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novembre 22, 2009

GLI ABBRACCI SPEZZATI (Los abrazos rotos), Pedro Almodovar

Dopo aver passato di furia alcuni film del regista, da Tacchi a spillo a Légami a Carne tremula e roba così, uno (cioè io – non è che parlo per altri insomma, il blog è mio) lo bollava come un Fellini andato a male più tutto un corredo di esibizionismi feticismi pruderie e tutta quella roba lì – Bigas Luna Tinto Brass (brrr...) e giù a scendere – e lo metteva da una parte, rubricato bel bello entro la categoria mentale dei film folcloristici e ossessionati dal sesso purché fuori dal comune (avete una categoria così, nella vostra testa, voialtri? Io sì: tutti quei toreri che si masturbano, quelle donne conturbanti che scopavano solo in modi quantomeno originali, uomini che cambiavano sesso, morbosi intrecci fra religione e sesso, sessualità incerte ed ossessioni per tacchi alti, travestitismi, passioni amore-morte, e via e via e via. Sesso sesso sesso. Film di folclorismo malato iper-sessuale, appunto).
Poi, tutto questo finché si arrivava a Tutto su mia madre, ché allora uno si diceva eh no ora magari basta eh, finché si fa a divertirsi e ci si guarda l’ombelico e si mettono in piazza ossessioni perversioni e provocazioni tanto per scandalizzare i benpensanti, passi; ma se poi ci si vuol metter pure il carico di briscola e con questi stessi ingredienti far saltar fuori il filmone d’arte con pretese, tanti cari saluti.
Quantomeno, si diventa pesanti: e i continui personaggi sopra le righe, e le suore violentate col volto di Penelope Cruz (la suora che ognuno di noi vorrebbe aver avuto a catechismo, invece di Suor Cassettone, un metro e mezzo per 300mc di ingombro, baffi e denti finti inclusi), e gli eccessi di padri che cambiano sesso, e le coincidenze troppo inverosimili, più le lacrime, i drammatici ricordi e il dilemma morale… – ecco, ne dovrebbe venir fuori un film da ricordare.
Secondo voi?
Un cazzo.
E io con Almodovar avevo chiuso.
Questa la premessa (che è tra l’altro – forse – più lunga del temino, ma insomma se ero sano era tanto meglio per un sacco di gente, io per primo). Poi successe cosa? Che uscì Habla con ella, e io mi dissi neanche morto. Poi La mala educación, ed io lessi la trama e dissi ci risiamo, solite ossessioni, omosessualità, tormenti e autoreferenzialità. Magari due travestiti, un padre gretto e crudele e una madre angelica e buonanotte.
Poi uscì Volver. Stavolta non mi dissi neanche morto (non ricordo perché, a volte il caso salva dall'errore), ed entrai in sala. Mi sembrò un capolavoro: se alcune esagerazioni/eccessi c’erano, erano esclusivamente in nome della trama, come tessere fatte tornare al loro posto con un po’ di sforzo (esempio su tutti, la madre sparita in un incendio anni prima), ma niente di gratuito o inutilmente morboso. E quella che era la vera ossessione di Almodovar usciva – naturale conseguenza – allo scoperto, finalmente definita e depurata da tutta la paccottiglia folcloristica che fino ad oggi si era portato dietro. La donna, dico: da sempre al centro dell’universo di Almodovar, che in lei vede tutto: la libertà e la bellezza, la fragilità e la forza, il vero motore del mondo. Certo, non sempre l’uomo è così sordo ai sentimenti, e così meschino e così materiale e così ottuso. Non tutti gli uomini son sessualmente molesti presso la figlia adolescente; non tutti gli uomini solo soltanto la bruta attesa/pretesa della cena sul divano, mentre guardano il calcio, per poi pretendere l’adempimento dei doveri coniugali (?) in camera da letto.
Non tutti gli uomini sono così e soltanto lui (in questo è tutto il fellinismo di Almodovar, secondo me) contempla e comprende la bellezza e il fascino complesso dell’universo femminile ("Siete tante ma siete una sola", ebbe a far dire alla luna con voce di Benigni, in altra occasione). Ma tant’è, a questi patti e con questa abilità di struttura – perché son proprio la struttura e le emozioni umane che la parte femminile suscita, a toccare nel profondo, più che la vicenda che il film racconta, appunto un po’ eccessiva ed irreale – ci possiamo stare eccome. Ce ne fossero.
Almodovar aveva quindi attraversato Fellini e le sue ossessioni farsesche, e finalmente aveva trovato la sua strada. E anche i consueti omaggi cinefili non erano più narcisismi fini a se stessi, bensì veri e propri atti d’amore di chi vive per il cinema, ma ne è finalmente parte, con una sua voce ed un suo stile: Almodovar è sempre stato riconoscibile, ma adesso questo era diventato il suo pregio. Proprio come Fellini, tra l'altro.
Scoprii più tardi che il percorso in realtà si era già compiuto con Parla con lei (ignoro – a questo punto, e preferisco restar col dubbio un altro po’ – se La mala educación sia un’aberrazione e un ritornar indietro), un film meraviglioso e ancor più misurato di Volver, quanto alla trama. Un altro congegno perfettamente strutturato (perfetta la padronanza del meccanismo temporale cui Almodovar spesso ricorre, giocando col tempo e i vari piani narrativi, spesso muovendosi a ritroso) ed esaltato da una colonna sonora veramente fuori dal comune, in cui gli eccessi erano quasi del tutto banditi o se c’erano venivano sublimati in altre manifestazioni artistiche – le due coreografie di Pina Bausch, la performance di Caetano Veloso, l’omaggio al cinema, stavolta quello muto, la parte di Geraldine Chaplin. E tutto si chiudeva senza chiudersi, lasciando un senso di piacevole coinvolgimento.
Insomma: alla prossima occasione, non sarebbe stato certo più possibile dirsi neanche morto.
E l’occasione fu Los abrazos rotos, che a dir la verità non si annunciava in tripudio di critica.
A torto, secondo me: perché se la vicenda del registra/sceneggiatore non vedente ci viene come al solito svelata tornando all’indietro, e i personaggi sono tutti quelli consueti (con la solita piccola concessione all’eccesso ed all’inverosimile – il figlio omosessuale e il figlio del protagonista maschile su tutti, più il solito tema della superiorità femminile, che qui è ammorbidito da un po’ troppa indulgenza: lei grigia segretaria sciupata che occasionalmente si prostituisce per aiutar la famiglia e che finisce immancabilmente per accasarsi presso il capo ricco vecchio e vizioso, salvo provar per questi orrore a breve, peccato soltanto dopo aver assaporato i ben noti vantaggi e privilegi) ma ben centrati, è vero anche che più che il melodramma e i temi soliti, il nocciolo della questione è l’amore per il cinema e l’affabulazione, col film – che come al solito è infarcito di omaggi a tema, sia pure solo sotto forma di elenco di titoli registi e attori – che si fa meta-cinema nel finale, ricordando come tutte le storie meritino di essere raccontate, è questo l’importante, come se noi stessi non fossimo altro che una storia, le nostre vicende, le nostre passioni. Il che è fondamentalmente vero: raccontando quel che è dentro di noi, viviamo. O viviamo davvero. O quantomeno viviamo meglio.
Un altro tema che si aggiunge, alla fin dei conti; o, in altre parole, un arricchimento dell'Almodovar-pensiero.