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maggio 30, 2012

COSMOPOLIS, David Cronenberg

Un Cronenberg disciplinato, lineare e (più o meno) teso nell'inseguimento di un filo logico. Era così anche nel precedente A dangerous method (e ancor prima, in History of Violence - sono non solo cronologicamente lontani i tempi di Spider e, soprattutto, de Il pasto nudo!). Restano, trait-d'union al bagaglio consueto del regista canadese, il pessimismo e il mostrare la desolazione e il vuoto letale del nostro mondo. 
E che cosa può dirsi migliore, per i nostri giorni, per mostrare al suo massimo quel vuoto e quella desolazione, di una telecamera che si posa su quella che un tempo fu baldanzosa new-economy piena di speranza (?) ed oggi è - forse, ché nemmeno di questo si può esser certi! - solo caos e caso, bolla ormai scoppiata e dissolta, piena come si è rivelata di capriccio miliardario, immancabile ingiustizia, folle gioco fine a se stesso? 
Le 24 ore di Eric Packer, che decide di andare a farsi tagliare i capelli all'altro capo di Manhattan (Hell's Kitchen, quartiere di ricordi infantili e innocenza perduta - ma davvero nessuno ha notato la seduzione "Orsonwellesiana": Rosebud!), attraversando a passo d'uomo, chiuso non solo metaforicamente nel suo mondo di lusso, silenziato e separato, costruito sul nulla, incomprensibile a 360° (come incomprensibile in quasi tutti i sensi è la crisi che stiamo vivendo e che continueremo a vivere), sono una discesa nel niente immobile e autoreferenziale di un mondo costituito dalla sinistra e vuota unione di capitale e tecnologia, asserviti (?) per soggiogare e fortificare, o semplicemente perpetuando quel binomio - e, verrebbe da chiedersi, i due termini sono veramente asserviti a qualcuno o sono essi stessi padroni che mietono schiavi? -  o mettendo in moto catene di eventi che ci si illude di poter controllare sempre e comunque, perché tutto a un suo posto e tutto deve essere dominato, fino a scoprire, in una correlazione fra io e tu, fra corpo e mondo che già di per sé sarebbe invece significativa, che ci può esser sempre qualcosa che ci sfugge e non si immagina: la prostata asimmetrica, il crollo dello yuan. Una vita, un'altra, al di fuori di logiche (quali logiche?) che non siano accumulo autistico,
E anche l'incomprensibile - inteso sia come linguaggio cinematografico che come contenuto e messaggio veicolato - diventa giustificato e tutt'altro che fuori posto. Idem per la scelta dell'attore (l'inespressivo - ma qui a buonissima ragione - ex vampiro insulso di Twilight, Robert Pattinson) che si rivela più che azzeccata e felice. Tralasciando Paul Giamatti che, be', è sempre Paul Giamatti e vale di per sé il prezzo del biglietto.
Gran merito a Don DeLillo (era il 2003!) di aver previsto tutto questo, anche nei minimi dettagli (si veda alla voce Occupy Wall Street, ad esempio), anche in quelli più di colore (la torta in faccia che si è preso Murdoch nel 2011): Cronenberg prende pari pari il romanzo breve dello scrittore statunitense (solita scrittura densa e protagonista di per sé) e lo traspone in sceneggiatura, copiando spesso anche i dialoghi. Qualcosa si perde, qualcosa salta (qualche dato in più su Benno Levin-Paul Giamatti), ma che tensione che riesce a costruire nella sequenza finale, in attesa di uno sparo...

aprile 26, 2012

The Avengers!


Ho comprato il mio primo fumetto Marvel (l’Uomo Ragno, n. 184) all’età di 6 anni. Era il periodo d’oro dell’editoriale Corno. Le uscite mensili superavano le 10 unità e in televisione apparivano i primi cartoni animati di Spiderman e dei Fantastici Quattro.
Di lì a poco avrei iniziato a comprare i Fantastci Quattro, Capitan America e via via tutti gli altri, e tra tutti  il Mitico Thor e i Potenti Vendicatori.
Benché il fumetto e la scrittura di per se stessi siano in grado di dare emozioni e immagini di “fantasia” meglio di qualsiasi altro strumento, quel bambino sognava già all’epoca di vedere un film con i “suoi” personaggi.
“Suoi” personaggi, perchè come amici di infanzia hanno vissuto una vita insieme. Hanno condiviso istanti indimenticabili, lo hanno preso per mano e portato in un mondo di meraviglia.
 Con loro ho passato ore, giorni, anni. Ho sofferto il fallimento della Corno, le tribolazioni del loro ritorno. Gli sforzi della Star Comics, o della PlayPress, la paura di un nuovo tracollo editoriale.
La mia paura di perderli di nuovo, io che per aiutarli compravo sempre un doppio albo.
Così quando ieri sera è finito il film, l’unico mio pensiero è andato a quel bambino che correva all’edicola a vedere se era uscito il nuovo giornalino, e le uniche parole che mi son venute di dirgli sono state "un sogno che si avvera".
Si proprio così. In The Avengers ci sono tutti gli elementi che un marvelzombies poteva chiedere.
L’affresco del film è stato preparato, come nella tradizione dei comics, con una serie di avventure di avvicinamento. I primi due film di Iron Man, il film di Thor, Hulk e Capitan Americacome in un crossover fumettistico, sono tutti legati insieme da vari elementi, perfettamente riuniti nel film sui vendicatori.
I personaggi sono tutti azzeccati, da Loki a Maria Hill, da Tony Stark (eccezionale Robert Downey JR) a Nick Fury, con un Hulk talmente simile al Bruce Banner dei fumetti da diventare non una comparsa ma un elemento imprescindibile per la riuscita del film.
La storia non annoia mai, non perde mai di originalità (merito di Whedon, sceneggiatore di fumetti), e gli scontri mai ripetitivi sembrano usciti dalle pagine degli albi e trasportati direttamente sullo schermo.
Spettacolo puro, puro divertimento (anche per chi non legge i fumetti).
Si poteva fare di meglio? No, credo proprio di no.
Aspettatevi di tutto, aspettatevi di più, non rimarrete delusi.

