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marzo 31, 2011

SILVIO FOREVER, R. Faenza-F. Macelloni

Andate a vedere Silvio Forever. Se ci riuscite, certo, giacché ad esempio la rai ha oscurato il promo del film (mancava il contraddittorio nelle dichiarazioni della defunta mamma Rosa, o non era rispettoso mostrare una defunta ma quand'era ancora viva in un film - non s'è mai capito troppo bene quali fossero i motivi) e non è detto che il medesimo riesca a durar granché, in sala. Andateci: non ci sarà niente di più di quel che non abbiate già visto, e purtroppo non sposterà d'una virgola la situazione attuale, che è un po' lo stesso dato di fatto che poteva valere per Videocracy prima e Draquila - L'Italia che trema poi. Però andateci lo stesso: perché il senso di disgusto che si avverte durante quel che si vede, alternato agli spasmi d'ilarità che si provano quando si riesce, magari solo per un attimo, a vivere la situazione sullo schermo come se fosse effettivamente solo sullo schermo, sono impagabili. In entrambi i sensi; in entrambe le direzioni. E mettiamoci pure il senso (non sarà molto, lo so: ma contentiamoci!) pseudo-consolatorio e un po' (lo ammetto: ma concediamoci anche qualche atto d'amore verso noi stessi!) auto-referenziale di non esser mai appartenuto al novero dei tanti – tanti? Io son tra quelli che di brogli ha sempre accusato l'accusatore, in nome d'una ben nota strategia d'un marketing spicciolo che più o meno recita: accusa il tuo avversario di quello che fai tu – che l'hanno in qualche modo fatto arrivare dove si trova, e che ci fa sentire come orgogliosi nel ripeterci “io sono diverso, io sono diverso, io sono diverso”.
Al di là di e più che tutto, forse, l'importanza di film come questi sta nel fatto che mantengono bassa – o contribuiscono a darle una salutare scossa – la soglia di assuefazione che chi comanda vorrebbe diffondere a macchia: vedere che siamo comandati da un tizio che dice di avere, già a quattro-cinque anni, salvato la vita alla sorella che era caduta in un mastello per i panni; che a sei andava a mungere le vacche e veniva pagato in natura e portava il secchio di latte in casa, per sollevar seppur di poco le ristrettezze da tempo di guerra del focolare; che a sette raccoglieva la carta per strada e la metteva a macerare nella vasca da bagno e rivendeva poi quel che ne risultava come carburante (qui – confesso – non m'han retto gli occhiali sul naso, e dal ridere mi son finiti sotto la poltrona del tizio davanti); che a scuola faceva i compiti ai compagni in cambio di soldi, salvo poi restituire le somme qualora questi ultimi non fossero arrivati al sei; che negli anni dell'Università (ovviamente la Cattolica) metteva a disposizione del prossimo, dopo ciascun esame superato, i propri mirabolanti riassunti, manco a dirlo notati ben presto dai piani alti di detta università, dalla quale conseguentemente affluiron tosto danari per coprire i diritti d'autore (?) del brillante laureando, col medesimo che ovviamente dava il tutto regolarmente in beneficenza – insomma, ascoltare tutto questo è, credo, quantomeno salutare ed istruttivo.
Se poi viene raccontato direttamente dal protagonista, insomma... che aggiungere? Già perché il docu-film di Faenza e Macelloni ha questa particolarità: nessun racconto su Berlusconi, fatti salvi qualche opinione o qualche aneddoto raccontati dai diretti interessati (Indro Montanelli, Marco Travaglio, Dario Fo, ma anche mamma Rosa, Mike Bongiorno, e via così), viene da fonti diverse rispetto alla sorgente primaria e più pura: la voce diretta dell'attuale presidente del consiglio, che racconta la sua vita e parla di sé in interviste, talk-show, comizi. E ricostruisce da solo la sua storia, Una Storia Italiana (sì: confesso che io li ho entrambi, e li custodisco geloso!);  quella di uno strepitoso personaggio della commedia dell'arte – per dirla con le parole con cui è stato presentato il film. Una storia che diacronicamente annovera gli inizi misteriosi nell'edilizia, il mausoleo privato e le vicende di governo; le comparsate da Vespa e il puttanajo da – si spererebbe: macché! – crepuscolo del sultanato di provincia che s'è aperto e continua ad aprirsi nonostante mamma Rosa avverta ad inizio film: "mai vedrete Silvio nelle foto con le donne". No, mai: e se ci sono, son tutte tizie di specchiata moralità. E l'SMS di Nicole Minetti a un'altra tizia di cui (mi si perdonerà) non ricordo il nome: “più troie siamo, più bene ci vorrà”, è solo un elaborato messaggio in codice per dire che il premier l'altra sera ha fatto beneficenza all'UNICEF.
E non si pensi – più di tanto: cioè, non nel senso in cui lo fu ad esempio Draquila, di Sabina Guzzanti – a un'operazione brutalmente militante: quello che viene fatto qui, con anche la collaborazione di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo (autori de La Casta) è semplicemente elencare, mostrare, incollare. Certo – alcuno potrebbe obiettare – si posson fare operazioni ben assai militanti con semplici opere di taglia e cuci, ma alla fine le parole contano, e le azioni pure; e di entrambe, almeno qui, per lo spazio di 85 minuti 85, è direttamente responsabile il medesimo. L'opposizione – quella propriamente detta, quella politica – non compare mai (e direi che non è un caso); i tanto vituperati magistrati di sinistra nemmeno: compaiono, nella parte di loro stessi, Zapatero ed Angela Merkel, con le loro facce tra l'incredulo e l'imbarazzato; compare il simpatico Gheddafi, a cui s'è pensato bene a suo tempo di baciar la mano; compare il buon Dell'Utri, quando dice che la mafia non esiste. Il resto è nient'altro che - appunto - una storia, una storia raccontata dal protagonista. Un'autobiografia non autorizzata.
E cercate di vederlo, se potete. Sarà pur meglio di Amici miei - Come tutto ebbe inzio o qualcosa del genere, no?
(Ok, da un punto di vista più strettamente cinematografico, si potrebbe notare come al cinema italiano sia rimasta quasi solo simile strada, la strada del documento e del film-verità, per fuggire alla asfitticità e miseria a cui lo inchiodano con precisione quantomeno preoccupante commediole scipite e banalmente di carattere, regionali e dozzinali, che vorrebbero replicare, vieppiù svilendolo, un modello che altra fortuna e altri interpreti ebbe in altre epoche, ma lasciamo stare, ché la cosa s'addice sì, ma mi pareva s'addicesser più due parole sul contenuto e se ci mettiamo a far gli schizzinosi anche sull'estetica e sulle questioni di stile si va ancor meno lontano
).

