in Italia sono usciti soltanto questi sei racconti, più uno compreso nella famosa antologia Burned Children of America di minimum fax (minimum fax un po’ meno puttana di adesso, pronta com’è a cercar di rastrellare soldi squallidamente da UNA raccolta di Bukowski, facendo leva solo sul nome e sui cretini come me che apprezzano davvero il vecchio Buk e sono disposti pure ad esser presi per il culo per lui – davvero, inoltre ma che cazzo di lavoro ci han fatto Raimo e Tiziano Scarpa? Ma che vadano un po’ affanculo, cazzarola!). Ah, inoltre, un libro per bambini, I tenacissimi Sgrinfi di Frip. Nonostante qui si sbandieri la prossima pubblicazione di CivilWar in Bad Decline (sua opera prima), per adesso niente. Ed è un peccato. È un peccato, ad esempio, che sia stra-tradotto e stra-considerato David Foster Wallace, e Saunders no. Perché questo libro è un capolavoro: in giusta misura sorprende, diverte, dà effettivamente qualcosa. Sul serio, Saunders è uno scrittore che si potrebbe definire geniale. Alcuni temi fondamentali si rincorrono per tutti i pochi racconti (comunque storie molto diverse le une dalle altre: dal quadro metaforico-irreale al quotidiano più banale e squallido, passando per il dramma familiare e il grottesco) della raccolta: lo squallore della vita, quello ancor più forte del lavoro, quello di un amore che non c'è. Su tutto una pungentissima ironia (Quercia del Mar è semplicemente favoloso) mai banale o scontata, perfettamente al suo posto nello stile frastagliato e mosso dell'autore, il quale su tutto fa aleggiare una nevrosi generale e perfettamente rappresentata.
Di sei racconti, tre almeno (Pastoralia, Winky e come dicevo, Quercia del mar, ma la cosa è a voler esser riduttivi) sono fantastici, e quadri irreali o veritieri che siano, colgono perfettamente il contemporaneo, la Società. Non c’è molto altro da dire; in casi come questi si tratta soltanto di leggere. Quindi, via, muoversi: date fuoco alla Mazzantini e/o a Ammaniti. Qui perlomeno c’è la fantasia, il divertimento e l’originalità, anche quando si è immersi nel melodrammatico (si pensi a La fine di FIRPO nel mondo, per citare un altro dei sei).
Al proposito, infine, e a non smentire il tutto quindi, c’è solo da aggiungere che il racconto incluso in Burned Children of America (a titolo Parlo anch’io!) è il migliore dell’antologia. O se la gioca con Lethem, Eggers, e la Homes, se si vuole… 