P.S. Thor si trattiene contro Hulk!

fsn

marzo 18, 2012

PETE DEXTER, Spooner

Giornalista prima ancora che scrittore (quando la scrittura per così dire "creativa" inizia con un trauma: 1981, circa una trentina di cittadini di un quartiere malfamato di Philadelphia - Devil's Pocket, anche il titolo, significativo, del suo primo romanzo - che sottopongono il giornalista, reo di averli offesi con un articolo su un fatto di cronaca avvenuto in quella zona, a un pestaggio che lo lascia in fin di via, condannandolo a una parziale disabilità e una serie di interventi chirurgici), Pete Dexter, nato a Pontiac (Illinois) negli anni '40, ci regala con Spooner il suo ottavo romanzo, direttamente dall'isola nella suggestiva zona del Puget Sound (una baia fra Seattle e Vancouver, nello stato di Washington). Si tratta di una sorta di autobiografia spuria, che mischia in modo piuttosto confuso episodi reali e di finzione, o - meglio - che parte da episodi reali e da lì si muove. Verso? Verso qualche tentennamento e qualche scivolone, con questa figura di Spooner che sfugge e non si fa propria, mai o quasi mai. Quel che stride è forse che l'autore vorrebbe una partecipazione del lettore - o forse non la vorrebbe affatto: ma non pare del tutto chiaro nemmeno a lui, in definitiva, come non del tutto chiaro pare la cifra stilistica da dare a Spooner. Si tratta di un eroe picaresco sempre pronto a cacciarsi nei guai, di un anti-eroe che sente irresistibile l'impulso verso il crimine o la contestazione, un Huckleberry Finn o un inetto assoluto, un giovane Torless, un individuo marchiato fin dalla nascita dal senso di colpa? Di un Jean-Jacques che fa le sue Confessioni, di uno Zeno che alla fin dei conti cade sempre in piedi? E non vale tanto il dire: non è nessun di questi, che in sé potrebbe essere anche un pregio. Perché è po' questo un po' quello, e forse il romanzo patisce un po' il continuo attraversar di confini, fra autobiografia (senza che per questo debba essere esatta o trasparente al 100% - quale autobiografia lo è?) e finzione: perché ogni volta i personaggi si ridefiniscono in una sorta di transustanziazione letteraria, smaterializzandosi da una dimensione per ri-materializzarsi nell'altra, e non è un caso - secondo me - se il momento migliore del lavoro di Dexter è l'ultima sezione del libro (la parte ottava, Whidbey Island), in cui ormai la scelta per l'autobiografia (di nuovo: senza che questo debba necessariamente significare una cronaca fedele della vita presente o passata del cittadino Pete Dexter, che pure rielabora nuovamente il tragico episodio del Devil's Pocket) è stata fatta, e questi scivolamenti un po' fastidiosi - in particolare, il personaggio che ne patisce di più è senz'altro lo sfuggente (suo malgrado) Calmer Ottosson, al pari anche della madre e gli anni d'infanzia, che soffrono di un tratteggio poco chiaro e confusionario  - non ci sono più. 
Lo stile dell'autore è ellittico ed originale, per così dire mosso, come già nelle altre prove, ma si ha la sensazione che le cartucce migliori siano state sparate (la migliore, senz'altro Paris Trout, romanzo del 1988, vincitore del National Book Award, da noi uscito in infelicissima e pasticciata traduzione con gratuita citazione conradiana acclusa; pessimo fu Train, pare sia ottimo The Paperboy, tradotto come Un affare di Famiglia - saprò dire quanto prima, casomai a qualcuno interessi) e a poco serva come collante il "sentire" di Spooner bambino e adulto, il suo senso della vita lungo tutta la stessa, una sorta di ansia costante, la "sensazione di venir risucchiato in un violento turbine, come se qualcuno avesse tirato l'acqua e lui stesse precipitando giù per lo scarico del gabinetto", la paura di perdere quello che ha conquistato (e che ha avuto come per caso, ma sempre con fatica - è forse tutta qui la contraddizione irrisolta di questo romanzo-autobiografia!), per cui "aveva sempre dato per scontato che qualunque cosa gli cadesse in grembo gli sarebbe anche caduta dal grembo, prima o poi". 
Interessante, certo: acute e pungenti alcune annotazioni, sicuramente il personaggio Dexter è un tipo decisamente originale (la carriera di pugile dilettante, il giornalismo, i fratelli più "svegli" e più "riusciti" di lui, etc), ma la sensazione del colpo mancato c'è. Eccome se c'è.