marzo 28, 2011

CLOCKERS, Spike Lee

Amo Spike Lee. Credo che a un primo livello, superficiale, “di pancia” o qualcosa del genere, sia proprio una cosa così: o adori i suoi film o non lo sopporti. Questo certamente perché i temi sono più o meno sempre gli stessi, tanto che probabilmente i detrattori potrebbero cercare di ascriverlo (come si fa inopinatamente di solito - mossi da non so bene qual intento catalogatore, dall'alto della nostra boria – quando si vuol rimpicciolire, rimettere al proprio posto, distribuendo patenti “da minore” rispetto a – che cosa, tra l'altro?) al cinema di genere: brutalmente, e per voler liquidare la cosa, potrebbero senz'altro sostenere che Spike Lee si macchia dell'orribile colpa di fare film di genere, quindi può certamente esser preso con sufficienza, con un sorriso di circostanza, lo stesso che di solito i medesimi riservano a chi scrive noir (orrore!), thriller (mioddio!!!) e via così. Come se la grandezza, l'arte, la bellezza, quel che diavolo vi pare e serve a far vivere meglio questi gran signori, dovessero senza tema di smentita trovarsi tutte nel cosiddetto mainstream, che è ovviamente puro, assoluto, e non si contamina certo con gli spuri e vituperabili generi, tantomeno con uno che sforna invariabilmente film sulla questione razziale. Questa la sua colpa, questo il suo genere. Che tanto poi la questione razziale è faccenduola di poco conto, roba da caratteristi...
ora, sicuramente il regista su questo aspetto gioca, e a volte pure pesantemente (oltre ai continui rimandi a Malcom X e Martin Luther King, anche chiamare la propria casa di produzione 40Acres & a Mule Filmworks, a perpetua memoria della promessa di risarcimento fatta agli schiavi africani alla fine dello schiavismo, vale a dire quaranta acri di terra e un mulo, è dato assai significativo) ma ovviamente poi, se riusciamo a metter da parte tutte le idiozie di cui sopra, saremo anche serenamente in grado di vedere che ad esempio un libro come In fondo alla palude è un capolavoro assoluto anche se (per dire) da noi è uscito in prima edizione nella collana dei Gialli Mondadori e non nei nobilissimi Meridiani; che Lehane o Leonard sanno ogni tanto (ogni tanto, per carità: e chi vorrà sostenere che l'intera produzione di – chessò – Capote o Hemingway sia meravigliosa a prescindere, nella sua interezza?) essere grandi scrittori. E mille e mille altre cose, tra cui non ultima che il regista di New York (in realtà è nato in Alabama, ma fa lo stesso – solo Woody Allen è newyorkese quanto lui) ha sfoderato quantomeno due film di assoluto livello, sotto tutti i punti di vista, e uno è senz'altro questo, il suo film numero otto, datato 1995. Chi ha familiarità con la sua filmografia saprà di certo qual è l'altro, che credo resti anche uno dei migliori film in assoluto per l'ultimo decennio – parlo ovviamente de La 25° ora (2002), che ha tutte le rotondità dell'Opera Matura, con le due rispettive lettere maiuscole e i singoli e ricorrenti temi trascesi e fusi nel capolavoro, quindi non stiamo tanto a perderci tempo.
Detto per inciso, altre suoi notevolissimi lavori sono He got game (del 1998, film con un paio di sequenze che varrebbero le famose scene del “triello” di Sergio Leone ne Il buono, il brutto e il cattivo: fanno scuola! – mi riferisco ad alcune scene di gioco e soprattutto all'ultimo pallone in aria mentre Denzel Washington va verso il muro della prigione) e Inside man (2006), ma appunto perché lo diciamo per inciso non importa stare a dir molto altro.
Clockers comincia come un documentario sulla vita di strada (i crudi titoli di testa - come sempre a valere qualcosa di più di quel che sembrano nella produzione del regista – cadaveri, gente che guarda, nastro giallo do not cross, sangue sul marciapiede); diviene un saggio sulla cultura afro-americana e sull'integrazione, e si chiude come una vicenda a metà fra la cronaca e il noir, con un manicheismo che come sempre succede nei film di Spike Lee pare esser l'unica fonte di aggregazione nonché l'unico punto focale della vicenda, e invece è l'esatto contrario, con i neri del ghetto visti tutt'altro che con aprioristica condiscendenza e coi bianchi che non necessariamente sono i bastardi oppressivi che detengono il potere e schiacciano i Fratelli – altro che film di genere, ma questo vallo a spiegare agli intellettualoidi!
C'è un'umanità e una partecipazione in questi personaggi (Strike – per me sarebbe stato da Oscar – suo fratello Viktor, il poliziotto André, la stessa coppia di detective Keitel-Turturro, o il magnifico Delroy Lindo, che ci spiega come il Male possa essere una gabbia in cui ti trovi quasi per caso, e il confine da varcare non è poi mai così lontano) che raramente vediamo in un film; e l'assenza di retorica o facili moralismi sarebbero una lezione che farebbe tanto comodo imparare a tanti, primi fra tutti due nomi eccellenti e ben più celebrati, quali Steven Spielberg o Oliver Stone.
Brooklyn è uno sfondo – in questo senso il regista ha fatto grossi passi in avanti rispetto a Fa' la cosa giusta (1989, sua prima opera a tutti gli effetti), in cui in uno scenario un po' caricaturale si muovevano figurine altrettanto eccessive, in uno schematismo di fondo quello sì un po' manicheo – che conquista suo malgrado, col suo squallore a metà e la sua decadenza assolata: e Strike sogna una fuga dai suoi blocks e al tempo stesso vi è intimamente legato (ideale dell'ostrica aggiornata ai nostri giorni), perché solo qui si fanno i soldi, e solo con la droga.
Sembra tutto così immutabile, così prestabilito che se non sei un duro non sei niente.
Spike Lee rende così bene la caratterizzazione, l'ambiente, l'agire umano con le sue varietà (dalla ferocia insensata all'amore protettivo della madre; dal senso di oppressione che l'uomo ottiene – quasi beffarda ricompensa – dal suo volersi integrare e piegare nel sistema allo spirito di emulazione che tragicamente perpetua ed amplifica pessimi modelli, quasi avessimo capacità innate di assorbire e ricreare più facilmente il peggio piuttosto che il suo opposto); tutto quanto è così reale che ti sembra di esser lì, in mezzo alla gente e muoversi con loro. E su tutto c'è anche un intreccio di prim'ordine, tratto da un romanzo di Richard Price; una musica e una fotografia che assolvono in modo del tutto virtuosistico ai propri compiti (rispettivamente di Terence Blanchard e Malik Sayeed, da sempre collaboratori del regista), e un'ultima, struggente sequenza di chiusura, anch'essa da scuola di regia: il bambino che gioca felice coi modellini dei treni, mentre Strike felice ed incredulo, su quel treno che finalmente ha preso, guarda l'orizzonte, e un cartellone pubblicitario recita "no more packing", promessa (forse non mantenibile, ma chissà!) di una nuova vita, nel tramonto.

marzo 27, 2011

PIRANHA 3D!


Il titolo , la locandina, i trailer mi avrebbero  fatto presupporre una boiata di film colossale.

