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febbraio 18, 2014

INSIDE LLEWYN DAVIS, Joel & Ethan Coen

Siamo nel 2000. Da un pezzo. Tra un po' si entra nella terza decade - o è la seconda? Faccio sempre un po' di confusione, con 'ste cose. Nel 2014, la prima decade è finita, no; e fin lì. La seconda è quella in cui siamo, quindi forse, insomma, sì... ma comunque sia, eh.
Comunque sia: per dire che se anche c'è una -Y, o una -W, o insomma una parola un po' desueta per l'italiano medio, s-i-p-u-ò-a-n-c-h-e-l-a-s-c-i-a-r-e, eccheccazzo. Dovrebbero esser finiti i tempi in cui c'era da mettere la -G eufonica nel nome Callahan, o la -L naturalizzante a Princess Leya o peggio (Boe per Moe, Lord Fenner per Darth Vader, etc), sol perché - già, perché, anche allora? Omaggio all'ignoranza dell'italiano medio? Autarchica salvaguardia dell'italico idioma?
Chissene. Volevo solo notare quanto poco senso abbia rinominare A proposito di Davis un titolo che in originale sarebbe Inside Llewyn Davis, dal titolo di un album dello stesso protagonista, nome gallese anche se su tutto quel che viene dal Galles avrebbe qualcosa da ridire Mr. Roland Turner, splendido John Goodman versione jazzman tossico, splendidamente sentenziante "à la Coen" (davvero: si recuperano in tutto e per tutto le vette di The Big Lebowski, in quella macchina!) con citazione da Bird di Clint Eastwood en passant, tanto per gradire ("nel jazz suoniamo tutte e dodici le note... non sol... sol sol do... sol do!" - che tanto ricorda il "che c'è di tanto straordinario a suonare sempre si bemolle?" di Forest Whitaker che prova incredulo il sassofono dell'astro nascente del "nuovo" rythm'n blues).
Il film è un puro gioiello, una O di Giotto, un cerchio perfetto che torna su se stesso senza che niente sia successo, in definitiva. E la fine è uguale all'inizio, non a caso; si viaggia ma forse non ci si muove davvero, cantami, o Musa dell'uomo che tanto vagò: e il bel gatto si chiama Ulisse - ancora una volta l'Odissea, come in quanti altri film del meraviglioso duo; si intraprende un viaggio, si intrecciano relazioni e si fanno esperienze, ma si torna invariabilmente al punto di partenza, e niente è cambiato, o se qualcosa lo è, è solo per una manifestazione del divino nella tua routine quotidiana, un'epifania che da te non dipende e che non puoi comandare: Dylan, la chitarra e l'armonica, e senti che il vento è cambiato e s'incrina qualcosa nel (tuo: piccolo, misero) cerchio.
Al di là della vicenda della musica folk, che può appassionare forse relativamente un pubblico diverso da quello statunitense o comunque anglofono, la vicenda di Llewyn Davis è un viaggio utopico e niente affatto formativo: utopico perché il protagonista vorrebbe salvaguardare (e salvaguardarsi, senza compromessi) una purezza & indipendenza artistica impossibile già nel 1961, nel contempo evitando le fauci del Mostro, il tritacarne pronto a ingoiarti, digerirti e risputarti ormai consunto e esaurito ingranaggio del sistema, nemmen più buono per andare al bagno da solo; non formativo perché l'Ulisse di turno sa che le prove che deve superare non le supererà, invariabilmente e inevitabilmente, ma farà solo presenza, con un contegno a metà fra il passivo e il dimesso, con lo stato d'animo di chi sa che un'alternativa non c'è, se non quella di sognare che la vita non sia semplicemente esistere: esistere per cacciare il branco di sardine.  
L'alternativa ci sarebbe eccome, e il sogno sarebbe realtà: mi bisognerebbe essere Bob Dylan. 
Così l'Odissea avrebbe avuto un senso e una (almeno temporanea - per il resto, poi, siamo sempre in viaggio: ne sarebbe presto iniziato un altro, destinazioni e sfide ignote, tra svolte elettriche e altre parole) fine: e l'alternativa sarebbe stata la perfezione e la purezza della propria Arte. Diversamente, il viaggio torna su se stesso, esattamente com'era iniziato, e il protagonista sa che non ne avrà niente, in nessun termine: e mentre avverte la presenza sul palco di tutto quello che ha cercato nella sua personale Odissea, e gira il collo avidamente (inutilmente) per assorbirlo, sta dirigendosi ancora sul retro del locale, per ricominciar daccapo e non arrivare a nulla: "Hang me, o Hang me - I'll be dead and gone... wouldn't mind the hangin...'" - la canzone è vecchia come tutte le canzoni folk, ma non smette d'avere senso.  
Liberamente ispirato alla vicenda di un cantante folk veramente esistito (Dave Van Ronk, omaggiato anche nel titolo, che riprende appunto quello di un suo album del '63 "Inside Dave Van Ronk"), il film ha una meravigliosa fotografia (il Greenwich Village doveva essere un posto maledettamente bello, nei primi anni '60!) e gronda il più puro spirito Coen, nero e surreale, stralunato e corrosivo, yiddish, tragicomico, irresistibile; con John Goodman, Frank Murray Abhram, la "tipica" famiglia ebraica (i Gorfein) e i consueti ed efficacissimi personaggi di contorno; l'ottimo protagonista (Oscar Isaac) e un fantastico gatto fulvo: ma che qualcosa che si può voler di più?