marzo 11, 2012

YOUNG ADULT, Jason Reitman

Alla fine si ricompone il connubio Jason (figlio di Ivan, mitico regista di Ghostbusters e tanto basta - oh: tutto il mondo è paese e niente ci possiam fare; comunque sia, siam fuori da ogni sospetto, si può ben dire per il caso: e anzi il figlio è onore e non onere per il padre - certo, acchiappa-fantasmi a parte!) Reitman e Diablo Cody, ex-spogliarellista di qualche paesino sperduto in Minnesota passata poi dietro alla macchina da scrivere con esiti freschi e frizzanti (Juno, felicissimo frutto del sodalizio di cui sopra), un po' convenzionali ma comunque apprezzabili per il genere (l'horror Jennifer's body), e infine nuovamente discreti, seppur lontani dal dieci e lode dell'esordio.
Al suo quarto film dopo due gioielli (Thank you for Smoking e, appunto, Juno - non saprei dire quale dei due più riuscito) e qualcosa di riuscito a metà (Up in the air, da noi uscito col titolo di Tra le nuvole, film che avrebbe dovuto consacrare definitivamente il ragazzo al di fuori del circuito del Sundance Film Festival, ma che a fronte di un'incisiva idea iniziale à la Coen, si annacquava nei fastidiosi manierismi facciali da piacione di George Clooney), Reitman recupera in pieno lo "spirito Sundance" - che sarebbe poi dire politically uncorrect, ritmo, anticonformismo divertito al di là di qualsiasi giudizio o moralismo, un pizzico di off-culture e underground, giovanilismo nel senso buono del termine (per capirsi: non nel senso in cui lo stesso concetto trionfa da noi) - e ci propone l'eterna opposizione metropoli-provincia (tradotto nei nostri confini: città-campagna), senza come al solito esser pro o contro l'una o l'altra, ma per  ricavare spunti acuti e brillanti da una situazione. Tant'è che alla fine, il divertimento ritmato rimane e un'amarezza molto autobiografica (della sceneggiatrice) si sente, ma non finiamo per parteggiare né per Mavis Gary (Charlize Theron, molto brava), ex-reginetta del locale liceo in (sterile) fuga dalla soffocante e monotona provincia, né per Buddy Slade (Patrick Wilson, un po' troppo di plastica nel suo dar corpo al provincialotto costantemente in camicia a quadri con maniche arrotolate e aperta su maglietta bianca) e tutto ciò che si trova a simboleggiare. 
La provincia pigra, chiusa in se stessa, con tutto ciò che nega e tutto ciò a cui lega; il poco, il niente, il limitato e il limitante; il sentirsi contenti con (quel) poco o il sentirsi morti dentro, vivendo senza un domani, inconsapevoli soldatini di un posto sul lago che "puzza di merda di pesce", in cui ciascuno è "grasso e stupido" a suo modo. E la grande città, Minneapolis - MiniApple nella terminologia un po' bifolca degli abitanti di Mercury, Minnesota, i quali hanno (si pensi!) un nuovo locale "fico" in paese - con le sue opportunità e le sue luci, la sua vita "ventilata" e piena di occasioni.
Di fatto, due ragioni diverse della solita infelicità - perché l'infelicità ce la portiamo dentro, non è fuori di noi né si può legare a un posto piuttosto che ad un altro, né - tantomeno - nasce dal bersi le solite birre al solito bar ogni benedetta sera, ripensando ai tempi d'oro del liceo, piuttosto che vedere e vedersi più cool in uno dei tanti locali più raffinati della grande città - da una parte limitazione, dall'altra solitudine. 
Non conta dove siamo né si fugge da noi stessi, se noi stessi siamo personaggi usciti da Glory Days di Bruce Springsteen (di fatto Diablo Cody e The Boss fotografano, ciascuno col proprio linguaggio, la stessa situazione). 
"Quanti ne abbiamo riportati a casa ubriachi dal bar, di ex-capitani della squadra di football del liceo?", diceva il detective Emily Sanders (di nuovo Charlize Theron - magari avrà fatto tesoro di quel personaggio per dar vita a questo) nel bel film di Paul Haggis, Nella Valle di Elah (2007). Be', è più o meno la stessa cosa, lo stesso modo di sentire e vedere uno stato di cose. Per questo forse, più che la vicenda messa in scena dal duo Diablo Cody-Jason Reitman - divertente e amara al tempo stesso - conta lo spirito e l'odore che il film spande per l'aria durante la visione.
Limitazione e solitudine, si diceva. I due elementi si incontrano nel personaggio ottimamente reso di Mavis Gary la quale, pur fuggita dall'insostenibile senso di soffocamento del paesino monotono e limitante, di fatto ne è ancora in tutto e per tutto figlia (una figlia che ben volentieri passa le serate nel solito bar rievocando i tempi del liceo, pur a quindici e passa anni di distanza!), rivelando che dietro un odio tanto acceso per il posto c'è un trauma adolescenziale, e poco altro. 
Per questo, il ritorno è terapeutico - e un po' fuorviante è sulla locandina del film leggere "Tutti invecchiano. Ma non tutti crescono" (cazzo c'entrerà?): compiuto il percorso, avvenuta la catarsi, riabbracciata in tutto e per tutto la provincia e fatti i conti col passato, la scrittrice-semi-fallita-semi-alcolizzata-mezza-isterica Mavis può chiudere finalmente la porta dietro di sé, e la parola fine e in realtà un inizio.
Vita, eccomi.

marzo 02, 2012

Paradiso amaro!