Invece questo remake del film di Dante del 1978 è  più riuscito dell’originale e rappresenta un tributo ai film di Corman e alla sua filosofia cinematografica.
Di fatto ci sono tutti gli elementi del cinema cormaniano.
Dosi industriali di sesso, sangue, azione, perdere meno tempo possibile sulla caratterizzazione dei personaggi e il loro spessore psicologico e utilizzare ogni espediente splatter per catturare lo spettatore.
La  trama è decisamente infantile: un terremoto apre una faglia sul fondo del lago, da dove escono migliaia di piranha preistorici enormi, affamati e feroci.
I voraci pesciolini troveranno un supermercato di carne umana, visto che sul lago si sta celebrando una sorta di festival della tetta.
Le scene di sesso, mai volgare, ironiche e divertenti sono garantite da migliaia di ragazze seminude. Il numero di comparse, (belle ragazze in costume), fa rabbrividire  e impallidire le comparse di Ben Hur.
Inoltre, per dare pepe al tutto, sono state inserite nel cast anche due attrici porno Gianna Michael e Kelly Brock.
Le scene splatter invece di far inorridire riescono ad essere divertenti.
Il giudice del concorso miss tetta dura, per esempio, perde letteralmente la testa  mentre guarda le tette di due ragazze e non si accorge che sono state tagliate in due da un cavo di acciaio.
C’è anche il cameo di due grandi attori, Richard Dreyfuss vestito come l’oceanografo da lui interpretato ne Lo Squalo e Christopher Lloyd che interpreta una specie di fratello del suo Doc di Ritorno al Futuro.
Insomma, ci si diverte molto in questo film, soprattutto chi ama il genere.
Che cosa si può chiedere di più ad un horror volutamente di serie B se non di farci divertire?
Direi niente. 

marzo 09, 2011

BURLESQUE, Steve Antin

Avete voglia di vedere un lunghissimo video musicale con melismi aggressivi e assolutamente fini a se stessi, urlati (esattamente: urlati) senza senso né gran musicalità? Tizi particolarmente glamour e senza un pelo, sempre a torso nudo, vestiti alla guisa marziana, e che costantemente gesticolano in modo smaccatamente cool; o figlioline discinte che sculettano e urlano su canzoni senza nessuna piacevolezza o orecchiabilità sotto luci accecanti e ambiente rintronante?
Detta così è dura, eh? E si pensi che nemmeno il confezionamento a tavolino con tutte le arti (quali?) del marketing fa cambiare al prodotto la sua allure finale, quella che passa al pubblico. Sai già a cosa andrai incontro quando ti siedi sulla tua bella poltrona. Puoi solo sperare – non dico di divertirti godurioso come un porcello nel brago come in Mamma Mia! - che come per Chicago, almeno le canzoni siano belle e la storia godibile.
Ma è una speranza vana, e quindi ti sorbisci la solita "Success Story" trita e ancor più svilita del solito: una ragazzetta di provincia lascia la medesima sdilinquendosi d'eroici furori di gloria e giunge nella mecca d'ogni peccato e d'ogni occasione, Los Angeles (potrebbe anche essere Peccioli, vediamo solo un albergo all'inizio e una villa più o meno lussuosa che il barista bello coll'eye-liner ci gabella come suo appartamento – per il resto conta il buio del locale), finendo ben presto – a parte i soldi (anche rapinata - ragazza mia, ma ce l'hai proprio tutte, eh?), com'è d'uopo per farci apparir simpaticamente sfortunato il personaggio – in un locale non ben identificato - un locale dove si balla, dove si fan spogliarelli più o meno innocenti (appunto 'sto cazzo di burlesque che da qualche anno a questa parte ci vogliono a tutti i costi presentare – chissà perché – come divertente, o artistico, o interessante, vai un po' a capire); dove si canta, dove suonano dal vivo, dove servono da bere, dove c'è il DJ in consolle? Io sinceramente non l'ho capito - è un po' l'uno un po l'altro, forse (peraltro, essendo un locale gestito da un Organismo Geneticamente Modificato e Plastificato, etichettato chissà perché nei titoli di testa