settembre 18, 2004

S. RUSHDIE, Furia (Fury)

Confuso, caotico e non interessante, se non per pochi stralci: un libro che si fa una fatica tremenda a leggere. Fatica che non vale la pena di fare. Si vede però che è scritto da un grande scrittore, un grande scrittore che magari ha clamorosamente toppato la prova. L’abilità di scrittura è indubbia, un enciclopedismo sterminato (Rushdie appartiene senza dubbio a quella classe di scrittori come Roth, De Lillo, magari anche il nostro Eco) pure, ma di sicuro più che tutto torna la noia, l’eccesso, l’intricato fino a perdercisi (lo stesso enciclopedismo, l’erudizione fine a se stessa, magari tirata fuori gratuitamente, così tanto per impressionare, è una cosa non propriamente positiva, in fin dei conti). Perché qui il problema non è tanto lo stile, ma la storia. Che fa tanto fumo, ma poi alla fine non fa restar nulla di sé. E la cosa rompe.La fantascienza, qui, è come vedere un pinguino all’equatore. E quanto alle tirate sugli autori della stessa (compreso il capitolo 12, un immaginario primo capitolo di romanzo di fantascienza) risultano insopportabili come poche altre cose. Si possono pure saltare senza perdere nulla del resto del romanzo. E questo, fino a prova contraria, è un discreto limite, no?In teoria, Rushdie cerca di comprendere tutto il mondo odierno, proprio tutto (dalla filosofia a Jennifer Lopez, dal Olanda-Jugoslavia 4-0 agli Europei del 2000 a gruppi di rivoluzionari utopistici), nella sua scrittura, di circoscriverlo col suo sguardo, e offrircelo magari compresso e rimasticato, a macerie e brandelli, sottoforma di caos; di fatto, annoia e basta. E irrita ancor di più il rendersi conto che l’autore è uno dei migliori che ci siano in circolazione. Irrita, insomma, vedere che i mezzi li avrebbe. E fa cazzate così.
Certi particolari, poi, sono quantomeno irritanti nella loro ingenuità (pare quasi che l’autore si vanti per se stesso, autostrizzandosi l’occhio per le sue capacità affabulatorio-amatorie): difficile, nella vita vera, che un professore universitario di mezz'età passi da una ragazza all'altra, così come se piovesse. La bella indiana, nel mondo reale, starebbe con un calciatore (in Italia) o con un ricchissimo uomo d'affari (in USA)! Ok, anche con uno scrittore, purché ricco e famoso (famoso UGUALE spesso in TV, per un motivo o per un altro, non so se ci capiamo - fama=visibilità). Infine piccolo cammeo sull'accademismo vuoto e inconcludente che spesso fa bella (?) mostra di sé: il lavoro di dottorato della prima moglie di Malik Solanka. Semplicemente fantastico: dopo aver saputo che Otello ama Desdemona per quello che rappresenta ai suoi occhi, dopo aver compreso che lui è ipostasi dell'uomo orientale, dopo insomma aver visto che questa povera figliola ha speso i suoi anni migliori in sì utile e avvincente saggio critico... sinceramente vengono davvero dei dubbi sull'utilità degli studi...

settembre 16, 2004

D. SEDARIS, Me parlare bello un giorno (Me Talk Pretty One Day)

(EVVAI, LO RIVOLEVI? RIECCOVI BAMBAGINI NYCOLA, PROFESSORE DI STORIA DELLO SCROTO E FENOMENOLOGIA APPLICATA (A STO PAJO DI) ALL'UNIVERSITA' "SERG. GARCIA" DI CEFFONE SUL CIPIGLIO (YO). TITOLARE DELLA CATTEDRA E' PERO' - VI AVVISIAMO! - SOTTO IL NOME DI DOTTOR MERDA. LA QUALE (IDENTITA') NON NASCONDE ALTRE IDENTITA' SE NON QUELLA DI PAPEROGONFIO IN LEASING PRESSO LA DITTA "M. CIUINO" TRASPORTO PINOLI E ANCHE CADAVERI.)