gennaio 31, 2014

AMERICAN HUSTLE - L'APPARENZA INGANNA, David O. Russel

Notevole prova del newyorkese David O. Russel, dopo l'ottimo The Fighter e il più strombazzato che effettivamente valido Silver Linings Playbook (o L'orlo argenteo delle nuvole, Oscar un po' a sproposito per Jennifer Lawrence - che lo avrebbe invece meritato per Winter's bone, film del 2010 da noi passato un po' sotto silenzio col titolo a metà fra il romantico e il crepuscolar-mieloso di Un Gelido Inverno - nonché scialbo ma edulcorato adattamento dell'omonimo romanzo, quello assai più efficace pur senza esser chissà cosa, di Matthew Quick).
Dalle dieci (anche se c'è chi riporta otto, ultimamente) nomination di cui ha fatto incetta, il film dovrebbe riportare un meritato Oscar per la miglior sceneggiatura: intricata e tesa, corale e ben condotta e sapientemente dosata, risultando efficacemente al di qua dell'orlo (assai poco argenteo, quello) della noia, a me ha ricordato quella - anche in quel caso premiata con giustissimo Oscar - dei Soliti Sospetti (il Bryan Singer pre-X-men: era il 1995), quantomeno nella qualità di scrittura e di intreccio.
Non si arriva al capolavoro, alla perfetta quadratura del cerchio, forse perché si lasciano ammirare di più le singole prove del cast che non il risultato globale, in una specie di gioco al rialzo che forse è il limite e al tempo stesso il pregio del film: nuovamente eccezionale (e siamo quantomeno a due: ricordate l'ex pugile sepolto nei fumi di crack di The Fighter?) la prova di Christian Bale, al pari di quella di Jennifer Lawrence; ma non sono da meno Jeremy Renner (fantastico Occhio di Falco Seventies style), Amy Adams e anche - sì, lo so: a me è sempre sembrato un patatone e poco più: ma qui va meglio, via, siam concilianti! - Bradley Cooper. Perfino Robert DeNiro ci fa vedere che in fondo in fondo lui c'è ancora, e sa ancora come farti venire i brividi con uno sguardo e un sopracciglio che si alza e due parole tra i silenzi. Se Oscar per qualcuno degli attori non sarà, è solo perché la campana per molti di loro è gia suonata: Bale, già premiato in sodalizio con Russel, cederà per forza di cose a  Matthew McConaughey (Dallas Buyers Club); Jennifer Lawrence è nella stessa situazione, e in più ha vinto l'anno scorso, come dicevo pure un po' a sproposito. Amy Adams, pur bravissima, è probabile debba cedere il passo a Meryl Streep (fantastica!) per August. Osage County, o anche a Judy Dench per Philomena. A volte è questione anche di "incastri".
Ma comunque sia: probabilmente, sul risultato finale pesa forse una monumentalità un po' troppo "voluta" (a partire dal gran battage pubblicitario che il film ha accompagnato fin da subito), quasi come se si volesse in tutti i modi, programmaticamente, entrare nella storia del cinema a prescindere, fin dal primo Ciak: ma la tensione che esce dalla vicenda, la sensualità sciroccata di Jennifer Lawrence e quella finto-hippy di Amy Adams, la resa del "color locale" degli anni (altro grande pregio del film è la ricostruzione, forse sì un po' cupa, ma quanto mai efficace e azzeccata nello spirito, degli anni '70, musica a costumi - con una scena, quella sì, che nella storia del cinema può entrare, sulle note di Delilah e Carmine Polito e Irving Rosenfeld che cantano sguaiati, bottiglie alla mano), la grande prova degli attori tutti, tirano su di un bel gradino quella che altrimenti sarebbe forse la solita vicenda del "giocarsi tutto alla ricerca di un posto nella vita che riscatti non importa come: basta che si tratti di un colpo grosso e risolutivo, miserie e fragilità" (così Paolo D'Agostini su Repubblica), vicenda assai tipica del cinema e della vita made in USA, in cui qualcosa a portata di mano c'è, lo senti e lo vedi e lo misuri, basta far due passi e respirare in suolo americano, a te il modo per raggiungerlo e scalare il muro, basta volersi prendere sul serio. 
Un cucchiaino di miele di troppo nel finale.