come “Cher”, non è che si possa pretendere chissà cosa); poi a un certo punto Christina Aguilera – il cui ingresso nel cinema poteva anche esserci risparmiato, mettiamola così – si mette in testa di fare un provino perché ovviamente nelle Success Story la trota di campagna ha sempre del talento che cova sotto la pelle, e prende in mano un microfono (che poi non avrà quando canterà davanti al pubblico – magia delle magie) e comincia a urlare su non si sa bene che base che un tizio da qualche parte in alto, appunto una consolle tipo la più maranza delle discoteche, gli mette. La fintamente burbera padrona del locale – ovviamente: locale in crisi, conti da pagare, debiti, tentativi di acquisizione da parte di avidi e subdoli immobiliaristi di plastica respinti in nome – ne resta affascinata (la sera dopo lo stesso tizio in consolle, a un'ora non ben precisata della notte, metterà un'altra base, stavolta qualcosa di soft - se cantasse qualcosa di movimentato probabilmente le partirebbe una vena sul collo - per lei, e ci dovremo sorbire pure la pletorica ballata notturna del cyborg) e per quel che le consentono le sue limitate capacità di movimento dovute ai troppi rendering chirugico-computeristici, la vorrebbe abbracciare ma non ce la fa.
Seguono (e, ahimè, precedono) svariati numeri musical-canori buttati là un po' a casaccio, arruffati, urlati, senza nessuna piacevolezza per l'ascolto, mentre sullo sfondo si svolgono i consueti drammoni del genere: l'amore (si capiva in realtà da prima che iniziasse il film) che sboccia incerto tra la protagonista dotata di talento e il barista bello coll'eye-liner che anche lui poi si scopre essere uno di provincia con un talento (si badi il caso: scrive – invero, pessime - canzoni. E per chi le scriverà, poi, indovinate un po'?), solo però che quest'ultimo ha prima da risolvere nobilmente il suo conflitto con la precedente ragazza, che si trova a New York a studiare recitazione (uno che lavori senza un talento ci sarà?); le marginali peripezie appiccicate con lo sputo delle altre ragazze di fila: quella messa incinta da Tizio, con relativo matrimonio riparatore e in grande stile; la starlette spodestata, meschina e viziata (pure bruttina, vedrai ha anche l'alitosi), col vizio del bere, che però alla fine torna all'ovile, redenta ma non troppo; verità profonde enunciate ed amori gay tra l'assistente checca isterica (Stanley Tucci - che attore sprecato!) e un tizio bello e muscoloso; il passaggio nel lato oscuro della protagonista la quale – manco a dirlo – nel primo periodo del suo nuovo successo si monta la testa e fa cose tipo vestirsi a cazzo con scarpe di vetro, darla al malvagio palazzinaro piacione, e via discorrendo, finché si redime, salva con un abile coup-de-théâtre il locale (in sostanza: il palazzinaro piacione vuol comprare il Burlesque Lounge della pixarizzata Cher per tirarci su il grattacielo più alto di Los Angeles; la nostra eroina mette a nudo le sue mire, apre gli occhi e trascina in fretta e furia la pantagruelica proprietaria dal tizio detentore finora di simile ammirabilissimo record, dicendogli: “coso, non vorrai mica che qualcun altro ce l'abbia più grosso di te, eh?”, e quello gli firma un contratto di acquisto del Burlesque Lounge, accollandosi tutti i debiti e promettendo di lasciarlo in gestione alla fissa e pinatissima Cher, la cui prima canzone, Welcome to Burlesque, non era male, e faceva davvero sperare in qualcosa di meglio).
Insomma, alla fine c'è solo da esser felici che tutto si sia risolto per il meglio e che (soprattutto) sia finito. Il tempo di visione effettivo è 115 minuti; quello percepito è pari a quello effettivo di America Oggi (per il quale varrebbe invece il discorso inverso).
La regia è un continuo clip musicale; la sceneggiatura è quel che è.
Si dirà: ma la parte trainante e quel che fa grande questo genere di film sono i pezzi cantati!
Ecco, appunto.