Paradiso amaro, nell’ossimoro sbiadito del titolo italiano viene riassunta la piattezza del film.
La trama è semplice e banale. La moglie di un ricco avvocato immobiliare( mi pare che questo facesse, ma non ho ben capito il mestiere visto che in tutto il film cerca di vendere un pezzo di isola) va in coma in seguito ad  un incidente in mare. Il marito cerca di unire o meglio riunire la famiglia, divisa, in questo momento di lutto e dolore.
“I miei amici credono che solo perché abito alle Hawaii io viva in paradiso” questo è l’incipit del film. E io aggiungo se vivi alle Hawaii e sei pallido cadaverico, passi 24 ore al giorno in ufficio, trascurando tua moglie che infatti ti tradisce, tua figlia ecc, te la sei cercata. Nessun luogo sarà mai il paradiso per viverci, visto che non sarai mai 365 giorni all’anno in vacanza, ma le Hawaii non sono la valle della morte. Comunque questa commedia drammatica rimane inerte per quasi 120 m, che sembrano un ‘eternità, in una sorta di nulla emotivo che non sconfina mai nel dramma o nella commedia. La storia come accennato è leggera. L’incidente della moglie cambia la vita dell’avvocato immobiliarista, Clooney. Lui cerca di affrontare il dramma in maniera razionale e equilibrata. Cerca di recuperare il rapporto con le figlie(perchè come era prevedibile e scontato lui era il genitore di riserva) evidenziando le difficoltà di comunicazione. "Una famiglia è proprio come un arcipelago, le cui isole sono un tutt’uno benché, separate, sole e sempre alla deriva, lentamente si allontanino”. Però se i temi sono elevati, come per esempio la precarietà della vita, il modo in cui sono trattati è stucchevole in stile soap opera. L’ancora una volta insopportabile Clooney(basta per favore non fatelo recitare più, affogatelo nel caffè) si limita a fare smorfie per esprimere il dolore che prova, senza riuscirci. Tutti i personaggi sono disegnati con il compasso. La figlia adolescente ribelle(avvilente nella sua scontatezza), la moglie fedifraga, l’amante opportunista, per non parlare della moglie di questo e della sua scena di gelosia al capezzale della signora Clooney. Il tutto ammassato alla rinfusa con un finale felice dove l’arcipelago familiare si riunisce. Per chi scrive un brutto film che  riesce ad annullare sia il dramma che la commedia. Nemmeno originale l’idea del regista di dare a Shaggy, Norville Rogers, attore più buffo  che bello il ruolo dell’amante  antagonista di Clooney per rimarcare l’amarezza del paradiso.
fsn 

febbraio 27, 2012

THE ARTIST, Michel Hazanavicius o anche: "w la zia di Francesco Piccolo"

Alla fine (secondo anno consecutivo, dopo King's speech - alla faccia dei luoghi comuni e del ridicolo vittimismo italiano), molti degli Oscar principali - eccezion fatta per quelli, meritatissimi, andati a Meryl Streep (Iron Lady, attrice protagonista), Woody Allen (Midnight in Paris, sceneggiatura originale) e Octavia Spencer (The Help, attrice non protagonista) - sono andati a The Artist, film tutto francese di (apparente) omaggio alla stagione hollywoodiana del muto. 
Se ne farà una ragione Francesco Piccolo, e sarà magari contenta sua zia, al pari di quella sinistra così reazionaria perché solidarizzante (?) con l'anacronistico eroe George Valentin (Jean Dujardin - bravissimo: avercene in Italia, gente così!), il quale - lettura del nostro scrittore - non si adatta e difende, incapace di andar incontro ed abbracciare il nuovo, una roccaforte fatta di privilegi & pubblico adorante, un'odiosa rendita di posizione. Che dovrebbe invece cessare in nome del progresso (in questo starebbe l'esser progressisti?).
Mi pare sia una lettura forzata e "bastiancontraristica", perché George Valentin non difende proprio niente (anzi soccombe al nuovo, ne è travolto nemmeno troppo suo malgrado - si potrebbe, al limite, volendo perder tempo, disquisire sulla immancabile vicinanza della sinistra ad eroi che fatalmente soccombono, allo star sempre dalla parte di chi perde, ma credo che non ne valga la pena, né ho avvertito crociate sinistrorse in difesa di The Artist!) né ha la spocchia o la prepotenza del Barone universitario che difende il suo angolo d'accademia, il suo particulare. Tantomeno è un fatto di simpatia verso qualcuno, e basti a dimostrarlo il fatto che il produttore Zimmer (John Goodman, fantastico anche lui, ma in questo caso si andava sul sicuro a scatola chiusa) non scateni chissà quali antipatie o reazioni allergiche in chi guarda. 
Il fatto è che The Artist narra una vicenda sorprendentemente fresca e divertente, che non vuol render giustizia ad un'epoca a scapito di un'altra, brutta e cattiva e senz'anima o quant'altro; né contiene chissà qual messaggio politico. Colpisce (e anche più del solito, vista la provenienza francese, sempre imbevuta d'autocompiacimenti e intellettualismi fini a se stessi) la leggerezza dei riferimenti, colti eppure popolari, "alti" eppur alla portata; citazioni ed ammiccamenti da e per cinefili, ma sciolti nel divertimento di una modernissima e divertente commedia - ancora una volta, a dimostrare che noia, magniloquenza, ieraticità non sono necessariamente sinonimo di cultura.
The Artist è un fiore di serra delicato e piacevole, costruito con una grazia fuori dal comune (a me ha fatto pensare - per ragioni opposte a Piccolo - al Pascoli poeta in latino); un film sincero e nient'affatto furbo, ingegnoso e commovente, che cattura ottimamente atmosfere e le ripropone miracolosamente aggiornate (mediate più che aggiornate, forse...) ai nostri giorni, tese sul filo di una vicenda garbatamente amorosa à la façon des vieux jours, e in cui un uomo lotta per la propria sopravvivenza, "spendendo tutto se stesso e tutto il suo patrimonio, in un mondo che è cambiato all'improvviso e in cui non avrebbe nessuna speranza" (cito, bontà sua, dal mio amicone Ferraù. Buonanima. No, cioè, insomma lui).
Magistrale la sequenza dell'incubo - si pensa nientemeno che a Charlie Chaplin - magistrali sia Dujardin che Berenice Bejo, col regista Haznavicious veramente Tre tizi in una barca-macchina del tempo, per tacer del cane.