gennaio 21, 2014

THE COUNSELOR - IL PROCURATORE, Ridley Scott

CCCHHHIIIIIIIII?
Il procuratore? E chi cazzo è, nel film, un procuratore? Cosa diavolo c'entra "Il procuratore", nel titolo? Il tizio upper-class che decide di entrare nel giro della droga è un avvocato, non un procuratore. Porca miseria. Un avvocato patrocinante, per esser precisi, cioè un avvocato che sostiene la difesa in un giudizio - tra l'altro, nel film c'è pure una scena in cui l'avvocato in questione va a parlare con una sua assistita, assegnata d'ufficio. Più chiaro di così...
Counselor, poi, può significare anche Consigliere, Consulente, Patrono: cosa diamine c'entra Procuratore.
Chi le fa, 'ste cazzate? 
Ma ricominciamo.
Recensione: THE COUNSELOR, Ridley Scott
Primo Tempo
Era una notte buia e tempestosa. A un tratto echeggiò uno sparo! Una porta sbatté. La ragazza lanciò un grido.
Improvvisamente, apparve all’orizzonte una nave pirata. Mentre milioni di persone morivano di fame, il re viveva nel lusso. 
Intanto, in una piccola fattoria del Kansas, cresceva un ragazzo.

Fine primo tempo. 
(Nella seconda parte tutto ciò trova un legame). 

Secondo tempo.
Cadeva una neve leggera, e la fanciulla con lo scialle a brandelli non aveva venduto una violetta in tutto il giorno.
In quel preciso momento, un giovane interno all'ospedale civico stava facendo una importante scoperta.
La misteriosa paziente della stanza 213 si era finalmente svegliata. Emise un debole lamento.
Era possibile che si trattasse della sorella del ragazzo del Kansas che amava la fanciulla con lo scialle a brandelli che era la figlia della ragazza che era sfuggita ai pirati?
(cit.)

E invece no, che non era possibile neanche quello! No. Niente si tiene e poco si lega, e poi c'è Cameron Diaz che è veramente grottesca, e un tizio che fa l'ABOGADO in Messico che ci stiòcca un pippone assurdo sulla vita e su Machado, e c'ha uno studio che pare Amir Jafari.
E perché poi un avvocato (il Procuratore di 'sta cippa) che c'ha già un tenore di vita abbastanza alto e Penelope Cruz che gli dice che non potrà andare più con nessun altro, s'ha da andare a mettere nel giro della droga? (ok, si dirà: avidità - e grazie al pyffero, tutto qui???). Non le poteva comprare un anello un po' meno costoso, senza andarglielo a prendere ad Amsterdam da Bruno Ganz, doppiato ridicolmente da SandroCiotti redivivo?
E perché soprattutto Cormac McCarthy s'è prestato a questo gioco, tirando fuori una sceneggiatura tutta verbose & insopportabili sentenze e un po' di dialoghi/scene tristi aventi a tema la cara & vecchia PASSERA©, esibita o nominata insomma, ma del tutto gratuita e fuori luogo?
Alla fine è la solita vicenda corale & nerissima sulla droga, il solito grand'affresco-intreccio tragico in sommo grado in cui tutti son doppi, tutti son crudeli (ma grrrossa novità: Malkina-CameronDiaz è anche perversa, a differenza, tipo, di "cuore di mamma" ma feroce Selma Hayek de Le Belve, altro patinatissimo & truculento film assai di maniera sul genere a cui questo strizza l'occhio, però quell'altro l'aveva fatto Oliver Stone, quindi lasciamo perdere, pur se il libro da cui era tratto era di Don Winslow), e su tutto vigila il potentissimo e ieratico Cartello, che tutto vede e quel che vuole può.
Se lo fai bene ne esce un capolavoro, terrorizzante e "totale" (esempio: Traffic, Steven Soderbergh). Altrimenti, a voi The Counselor - Il procuratore (e questo nonostante il cast stellare, eh?).
Momento clou dell'opera: quando Ridley Scott e Cormac McCarthy si travestono da Joel e Ethan Coen, e Cameron Diaz si scopa la macchina di Javier Berdem, e quest'ultimo lo racconta tirando in ballo i pesci gatto - "una cosa così ti segna per la vita".
Bello invero anche Brad Pitt strangolato da una garrota meccanica portatile. Sempre in nome della FICA©, ché lui è furbissimo ma basta una bionda con la faccia triangolare e gli occhi da gatta che gli chiede se è canadese alla reception d'un albergo.
Finale con MagnetoGiovane che si dispera nella camera d'una bettola che ha affittato nel sempre invitantissimo Mexico, poiché un peone bambino gli recapita un DVD con l'ultima partita della Vigor Lamezia, ma lui per sbaglio lo tocca senza i guanti da Magneto, e irrimediabilmente lo smagnetizza.