marzo 06, 2011

THE FIGHTER, David O. Russell

Aaah, un film di bocs! Adoro i film di bocs.
Anche se spesso grondano retorica, se raccontano la stessa identica storia del pugile venuto su dal nulla che sembra spacciato e che alla fine ce la fa; anche se ci squadernano netto davanti agli occhi il solito conflitto tra il buono e il cattivo, con (non solo) la vittoria del primo (ma anche!), e redenzione finale del secondo.
Perché – ormai solo sul grande schermo, dacché non si danno più notizie di uno sport sicuramente troppo brutale e pericoloso ma coi suoi innegabili e ancestrali fascini, almeno finché c'è stato qualcuno che lo praticava, prima cioè del circo-frullatore mediatico super-sponsorizzato a svilire invariabilmente e inevitabilmente, quale più quale meno (questo di sicuro in massimo grado), ogni tipo di sport – al cinema questi film riescono comunque sia ad esprimere una magia tutta particolare, spesso inserita in un quadro di fondo di miseria e crudo realismo, e il "romanzato grosso" dei combattimenti fa battere forte il cuore fino a farti sentir lì, col pugile, sorta di aggiornamento dell'epica all'età nostra moderna. Forse sarà una formula preconfezionata, e buona per suscitare emozioni squadrate e a buon mercato? Forse, ma non sempre è così. Io nel dubbio mi sono guardato avidamente molti film di bocs, ogni volta come godersi un buon pasto: lo pseudo-biografico Toro Scatenato di Scorsese, il caposaldo Rocky (da cui, nel presente, qualche inevitabile ma discreta citazione), che pure tanti danni ha fatto con suoi inutilissimi seguiti, lo stellare The Million Dollar Baby, che tanto ti colpisce in profondità da non poterlo riguardare fino in fondo - aaah, Clint Eastwood, c'è qualcosa che tu faccia male? - l'inevitabile Alì, che seppure di Micheal Mann si fa pur sempre guardare. Cinderella man no, ché è un film di Ricky Cunnigham-Ron Howard (quale dei due è quello vero?) coll'attualmente bolso Russel Crowe e a tutto ci sarà pure un limite, cazzo.
Ma tiriamo qui una riga.
Tutto quando dicevamo sopra (realtà degradata, miseria incipiente, fallito che si redime nel successo, rozzezza dei dintorni) c'è e non ci poteva non essere in un film del e di genere (valgono un po' gli stessi parametri di quando uno comincia a denunciare “i soliti luoghi comuni” che ci vengon propinati quando qualcuno discetta dei film sulla danza – fino a che punto si può parlare di luoghi comuni e fino a che punto di una fotografia innocente? Voglio dire, in fondo ogni mondo ha i suoi cliché!), ma c'è anche molto di più. Anzitutto, e non è poco, si evita il patetismo e la parabola a zuccheroso lieto fine, ché Micky Ward (Mark Whalberg, forse un po' troppo pompato e culturista nonché, almeno a mio parere, un po' troppo massiccio per un peso Welter's) – chiusa del film, con didascalia prima dei titoli di coda – arriverà a combattere con Alfonso Gatto e saranno tre massacri e cifre a nove zeri. Non gloria, non vittoria, non nobiltà del combattimento e del combattente: cifre a nove zeri. Questo, quel che voleva l'avida e concretissima e abbrutita famiglia di lui; questo quello che ottiene. Lui stesso e la ragazza Charlene (barista bella ma sciupata di provincia, puttana perché ha studiato, o almeno ha iniziato, agli occhi dello sciattissimo sciame di sorelle) non sono poi quegli angeli sensibili e caduti loro malgrado nel sobborgo d'inferno, e anche lei pur nella sua maggior grazia rispetto agli altri strepita volgarità e picchia duro; lui vuole arrivare, milioni di dollari, succube dell'atmosfera asfissiante della provincia più degradata e “familizzata” - solo, un po' meno degli altri che paiono veramente degli zotici al limite dell'umano e ti fanno augurare che – come Dogville – Lowell venga presto cancellata dalla carta geografica.