C’è qualcosa di bello, ok, in questa raccolta di racconti di Sedaris; ma se su una trentina (ventisette, per la precisione) di racconti solo una decina possono essere compresi entro un giudizio fra “carini” e “irresistibili”, il giudizio non è che possa essere molto positivo.
A tratti, insomma – ma sporadici – è pure divertente (e comunque, MAI ai livelli sbandierati dalle note in seconda di copertina). Sedaris tocca temi quotidiani, con un tipo di scrittura “quotidiana”, proponendo soluzioni e vie d’uscita che si salvano a volte con l’ironia illogica e con l’assurdo. Per questo, ti strappano un sorriso. Nel complesso però dà proprio l’idea di non esser niente di particolare. Medio in tutto, insomma.
Le punte? Beh, c’è un momento (da pag. 37) in cui il libro sembra cambiare marcia, infilando tre racconti (Ingegneria Genetica, Dodici momenti nella vita di un artista e Il Gallo non lo ammazza nessuno) in un crescendo che arriva all’irresistibile; ma poi subito si affloscia, mettendo qualche boutade qua e là, tra lo scontato e l’assurdo, strappandoti un sorriso o poco altro (poco altro tra cui La curva dell’apprendimento, forse, coi dodici momenti di cui sopra, il miglior lavoro della raccolta, e Il colosso, semplice e divertente storiella che ti lascia divertito, pur nel suo non essere – ancora – niente di che). La prima parte comunque (fino a Ci vediamo ieri, p. 155), riguarda la vita di Sedaris in America, e ci illustra la sua scombinata e bizzarra famiglia in un modo che vorrebbe a tutti i costi farci ridere, e che invece, certe volte, irrita e infastidisce (si pensi ai continui riferimenti che vorrebbero essere autoironici sull’omosessualità dell’autore, netta fin da bambino secondo lo stesso, e rappresentata più che coi toni dell’autoironia, quasi con quelli della maniacalità, come se dovesse esser comico o realistico o altro, ad esempio il fatto che Sedaris bambino sbavi se vede un bel fisico maschile! Oppure, sempre su questa linea, il continuo “giocare a far la checca”, tirandosi addosso battute che nemmeno Rauti farebbe, ad esempio dicendosi di esser bravo a metter nomi ai peluche e a passar l’aspirapolvere!). La seconda riguarda le esperienze parigine dell’autore, il cui nuovo compagno è appunto francese, in occasione di un soggiorno in Francia. In pratica, le sue avventure durante l’apprendimento della lingua. Se è vero che non cade mai (quasi mai!) nell’ovvio, con battute scontate e doppisensi linguistici (pur se tutto è giocato ovviamente lì!), è anche vero che raramente si accende (Ricordando la mia infanzia nel continente africano, ad esempio, ma anche Me parlare bello un giorno, o Gesù si fa la barba).
Insomma, qualche paradosso divertente, qua e là, c’è (si pensi, ad esempio, all’elenco delle prime parole imparate in francese dall’autore: pena di morte, tumefazione facciale, esorcismo, mattatoio, mostro marino cacciatrice di dote, chi ha cacato sul tappeto), ma tutto sommato è anche legittimo arrivare in fondo e chiedersi: maccheccazzo, lui lo pubblicano e a me no?