febbraio 13, 2012

HUGO CABRET (Hugo), Martin Scorsese

Va' e scrivi di Hugo Cabret, dicono. Vai, sì, dinne qualcosa: undici candidature all'Oscar, sceneggiatura presa da un romanzo di tal Brian Selznick, discendente del fu magnate-produttore di Via Col Vento, regia di Martin Scorsese al suo primo film in 3D, omaggio al cinema, e piglia, incarta e porta a casa.
La miglior recensione del film sarebbe visivo-nichilista, e starebbe tutta nel comportamento di un branco di giovani mostri disturbati dalla tempesta ormonale che ho avuto la (s)fortuna d'aver nella fila davanti alla mia: due ore e dieci di puro casino sguaiatissimo e molesto, interrotto da circa venti minuti di attenzione silenziosa, mentre sullo schermo il padre nobile ma misconosciuto George Méliès (l'inglese Ben Kinsgley, già con Scorsese in Shutter Island) racconta la sua storia e scorrono i ricordi, variopinti e meravigliosi. Ecco: si fosse il film limitato a una qualche forma di documentario (e pure Scorsese ne ha fatti, e di notevoli, dall'omaggio al cinema neorealista al ciclo sul Blues, fino ad esempio a Shine a Light, sui Rolling Stones), magari anche un po' romanzato, ne saremmo usciti tutti meglio, e gli sgorbi magari sarebbero pure stati un po' più quieti. Così, come dar loro torto? Ognuno si esprime come può; resta certo che la storia insulsa e sfilacciata di questo bambino insopportabilmente dickensiano non funziona, e non si lega alla vicenda di Méliès. Né al cattivissimo Ispettore della stazione (Sacha Baron Cohen, non a caso senza nome come da tradizione favolistica - peccato ricordi più l'ispettore di Frankenstein Junior, quello con la mano di legno che un cattivo dickensiano), né a niente. E questa specie di bambino-mutante, discendente inconsapevole del Dolce Remì con gli occhi azzurrati dal fotoritocco, che continua a cercare il messaggio che gli dovrebbe aver lasciato il padre (?) morto in un incendio in un museo dove si trovava per cause non ben chiarite, visto che faceva l'orologiajo e aveva la sua bottega, lascia veramente il tempo che trova: poi ci si mette anche un bello zio ubriacone che prende il bambino rimasto orfano (vuoi non gli fosse morta anche la madre?) sotto la tua tutela, rinchiudendolo dentro gli appartamenti (appartamenti?) del backstage della stazione ferroviaria di Montparnasse, per dar la carica ai vari orologi (???). Il bambino reca seco un automa rotto che il padre aveva trovato nel museo di cui sopra, e accumula nel tempo altri mille meccanismi a dire il vero nient'affatto seducenti o interessanti a vedersi (meraviglia per gli occhi?). Forse a causa di questa passione si imbatte in un giocattolajo-chiccajo o quel che è, vale a dire il George Méliès caduto in disgrazia, il quale gli prende il taccuino dove il padre (il padre?) aveva disegnato i meccanismi dell'automa, nel tentativo di ripararlo. E quindi lo impiega nella bottega, dopo che gli ha fatto riparare un topo meccanico, perché gli dice che è un ladro e deve farsi perdonare i furti degli attrezzi. 
A questo punto già sta emergendo il cetriolo cinematografico del Ponte per Terabithia (ommioddio, il Ponte per Terabithia!), e lo spettatore comincia ad avvertire sinistre sensazioni sotto il seggiolino: non bastasse, poi, l'orrido infante dai calzoni ineluttabilmente corti comincia a frequentare la figlia adottiva dell'austero George Méliès, e lei - così, potevano andare a prendere una cioccolata calda, o a giocare sul prato, e invece! - lo porta da Saruman (Christopher Lee), il quale è finito a gestir la locale biblioteca, (locale nel senso che è dentro la stazione di Montparnasse - nelle stazioni anni '30, vuoi che non ci sia una biblioteca?) e, dopo che la prima volta lo ha guardato storto (pensandolo magari pronipote di Gandalf-il-Grigio?), poi regala, improvvisamente benigno, una copia di Robin Hood all'infausto protagonista, chiosando che era destinata sì al suo figlioccio, ma siccome tutti i libri hanno il loro giusto destinatario, Robin Hood è per lui (?), con tanti saluti al figlioccio che si ciuccerà magari i diti e leggerà magari l'Almanacco del Calcio 1931-32.