Insomma, la bocs c'entra fino a un certo punto: c'è una cittadina degradata e gretta oltre ogni immaginazione, una popolazione di povere anime mediamente limitate e chiuse su se stesse e le loro miserie, spacciate per secondi di orgogliosa gloria agli occhi del mondo (una gloria da mantener viva omaggiando la leggenda locale e tramandando oralmente, magari anche trasfigurandoli, quei ricordi); una famiglia-clan castrante e brutale, che sembra uscita dalla penna di un Bukowski più acido del solito o di un Orwell con la gastrite. C'è la matriarca, patetica cinquantenne che macina sigarette e rossetti, si cotona i capelli e si mette la minigonna da adolescente, dicendosi manager di bocs degli idolatrati figli – un ritratto che tocca, nella sua crudeltà e crudezza (mentre si gioca forse un po' troppo d'abbondanza e di gusto dell'orrido, con le sette trucissime sorelle), e vi basterebbe aver fatto qualche torneo di calcetto nella vostra cittadina per poter dire d'aver visto qualcosa di simile - poi, si sa, in America tutto è più grande!
E poi c'è Christian Bale, straordinario, magnifico; una prova d'attore degna dello Sean Penn di Milk, del Philip-Seymour Hoffman di Capote, del Pacino in Carlito's Way, o di chiunque vogliate: mai Oscar come miglior attore non protagonista fu più meritato (l'altro lo ha preso Melissa Leo, la mostruosa madre-manager-capoclan).
Sì, perché la parte della Leggenda Locale, seduta sul suo quarto d'ora di celebrità di andywharoliana memoria, in tuta larga da tossico, cieca alla sue quotidianità di miseria e disfatta ormai dal crack che consuma regolarmente in una sgangheratissima factory multietnica, è ricreata con una mimesi veramente strabiliante dall'attore: negli occhi, nelle movenze, nel fisico, in tutto.
A volte – come in questo caso – sono i dettagli che emozionano, in un film, e la perfezione si può dare nella vicenda, nella regia, nella fotografia, nelle sensazioni forti che il film ti fa provare, in una prova d'attore: qui, seppur il senso di “asfissia da famiglia-tribù” sia forte e rappresentato così realisticamente da indurti per simpatia (beninteso, nel senso di "processo simpatetico", non di corrispondenza d'amorosi sensi) uno stato d'ansia; seppure la gretta cittadina abbandonata arrivi a soppiantare la Philadelphia desolatamente industriale di Rocky; seppure i combattimenti e la vicenda totalizzante (non c'è redenzione al di fuori della boxe, nell'inferno della mediocrità di provincia) di Micky Ward sappiano dare emozioni grosse e ti ritrovi a guardare avido, attento a non perdere nemmeno un colpo quasi tu fossi un giudice di sedia; – anche ammesso tutto questo, il titolo e gli onori li calamita tutti lui, il meraviglioso co-protagonista, inconsapevolmente ritratto (lui e a madre nella loro autoreferenzialità cieca e senza ragionevolezze di sorta, pensano che si tratti di un film sul suo ritorno all'attività agonistica!) nel documentario che la HBO va su di lui facendo per documentare gli effetti di una vita persa nella droga, e la bellezza del film è forse tutta nella furiosa corsa dello scheletrico Dicky Eklund via dalla polizia che lo insegue; nella sua maglietta grigia sudata e catene al collo; nel suo incontrarsi pietoso col Campione la cui strada tempo addietro ebbe modo di sfiorare e sulla cui luce ancora vive ancorato, con quello che quasi non lo riconosce; nel suo modo di parlare che da solo basta più di mille concetti.
Emozionante: più, e al di là, della Boxe.