settembre 15, 2004

D. EGGERS, L’opera struggente di un formidabile genio (A Heartbreaking Work of Staggering Genius). E qualche altra cosa

(ANCORA BUGIOTTY CLETO, DI PROFESSIONE ATROFIA CEREBRALE SPINTA. E AVANZATEMPO ARATRO - IN SOSTANZA, IL BUON VECCHIO DOTTOR MERDA, CHE L'HA NUOVAMENTE RIPESTATA)

“Grande, grande scrittura. Un libro che non lascia scampo”, c’è scritto sulla copertina. Il punto è che è un’impressione lasciata da uno scrittore come lui, vale a dire David Foster Wallace. Il che presuppone che anche la sua sia una scrittura che non lascia scampo. O che forse non lo siano nessuna delle due. Semplice: entrambi, Eggers e Wallace, si presentano come due autori gggiovani, sempre ggiovani; scanzonati, tutt’altro che cattedratici e seriosi, e quant’altro vi può venire in mente su questa linea. Soprattutto, fantasiosi: le loro opere sono sempre qualcosa che sorprende chi legge. Ma il problema è proprio qui: a volte sorprendono, a volte vogliono sorprendere. E lo vogliono a tutti i costi. Ogni pagina, ogni capitolo, ogni frase deve essere una sorpresa, magari una battuta, un ragionamento particolarmente pungente. Sicché rimangono presi nel loro stesso gioco, e per un’altra via raggiungono lo stesso scopo di quei maestri di cui dichiarano di non voler seguire le tracce. Saturano: ci saturano di ridondanze, attingendo o da cose inutili e tutt’altro che interessanti, o da cose gratuitamente complicate (e il secondo caso è quello di Wallace – avete presente, ad esempio Verso Occidente l’impero dirige il suo corso?). Saturano come saturano, ma per altra via, i loro (misconosciuti) “maestri”: se i secondi lo fanno per troppa cultura, per troppo accademismo ed erudizione, questi saturano o per troppa contro-cultura, o per troppo esercizio fine a se stesso di simpatia a tutti i costi (o di bravura fine a se stessa). Ingurgitano spesso tutta l’americanità “leggera” (da qui il classico coinvolgimento del “chi non ci riconosce in tutto questo?” – che non è detto, si badi, che sia un difetto!) che c’è, e te la ripresentano con la loro simpatia, cercando di coinvolgerti, perché chi non ha vissuto esperienza come quelle; chi non ci si riconosce; chi non è disposto a ridere dei loro ammiccamenti estrosi e originali, delle loro avventure stralunate e strampalate?
L’originalità e la grande inventiva caratterizzano questo tipo di scrittori, è indubbio. Però è un gioco che funziona su piccola scala, sul breve: non è un caso che Wallace, ad esempio, renda al meglio (almeno secondo me) in quell’operetta che si intitola Una cosa divertente che non farò mai più, e in alcuni (sì, alcuni… certi sono veramente insopportabili!) dei racconti de La ragazza dai capelli strani (ad esempio in quello che dà il titolo alla raccolta, appunto – per quanto forse questa non sia altro che un tentativo di mostrare, e di di-mostrare, a tutti la sua capacità di maneggiare stili diversi).
E questo è quel che avviene anche all’opera struggente di un formidabile genio di Eggers. È una questione di misura: le 360 e passa pagine dell’opera sono troppe. Tutto è troppo. È eccessivo e sovrabbondante. E soprattutto discontinuo: eccezionale e irresistibile in alcuni punti, in altri Eggers si fa prendere la mano. Ed è una fatica seguirlo. L’autore stesso dice che dopo i primi quattro capitoli (in una prefazione, anche lì, che avrebbe necessitato certo di una grossa sforbiciata), il suo libro perde, e perde parecchio. Anche se nel complesso è quantomeno originale (disegnini, scheimi, linguaggio pieno d’inventiva), è una insopportabile e gratuita aggiunta (poteva essere sbrigata in poche pagine), ad esempio, l’avventura a The real world, il reality show di m-tv (e in genere tutto o quasi, dal cap. VI, secondo me, precipita – e una volta stuccato il lettore, lo si recupera male…).
A far di continuo piroette, salti mortali, frizzi & lazzi, alla meraviglia si sovrappone la noia. Come dicevo, questo vale per le lunghe distanze: e anche Eggers dà il meglio nel breve, in quanto l’originalità ha bisogno di una miccia corta; scoppiare e poi via, scomparire. Le sue Quattro lettere di Steve, un cane, ad alcuni capitani d’industria (pubblicato nell’antologia Burned children of America, di minimum fax), in questo senso, sono fulminanti, come lo sono certi passi di quest’opera struggente (per dirne una, l’entrata nel nuovo appartamento, la cui bellezza si misura dal grado di resistenza del pavimento alla “scivolata su calza”). Dopo aver letto l’opera struggente di un formidabile genio, ed essersi sorbiti le mille e mille divagazioni pseudo-simpatiche, le mille e mille avventure che dovrebbero essere una continua risata, difficilmente ci si ricasca. Fatto sta, insomma, che io Conoscerete la Nostra Velocità l’ho comprato, ma l’ho sempre lì, su uno scaffale. Non so se lo aprirò mai. E lo stesso vale per Infinte Jest. Ecco, quello forse non so se lo comprerò mai…

settembre 12, 2004

61° mostra del cinema di venezia

GROSSA SORPRESA!

Cinema italiano ancora ignorato, alla 61° mostra del Cinema di Venezia.
Chissà perché? Sarà una congiura? I giudici sono dei corrotti (magari pure comunisti, o fascisti? O comunque di destra in generale)? Eh?
O sarà forse che il cinema italiano, nel 90% dei casi, FA CACARE? Ed è buono solo a tirar fuori zupponi strappalacrime pseudo-impegnati o tremendamente seriosi, e/o quand’anche storielle metropolitane misere e senza alcuna idea originale?
La fantasia, la si lascia sempre a casa? E il divertimento?
Io non ci vado davvero, a vedere quei drammoni da (e di) sfigati, tutti presi da se stessi e dalla loro teatralità larmoyante.
Però, ogni volta che in qualche manifestazione l’allegra compagnia viene considerata zero, ecco tutti lì a meravigliarsi, che di sicuro sarà una congiura.

W i film di Bud Spencer e Terence Hill!