Nel frattempo, i due infanti hanno pure fatto funzionar l'automa (la bambina - sosia in piccolo di Amélie, essendo francese - ha ovviamente la chiave che il Mysero Orfanello cercava a più non posso) che è quindi partito in tromba a disegnare ed ha riprodotto un fotogramma de Il viaggio dell'uomo sulla luna, l'oggi celebre film di George Méliès.
Da lì, dopo altre inutilissime vicende, tra cui una filippica sullo scopo di tutte le cose, inflitta dal maschio alla femmina in cima alla torre dell'orologio della stazione mentre la daghereotipizzata Parigi vede le sue strade percorse a folli velocità (???) da strisce di luci di vetture stupidamente fuori tempo, il Dinamico Duo trasborda in un'altra biblioteca (ce li manda Saruman con un incantesimo, forse) e comincia a spulciare un libro sul cinema. Magia delle magie, alle loro spalle accapa l'autore del testo, un professore con la barba, ossessionato da George Méliès, che crede morto.
Il "Terabithia-mode" si palesa ormai (non è possibile... era di Scorsese... cazzo! M'avete fregato un'altra volta!) tragicamente nella sua interezza: tutto  si svela e rivela come già scritto poco sopra e, mentre il perfido Ispettore della stazione attacca bottone con la signorina dei fiori e lo zio di Harry Potter e la Gigantessa della battaglia contro Voldermort cominciano una relazione a base di Cani Pipy (lei porta il suo, lui ne compra uno), e un tizio che somiglia a Johnny Deep però più giovane (Johnny Deep è il produttore del film, tra l'altro - sia un caso?) suona la chitarra in un locale come fosse Django Reinhardt però più cool (ovviamente sempre dentro la stazione - ma treni ce ne parte?), George Méliès racconta la sua storia, in quello che è l'unico momento bello e appassionante del film (circa venti minuti): un magico omaggio al cinema, alle sue origini a metà fra magia e tecnologia, sogno e scienza - Méliès e i Fratelli Lumière, per dire; filmati di repertorio, altre cose mirabilmente rivisitate e immaginate. Peccato finisca tutto presto, e all'orrido Nànide Sciupato gli pigli lo schiribizzo di correre a prender l'automa per il catartizzato Georges Méliès, perché (già: perché?) l'aveva fatto lui. Nel tragitto però lo scopre l'ispettore che lo insegue e lo bracca, incurante del fatto che il Bambino Bionico© debba scoprire il messaggio che il padre gli ha lasciato.  
No, andrai in riformatorio, dove ti insegneranno a fare a meno di una famiglia, perché non ne hai bisogno di una famiglia, come me, gli sbraita l'Ufficiale Robotico, al che si suppone che Hugo Cabret possa anche ribattere: che fai, mi pigli per il culo? Qua ci manca il nonno di Heidi e poi..., però a quel punto giunge in stazione George Méliès, che chiude l'idillio accollandosi bambino e automa riparato.
Finale con la celebrazione del medesimo, per merito del critico, con un teatro improvvisamente pieno et adorante, ed una celebrazione-recupero del cinema inteso forse per la prima volta nella storia come forma d'arte (la vicenda di George Méliès è mediamente vera, e come detto è l'unica cosa che accende un irritante buio - allora, se omaggio doveva essere, meglio, incommensurabilmente meglio quello al muto di The Artist!).
Oscar scontato ed annunciato (e tutto sommato giusto) al consueto Dante Ferretti per la scenografia (bella); per il resto uno zuppone inconcludente che fa pensare, per elisioni incongruenze & fastidio, alla versione cinematografica de La Bussola D'oro. Anche la fotografia lavora un po' troppo, e se un ammiccamento ci può stare, metter come sotto gelatina tutto quanto fa un po' specie.
Di fatto, dopo Harry Potter assistiamo ancora una volta all'insensata e ineluttabile equivalenza film-con-bambini=film-per-bambini (ok: anche il trailer ci gioca un po', eh?). Molti infanti in sala, anche ieri, in trepidante attesa e speranza (poveracci). Mica loro: i genitori...