marzo 05, 2011

H. MURAKAMI, After Dark (Afutadaku)

Cosa succede after dark - dopo l'oscurità, dopo la notte, scandita dalle immagini di un orologio col quale si apre ogni capitolo e, man mano che ci avviciniamo alla fine, ogni paragrafo, a distanze sempre più ravvicinate? Perché il romanzo breve di Murakami - occhio profondamente orientale sì, ma assai influenzato dalla letteratura USA di secondo Novecento, di cui traduce i principali autori nel suo paese - è un romanzo di attesa e, casomai, di proiezione: dopo - after the dark - le vite dei protagonisti non saranno le stesse, il loro futuro sarà diverso grazie al tutto e al niente che accade in quella notte; grazie a quegli incontri, a quegli intrecci sfiorati e mai intrecciati del tutto, porzioni di umanità nella Grande Metropoli in cui ciascuno "è un tutto, e al tempo stesso un semplice pezzo [...] parte anonima di un corpo collettivo".
Va da sé che in tutto il calderone che cuoce al fuoco basso e soffuso della notte, ognuno ha la sua parte di incomunicabilità, difficoltà d'esistenza, reticenza nel relazionarsi, violenza (interiore, interiorizzata o anche espressa), e per lo più si nutre di ricordi - "combustibile per alimentare la vita [...]: è perché riesco a pescare nel cassetto tanti ricordi, uno dopo l'altro che posso continuare a modo mio a tirare avanti, anche se questa esistenza mi sembra un brutto sogno" - o resta impigliato in nodi emozionali di varia origine.
Il puro punto d'osservazione (un po' in sovrappiù e quasi fastidioso, forse, soprattutto nel parlar di sé) che conduce la trama ci porta, tutto in una notte - e la citazione landisiana si fermi giusto al titolo, perché qui tutto in una notte niente di movimentato accade - a seguire vicende molto diverse fra loro, che per caso si sfiorano, ed hanno come unico inizio ed unica fine l'arco temporale compreso fra mezzanotte e l'alba: ci sono Mari e Takahashi, Kaoru, una prostituta cinese coi relativi protettori; Eri, Korogi, Shirakawa; ciascuno con la propria porzione di vita e di non detto, ciascuno alle prese con le proprie difficoltà con l'altro da sé, difficoltà che si esprimono in modo ogni volta diverso: col lavoro estremo e qualche pericoloso e antisociale black-out di sfogo; con la fuga, col sonno letargico, con la chiusura in se stessi e la ricerca (forse) di una illusoria solitudine, con la musica.
During the dark, niente si risolve né si compie (nel senso di "accade compiutamente"); e per l'after chi lo sa, qualche seme si getta, qualche barlume si intravede, qualche emozione si rompe come una fiala e butta fuori, qualcosa resta identico e la vita prosegue (ancora una volta - mi ripeterò - la grande lezione di Carver,
Salinger, una lezione imparata e messa in pratica molto bene: qui, al di là di qualche momento onirico un po' più orientaleggiante, e in Tutti i figli di dio danzano): né tantomeno ci si può lamentare, se accettiamo di esser condotti a veder questo spettacolo da un puro punto d'osservazione, in grado di muoversi come vuole e dove vuole, fin dentro - senza nemmeno esserne del tutto consapevole, perché un punto d'osservazione sa solo osservare - la testa della ragazza addormentata contro tutto e contro tutti.
Niente di troppo memorabile, intendiamoci; ma, se accettiamo questo gioco, da quando inizia senza motivo a quando parimenti senza motivo si conclude, tutto quel che possiamo fare è metterci in un angolo anche noi, e guardare, magari beandosi di qualche epifania, di qualche bello scambio episodico, quasi a sottolinerare che forse le relazioni tra esseri umani funzionano solo all'improvviso e per pochi attimi nuovi, come per contatto e frizione fra due apparizioni momentanee? Sia proprio questo il meglio che ci è dato, nel grande affresco entro cui ci muoviamo?
L'importante, forse, è nutrirsi di piccolezze.