settembre 10, 2004

J.T. LEROY, Sarah

Né grottesco né drammatico, né perverso né sconvolgente: che cos’è che non può fare una buona strategia pubblicitaria? Ridicoli e inverosimili i dialoghi, fastidiose le continue imprecazioni dei personaggi, che invece vorrebbero essere buffe e fantasiose (sul serio, l’autore le lasci a Tom Waits: è meglio). Se solo ci si immagina un attimo l’iter che potrebbe avere un testo così, senza raccomandazioni o nomi forti alle spalle beninteso, in una redazione editoriale! Non credibile, forzato, ingenuo, ma con qualche punta originale (forzate se non fuori luogo pure le note in quarta di copertina): e nessuno lo pubblicherebbe, mai. Tutto questo è Sarah, di J.T. Leroy, che vorrebbe scandalizzare, che vorrebbe vantarsi e mettersi in mostra, che vorrebbe dirci che questa più o meno è stata la sua vita, e ora lui passa alla cassa, perché a un certo punto tutto fa brodo e con tutto si fa soldi, tantopiù che sul torbido, sul sessualeggiante, sul perverso si fa leva facilmente. E le domande fioccano: ma avrà davvero vissuto così, poverino? Ma sarà stata davvero questa la sua vita? Che scandalo! E poi via ad attribuirgli la qualifica di genio, di poeta, di tenero poeta geniale.
Chi se ne frega se ha vissuto così, o no. Si deve giudicare il libro, e il libro fa decisamente cacare. Per di più, non c’è nemmeno più di tanto, di realistico. Non è né carne né pesce, alla fine. E a non esser né questo né quest’altro (né, appunto, grottesco, né sconcio, né provocatorio, né poetico, ecc.), pare non guadagnarci nessuno: è un piccolo polpettone insipido, che manca ogni obiettivo che vorrebbe centrare. Alla fine, viene solo da pensare che l’autore debba avere dei buonissimi sponsor (Suzanne Vega, più volte ringraziata e presente, potrebbe andare?).
Complimenti alla Fazi, che fra Leroy e Melissa P. di sicuro ha trovato una linea che vende, nonostante te la facciano pagare cifroni assurdi. E rallegramenti all’autore, che ha firmato pure la sceneggiatura di quel pretenzioso e culturaleggiante filmetto che era Elephant, e che a quanto ne so, ha pure un bel rapporto con Asia Argento. Magari la chiava, o che so io. Ma, detto per inciso, assioma n. 1: qualcosa a cui si interessa in un qualsivoglia modo la simpatica Asia Argento (dico: Asia Argento. Capite? Asia Argento) NON è per principio qualcosa di cui si possa dire che VALGA LA PENA.
Quanto al rapporto letteratura-vita, o finzione-realtà che si preferisca, ecco due righe di uno scrittore vero: “Di sicuro tutti conoscono le due domande più frequenti che vengono poste a uno scrittore. Di cosa parla il libro? È autobiografico? Queste domande e le relative risposte non mi sono mai parse irresistibilmente interessanti: se si tratta di un buon romanzo, sia le domande che le risposte sono irrilevanti. […] Quando Il mondo secondo Garp venne pubblicato, molti genitori che avevano perso un figlio mi scrissero. “anch’io ne ho perduto uno”, mi dicevano. Confessai loro che non avevo mai perduto un figlio, che ero solo un padre dotato di una vivida fantasia. Nella mia immaginazione, io perdo un figlio tutti i giorni 

settembre 07, 2004

D. DE LILLO, Great Jones Street

(Le favolose recensioni di Bambèdo Cugnas, paperogonfio a rate, impiegato presso il CEAP (Centro Elettrodomestici A Pile) e nEpote di Fuffy, Pimpy, Tinty & dello Stronzolo Gigante. Altrimenti detto, IL DOTTOR MERDA)

