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dicembre 22, 2003

IN THE CUT, Jane Campion

È un film che pretende. Pretende di essere artistico, morboso, ossessionante, sensuale, pieno di suspence, eccetera. Ma riesce solo a vincere un abbonamento perenne alla fiera dei “Vorrei ma non posso”: girato male, malissimo, pretenzioso; con una fotografia decisamente fastidiosa, e una sceneggiatura imbarazzante per buchi, debolezze di logica e volgarità del tutto gratuite, lascia alla fine con questo interrogativo: ma perché Jane Campion non va a fare in culo? Perché cazzo ogni volta che una donna fa qualcosa nel campo della cosiddetta “arte”, lo deve fare erigendo se stessa a paradigma di una categoria, riassumendo in sé e parlando dei “problemi delle donne”? Perché c’è sempre implicita l’idea di esaltare, far fronte comune, contrapporsi all’ottuso mondo maschilista e maschio che non dà mai le stesse opportunità a LORO? Eh? Perché sempre questo complesso d’inferiorità che le spinge a non fare altro che parlare parlare e parlare di loro stesse, sempre magari con la stessa storiella scema, tumida di sensibilità distorta & isterica ma coraggiosa, di cui Ennio Flaiano (si torna sempre lì…) aveva tanto bene detto?
Se si dà il caso che un (prendiamo il cinema, già che si parla di questo) regista, uno sceneggiatore può assumere il cosiddetto “punto di vista femminile”, creando una storia, un personaggio, una situazione (ok, può farlo bene o male, ma questo è tutt’altro discorso); MAI – dico, mai! – si dà il caso contrario: una regista, una scrittrice, un’artista in genere purché donna, quando farà qualcosa adotterà sempre e soltanto il “punto di vista femminile”. E fin lì, badate, non ci sarebbe nemmeno nulla di male; sennonché il problema nasce per come quest’ultimo viene adottato, appunto, pesantemente gravato da tutte quelle cose di cui dicevo poco sopra: e allora saranno dolci e fragili eroine in cui la parte peggiore di ogni donna può riconoscersi, perché insomma chi non è mai stata sedotta abbandonata molestata non capita menata non ascoltata non circondata dalle necessarie attenzioni scossa oltraggiata presa in giro tiranneggiata da un uomo stupido e volgare che pensa solo ed esclusivamente a trovare “un paio di buchi e due tette in cui metterlo, anzi no di due tette si può fare anche a meno, così come – ovvio – di un cuore che batte” (è uno dei meravigliosi dialoghi del film, si noti).
Nel caso in questione, ecco gli ingredienti: un romanzo (e tutto considerato non ci tengo proprio, a leggerlo) molto probabilmente già assai mediocre di per sé, saccheggiato a cazzo, con la storia che non può non risentirne sul piano logico-narrativo (personaggi del tutto gratuiti, si veda ad esempio il pazzo-attore-dottore-cinefilo interpretato da Kevin Bacon, che in tutta sincerità non si capisce cosa accidenti ci stia a fare; oppure il negrone allievo (?) della protagonista il quale alla fine appare malmenato non si sa bene per quale motivo, né quando, dal poliziotto, e che tanto per tornare sempre lì vuole farsi la sua professoressa, con violenza – ma l’elenco di stonature potrebbe continuare), e su quello dei dialoghi (davvero, qui si affonda decisamente nel ridicolo: non tanto e non solo per tutta quella volgarità in grazia della quale magari si vorrebbe apparire duri e spietati, o far tanto metropoli violenta e torbida, riuscendo però di fatto solo a infastidire, a NON esser credibili, nemmeno per due secondi o per sbaglio; ma anche per la vera e propria logica dei discorso, per il buon vecchio senso compiuto: non di rado a un personaggio che dice A risponde uno che dice Y, e via così); una regia che definire involontariamente comica è poco (non sono sempre le inquadrature non convenzionali, sghembe, in movimento, sfocate, ancora in movimento, poi di