- Mette solo 33 giri? - chiede Mari all'uomo.
- Non mi piacciono i cd, - risponde lui.
- Perché?
- Luccicano troppo.
- Perché, è un corvo, lei? - interviene Kaoru.
- Però i vecchi dischi danno più lavoro, - dice Mari. - Bisogna prenderli, toglierli, cambiarli...
Il barista ride.
- Be', a quest'ora di notte! Tanto fino a domani mattina non ci sono treni. A cosa mi servirebbe fare le cose di corsa?
- Quest'uomo qui è un eccentrico, sai? - dice Kaoru.
- A notte fonda, il tempo scorre a modo suo, - fa il barista strofinando un fiammifero e accendendosi una sigaretta. - Andare controcorrente non serve a nulla.

marzo 04, 2011

T. WOLFF, Un vero bugiardo (This boy's life. A memoir)

Mossi da un volumetto edito da Einaudi Stile Libero un bel po' di tempo fa, a titolo Proprio quella notte, tascabile sbarazzino che ricalca, aggiornandoli cronologiamente di venti anni (quindi: rendendoli ancor più familiari ai lettori contemporanei, se mai ce ne possa esser bisogno data l'immediatezza e la quasi a-temporalità del genere), i modi e le tradizioni di Carver e delle Short Stories, può capitare - ok, non tanto facilmente, dato che sta uscendo di stampa - di imbattersi in questo Vero Bugiardo, e immaginare che non sia tanto consueto vedere un presunto o possibile minimalista, epigono di cotanto padre, alle prese con il romanzo di formazione, tanto più in forma di autobiografia, cruda o romanzata che sia. Quindi, si procede alla lettura, spinti da quella parte di Caso che sempre ci guida, non ultimo nella scelta delle letture, ci piaccia o no.
E difatti: programmaticamente privilegiando la riflessione e la contemplazione, più che la narrazione (di fatto si accalcano, sommariamente elencati – un po’ alla Irving? – più eventi e avvenimenti nell’ultima sezione, Così Sia, che in tutto il resto del libro), la scrittura di Tobias Wolff viene ad essere un mare piuttosto calmo e limpido, con qualche sporadica forma di vita che si agita sotto. Un mare in cui a volte, mettendo la testa sotto, si dà il caso di potersi imbattere in piccoli episodi non annunciati, che compaiono forse un po’ troppo dal nulla, senza ergersi o caratterizzarsi troppo; stanno lì, passano, come meduse, portate - ma è un difetto non troppo pronunciato o disturbante, considerando tutto. Ed è in definitiva la vita, si potrebbe aggiungere. Eccoci magari ai soliti discorsi, con quelle piccole cose, quella quotidianità, quella tradizione minimal e quella poesia della cucina & del tinello che fa stronfiare chi nutre grandi aspirazioni e respira in grande stile, ma che può essere assai più difficile (ed epica) dell'epica stessa. Non si dà invece gran traccia dell’ironia di cui si parla in quarta di copertina. Del filone “alla Carver”, Wolff ha indubbiamente alcune cose - e ovviamente Proprio quella notte è la prova più evidente, anche se ci sarebbe forse da chiedersi quanto il genere del racconto si presti di per sé quasi in automatico dopo Carver: quanto la forma influenzi il genere, una sorta di sineddoche stilistica, se non nutro (ed è anche probabile) errati ricordi di retorica - ma ha minore capacità di “scolpire” i personaggi. Con Carver, qualsiasi nullità od inezia balza forte davanti agli occhi, e anche quel che è di cartapesta pare marmo. Qui, alla fine, chi vi è rimasto dentro? Tutti e nessuno, nemmeno il protagonista, forse. Dwight? No. Gli amici? Niente di troppo memorabile. La madre, poi, sarebbe quello che le oggi tanto in voga Agenzie Letterarie - bontà loro - vi criticherebbero come un “personaggio non risolto”: un carattere e una impostazione all’inizio, un carattere e una impostazione alla fine, passando per troppe insicurezze e tentennamenti (intendiamoci: avrebbero pure alcune ragioni, nel caso - c'è un po' troppo vento, intorno a quel personaggio!). Ma ci sono le riflessioni, un po’ lucide, un po’ liriche, un po’ statiche e ossessive, di Jack-Toby. E l’ultima (giusta: le ultime due pagine di libro) è la perla finale, che innalza tutto, e rende un libro qualcosa di più di quel che era stato fino ad ora.
La domanda resta, ed è la stessa che qualcun altro (sul serio, non ricordo chi) si pose tempo addietro per Paul Auster e il suo Mr. Vertigo - ragion per cui, non son neanche di questa grande originalità (ne dubitavate?): dove va a parare un romanzo di formazione, quando chi lo conduce dà, in una vita, pieni ed esclusivi poteri al Caso ed alle piccole cose?
Non avendo Carver scritto qualcosa entro i confini del genere, rimaniamo col dubbio.
(Oh be', non solo quello, in fin dei conti: ma è la vita, fatta di piccole cose, di casi e grandi disegni. E di moltebdelusioni e qualche felicità. E appunto, tanti dubbi. E a tutti capita di dover mentire, prima o poi. Quindi, valore per l'unicità di una vita, o per la sua condivisione e comunanza?)