Una Rockstar misticheggiante e trasgressiva, Bucky Wunderlick, sente la vacuità di tutto il suo (e non solo il suo) mondo, e decide che è venuto il tempo di mollare tutto. In incognito, quindi, va a rintanarsi in uno scalcinato appartamento nei bassifondi di New York, in Great Jones Street, appartamento della sua altrettanto allucinata compagna, una groupie al momento misteriosamente assente, forse spersa in qualche polveroso paese “senza tempo”.
Riusciranno comunque a trovarlo; e alla sua porta ecco quindi tutta una serie di personaggi: il manager, funzionari della holding che detiene i diritti delle creazioni di Bucky, tormentati scrittori pseudo-falliti del piano di sopra e vedove con figlio gravemente handicappato del piano di sotto, misteriosi emissari di una Comune agricola che ha appena inventato una nuova e (presumibilmente) potentissima droga, e che vorrebbe coinvolgerlo nello smercio, fino a possibili e altrettanto allucinati acquirenti di questa.
Tra pensieri straniati e meditazioni contorte, tra il ritorno di Opel (la groupie, che si rivela tra l’altro l’anello di congiunzione fra la Comune Agricola e il laboratorio clandestino che dovrebbe analizzare la nuova droga – e anche lì, il dottore che lo presiede mostrerà connotati pazzoidi e diabolici, sinistri e allucinati) e pressanti richieste della casa discografica (che in mancanza di nuovo materiale sottrarrà con l’inganno vecchie e del tutto personali e sconclusionate registrazioni dell’“artista”) Bucky Wunderlick si renderà conto una volta di più che non gli è possibile ormai alcun ritiro, alcun silenzio: quel suo mondo lo ha definitivamente inglobato e lo possiede, e non esiste più nessuna libertà di scelta, nessuna cosa che dipenda solo da se stesso. Anche lui è niente più che un prodotto, e un prodotto si vende, con altri che, a tavolino, decidono tutti i suoi destini. Tutto questo lo stritolerà, e alla fine sarà la Comunità Agricola a ridurlo al silenzio, perpetrando così la sua leggenda per i milioni di fan e occhi che comunque inevitabilmente a lui guardano e lui cercano.
Tutto questo, quindi, per una corrosiva satira del mondo del rock, dell’industria dello spettacolo e delle arti americana. Credibile, certo, Bucky Wunderlick nella sua ossessività (compaiono anche i suoi testi, dagli album del passato), e ottime alcune tirate di qualche personaggio (su tutti Globke, il manager, sulla vendibilità di un “prodotto”, cap. 24; ma anche i vari concioni di Fenig, lo scrittore, sul concetto di mercato, sparsi qua e là), ma nel complesso il libro non riesce a interessare. Stanca, e tra un errore di traduzione e/o sintassi e l’altro si rivela troppo gonfio, troppo denso, come spesso capita quando c’è di mezzo DeLillo. È come se tutto fosse pretesto per un interminabile esibizione di bravura, un virtuosismo continuo, che porta sempre lo scrittore a indugiare troppo su concetti deliranti, sulla meditazione fine a se stessa e che si compiace di certe assurdità. Non è un caso infatti che il libro susciti maggiore interesse e coinvolgimento all’inizio, quando cioè la vicenda viene presentata, e (soprattutto) verso la fine, quando cioè il corso degli eventi è più serrato e va effettivamente verso qualcosa, quando insomma i nodi vengono al pettine e la vicenda torna a riemergere un po’ più chiara e meno sommersa e annacquata da tutti i pensieri pletorici e contorcimenti stilistici. Scremando un po’, insomma… ma DeLillo vuole sempre che chi legge rimanga ammirato dalla sua proprietà di linguaggio, dalla sua capacità di maneggiare idee, fino a fartici perdere. È una costante sua e di altri, Salman Rushdie e Philip Roth, ad esempio. Ma di questi solo l’ultimo riesce davvero, anche a questo prezzo, a prenderti. E nemmeno sempre, tra l’altro. Qui, dopo un po’ ci si annoia, pur ammirando, e nel caso specifico tutto – quasi tutto – è troppo assurdo e allucinato. La trama in sé (e anche l’inizio: “la celebrità, questo tipo particolare di celebrità, si nutre di oltraggi, di quello che i consiglieri di uomini di statura ben minore definirebbero pessime relazioni pubbliche: scene isteriche dentro limousine, litigi tradimenti, pandemonio, droghe”) farebbe pensare a qualcosa di meglio e di diverso, a un Glamorama (ma Bret Easton Ellis rimane comunque un citrullo e poco più) del mondo alternativo (pseudo-alternativo) e psichedelico, rock e ribelle (pseudo-ribelle), che fallisce però, contaminato dallo stile eccessivo e manieristico dell’autore.

Nel complesso, dato che il DOTTOR MERDA™ ha da dare i voti, e lui li dà da uno a dieci (che sennò pare abbia copiato IBS, e ciò non è giuste oltreché bello) vi dice che questo libro vale 6.5. O anche 6, dipende da quel che ha sognato stanotte e da come le stelle gli sono propyzie.
E se ciò non vi va bene, protestate pure. Tanto non v'ascolto.