gennaio 10, 2012

J. EDGAR, Clint Eastwood

Che Dio o Chi-Per-Lui ci conservi a lungo il vecchio Clint! Lui e i suoi ritmi indiavolati, tant'é  che dal 2000 ha tirato fuori da cotanto cilindro dodici-film-dodici, tutti di un livello eccezionale nonostante l'assoluta eterogeneità dei temi trattati (si va dal thriller drammatico al biopic storico passando da documentario musicale e film di guerra, senza scordare la parabola sportiva, etc.) e per tutti o quasi firmando regia, musica e sceneggiatura. Capace sappia anche fare un'ottima creme-brulée, l'ex-sindaco di Carmel, California; e capace magari sappia anche convincerti delle sue ragioni di Repubblicano DOC, del tutto fuori (ahilui) dal tempo.
Dal 1988 (anno di Bird, splendido e partecipato ritratto di su Charlie Parker), in modo dapprima più diseguale poi via via sempre più puntuale, con un senso quasi di ineluttabilità, i film del "texano dagli occhi di ghiaccio" sono andati acquisendo la serena grandezza e la forza che nei libri hanno i Classici dell'Antichità - per dire: un dittico come Flags of our Father e Letters from Iwo Jima vale per me l'Iliade. E via discorrendo.
Per respiro; per capacità di visione a 360°, fuori da ogni schematica logica di bianco/nero; per equilibrio e al tempo stesso per passione bruciante e capacità di coinvolgimento dello spettatore; per analisi delle emozioni e dell'umano: per queste e un sacco di altre cose, fossi un critico di professione e non il fesso patentato (per dire: pure bocciato all'esame di guida) che sono, di fronte a un film di Clint Eastwood alzerei semplicemente le mani, le mani e la penna, e mi dedicherei a rimettere a posto i cassetti della scrivania.
Così faccio anche per J. Edgar, che unisce per la prima volta Eastwood a Di Caprio (solitamente attore-feticcio di Martin Scorsese) e imbastisce una trama basata (con una sceneggiatura scritta dal regista e Dustin Lance Black, che tra le altre cose aveva messo la sua firma sul bellissimo Milk, qualche anno fa) sulla figura umana del Grande Vecchio della politica interna made in USA. Un racconto in cui tra le altre cose son fantastici i costumi e le scenografia (rispettivamente: D. Hopper e J. Murakami), una impeccabile e strabiliante macchina del tempo, e un neo è forse il doppiaggio di Di Caprio, che la produzione italiana lascia discutibilmente al consueto doppiatore di sempre, il qual si sforza di parlare con voce da vecchio: non un gran risultato, in definitiva.
In ogni caso: non siamo forse sul livello d'assoluta perfezione del precedente Hereafter, né la scelta di fondo, tutta in direzione di un tono "crepuscolare" rispetto ad ogni magniloquenza o affresco storico - una scelta espressamente volta al raccontare le complessità dell'Hoover-Piccolo-Uomo impacciato, ossessionato dalla figura materna, fermo magari ad una "fase anale" di freudiana memoria, omosessuale non dichiarato prima di tutto a se stesso; una scelta cioè che di fatto relega ai margini l'uomo pubblico, il burattinaio capace di creare nel nome della Sicurezza Nazionale e dell'Ordine (ovviamente secondo lui: who watches the watchmen?) una grande macchina del ricatto e del controllo, sopravvivendo (creatore e propria opera) a ben otto presidenti - né simile impostazione, insomma, si diceva, poteva favorire di per sé lo sbocciare di un Grande Film, non quantomeno nel senso di ciò che con questo s'intende al solito: niente quadri storici eclatanti, e ad esempio ecco che l'assassinio di Kennedy resta concentrato in una laconica telefonata del protagonista all'allora procuratore generale e fratello dell'assassinato. Idem per Martin Luther King: tutto resta sempre tutto sullo sfondo, quasi un sommesso brusio. 
Eppure, quanta potenza nell'Hoover che guarda dal suo balcone la parata di insediamento del nuovo presidente!
Curzio Maltese ha scritto che il film esce sconfitto soprattutto dal confronto con il Citizen Kane (Quarto Potere) di Orson Welles, il quale a differenza di Clint Eastwood era riuscito nell'impresa di coniugare felicemente pubblico e privato, ponendo (ad entrambi conferendo pari importanza e impatto drammatico) sullo stesso piano narrativo la vicenda privata del cittadino Kane (Rosebud!) e la sua ascesa pubblico-sociale. Ma quella di Clint Eastwood è anzitutto una precisa scelta di stile nonché scoperta dichiarazione d'intenti - se vogliamo anche una riflessione su cosa c'è alle radici di un potere che necessariamente corrompe, se sia nato prima l'uovo o la gallina, se più colpe sian da cercarsi nella semenza o nel meccanismo - ed ogni confronto fra i due film, mi pare, si rivela più marginale che effettivo, ragion per cui rimango lo stesso bischero licenziato di cui sopra, e torno ai miei affari, pur dissentendo nientemeno che con Curzio Maltese di Repubblica, che ovviamente ha tutte le ragioni e ben più ampio background per sostenere le sue idee, e vince necessariamente lui.
A me, tuttavia, resta una scrivania in gran bell'ordine.

gennaio 02, 2012

LE IDI DI MARZO (The Idis of March), George Clooney

Quel che più colpisce, ne Le Idi di Marzo, è la bravura a 360° degli attori. Bella forza, si dirà: ad averci Paul Giamatti, Philip Seymour Hoffman e Marisa Tomei, il gioco è anche bell'e fatto, e poi puoi pure rischiare anche il semi-esordiente Ryan Gosling, che esce dal Mickey Mouse Club come Britney Spears e Justin Timberlake e poi, specie dal grottesco nordico Lars e una ragazza tutta sua (2007), prende - diciamo così - tutt'altra strada, rimanendo comunque fino ad oggi un po' fuori dal mainstream, col mediamente pretenzioso Drive a fargli da trampolino verso una notorietà più consistente sotto tutti i punti di vista. E si rivela bravissimo pure lui, e il cerchio quindi si chiude con - si pensi un po'! - l'attore nel caso anche regista George Clooney che rinuncia a fare il piacione per calarsi con dignità e misura somme, quasi ieratiche, nella parte di uno dei concorrenti al posto di candidato Democratico nella corsa alla Casa Bianca. 
Secondo sceneggiatura, che adatta una pièce teatrale di Beau Willimon (e la cosa si sente alquanto, come già accadeva per The Conspirator di Robert Redford, altro democratico DOC a strizzar l'occhio al palcoscenico pur dietro una macchina da presa), seguiamo l'itinerante carrozzone al seguito del candidato Mike Morris in Ohio, molto probabilmente ancora una volta decisiva ai fini delle primarie presidenziali. Particolarità del film è il muoversi fra i riferimenti storici concreti e reali, di tipo "globale" (medioriente, petrolio, leadership economica, etc), e l'abile svicolamento da ogni possibile riferimento più locale o cronachistico (nessun riferimento a personaggi della politica americana del presente), tanto che non è possibile situare storicamente il film: non si tratta delle prossime primarie, né di un romanzato adattamento delle precedenti.
In altre parole, siamo reali ma non troppo: un film (un Play, viste le sue origini) e non un documentario.
Questo è ottimo perché innanzitutto il film è un thriller politico - un thriller politico di quelli buoni, di quelli che ti tengono incollato alla poltrona - ed oggettiva il senso comune di cos'è la politica oggi come ieri, il suo status mai mutato (o mai mutato troppo) di sotterfugio e maneggio, intrigo e complotto, allenze che si stringono e rompono, giochi di forza e corruzione e meschinità varie; però il tentativo di agganciarsi-ma-non-troppo alla realtà fa anche sì che il ritratto del candidato democratico divenga qualcosa di un po' troppo "voluto" e "posato": perché se è vero che Clooney rifugge dai consueti ammiccamenti, lo fa in nome di un Ideale Democratico alto ma un po' troppo astratto e fuori dagli agganci al reale coi suoi ceppi e lacci, e il suo candidato dalla voce profonda e dalle movenze nobili-troppo nobili si risolve in un capitolato Democratic dell'America di oggi e dell'altro ieri, quello che appunto tizi come Paul Zara o Stephen Myers (P.S. Hoffman e R. Gosling, i consulenti strategici del presidente - e qui, a volerlo fare e andare quindi contro lo spirito del film, ogni confronto con noialtri diverrebbe quantomeno impietoso...) definirebbero un Think Tank democratico.
Un Think Tank che intraprende voli un po' troppo pindarici, appunto, se è vero che il candidato Mike Morris arriva a dichiarare ad esempio di non appartenere a nessuna confessione religiosa ma di voler fare in modo che tutte possano operare nel paese, con pari diritti (cosmico, fratello); di voler porre fine subito all'invasione dell'Iraq e all'eterno conflitto coi territori del medioriente, perché "non abbiamo bisogno del loro petrolio" e dell'inquinamento che da questo deriva, basta promuovere fonti di energia verde rinnovabile (sì, buonanotte), e che proprio attraverso queste e i conseguenti stanziamenti per la ricerca gli Stati Uniti d'America dovrebbero recuperare anche quella supremazia tecnologica che hanno perduto per competere con potenze dalle ben altre prospettive (vincerai anche le primarie, caro Mike Morris: è il day-after che mi lascia un po' perplesso...); che la sanità pubblica è un bene per e della comunità e dovrebbe quindi essere patrocinata e promossa dallo stato, ah no già, quello lo hanno detto davvero e si è visto quanto simpatico consenso si sono accattivati e quanto facile sia stato attuare il tutto.
Se l'intento del film era (anche) quello di mostrarci come si spegne il fuoco di un ideale, o - se vogliamo - quanto alte possano essere quelle stesse fiamme peccato si sia in una cucina scassata di due metri quadri (con una giovane stagista ammaliabile a dare la misura dell'umano e del quotidiano - peraltro eterne estremità entro cui si dibatte la politica), si può aggiungere anche questa tra le riuscite del film, oltre a quella attoriale e di qualità dell'intreccio e della suspence (ottime anche colonna sonora e soprattutto fotografia, dallo stesso Phedon Papamichael che per così dire al negativo aveva lavorato con Oliver Stone in W.)
Non annoto niente di più della trama, per non svelare o sciupare alcunché; resta certo il fatto che George Clooney, al suo quarto film come regista mette a punto qualche tono narrativo in più, tra l'impegnato di qualche anno fa (Good Night and Good Luck), un po' troppo ingessato e freddo, la pura piacevolezza della commedia intelligente (In amore niente regole), e l'intrigo sottile, al limite del grottesco di Confessioni di una mente pericolosa (2002), forse la sua riuscita migliore al di qua dallà cinepresa.