nuovo storte, strane, e via così, a fare di qualcosa “un’opera d’arte”: si rischia sempre di cadere nel troppo “voluto” o nel fine a se stesso, nel pretenzioso e nell’ingombrante, come a voler scuotere lo spettatore e dirgli: “vedete come sono brava? Mica racconto le cose come tutti, io! Ammiratemi!” – in realtà dà solo noia: se volevo andare sul tagadà, andavo al luna park); una fotografia che segue perfettamente la regia (anche qui: Gesù, non basta scurire tutto per fare un noir, o comunque per creare un’atmosfera cupa. Nel caso specifico, alzi la mano chi non avrebbe pagato per aver a portata di mano un telecomando, così da pigiare su quel cazzo di tasto della luminosità per riuscire a vedere qualcosa! – si vada casomai a confrontare la cosa con Seven, che lo stesso scopo inseguiva, ma per il verso giusto e con esiti del tutto diversi, pur essendo anche questo per molti altri aspetti un film da adolescenti esaltati); e una serie di simboliche bandiere americane (che cazzo c’entrano? Cosa vorrebbe simboleggiare l’insistita inquadratura su di esse?). Su tutto ovviamente, il mondo al femminile: Meg Ryan fa la professoressa (ma di che? Di glottologia, visto che sta preparando un non ben precisato libro sullo slang negro? Di letteratura? E la qual cosa, si sente, dovrebbe avere un nesso, così come le citazioni che ‘sta scema trova sulla metropolitana tutti i giorni, ma comicamente poi non ce l’ha… non riescono a farcelo entrare, o forse nel romanzo c’era, ma il film mica poteva durare tre ore, abbiate pazienza eccheccazzo!), e OVVIAMENTE per compito a casa dà Virginia Woolf da studiare (la prossima volta, Jane Austen?), è orgogliosamente e coraggiosamente single e gli uomini, lei, li immagina, masturbandosi magari nel sonno. Poi, cede sessualmente a uno (il poliziotto ridicolo e maldestramente perverso – di cui vediamo nientemeno che uno scorcio di cappella – e probabilmente complice del suo inutile e sciapito collega – a proposito, perché fa tutte quelle porcherie alle donne? Un motivo? Così, perché è cattivo & perverso? – sebbene lei sappia una sega e torni da lui, facendo così finire il film), e immancabili, arrivano le confidenze sentimentali all’amica del cuore, che nella parte peggiore di ogni donna, devono essere davvero taaanto importanti.
Si badi, infine: niente pompini, assolutamente! È lo strumento principale con cui gli uomini maschilisti e detentori di tutto il potere di ogni campo opprimono ed umiliano tutte le donne: “oh, un po’ di attenzioni anche per noi, insomma”, deve aver detto Jane Campion... e allora giù, ricche descrizioni anatomiche di clitoridi e lubrificazioni vaginali (la ridicola ancorché gratuita mezza scena di masturbazione al telefono troncata a metà), leccate di fica (potevo dire fellatio e cunnilinguus, certo, ma perché non uniformarsi al film?), descritte didascalicamente e elargite come manna dal cielo, perché ovviamente ogni uomo pensa sempre e solo al proprio piacere, soprattutto in campo sessuale! (Cristo, MegRyan, ti ha solo leccato la fica! Fino ad ora mai nessuno l’aveva fatto? Ed è una cosa così insolita??? E chi accidenti vuoi che glielo abbia insegnato???)
Orribile e pretenzioso, inutilmente volgare. Spero smetta di far cinema, questa qui. Unica cosa bella: la dolcissima versione di Que serà serà, con cui si apre il film.

dicembre 01, 2003

DOGVILLE, Lars Von Trier

Chiariamoci subito, Dogville è un capolavoro. O quasi, insomma. Del resto, di queste cose non si può mai essere sicuri; come di tutte le altre, alla fin fine. Però ora non stiamo tanto a confonderci. Dicevo, Dogville è un capolavoro. Però in Dogville c’è il Bellandi. Il Bellandi sarebbe uno che conosco. L’attore (fedelissimo di Lars Von Trier, penso si chiami Paul Bettany, se non ho capito o ricordo male) principale, è chiaramente lui. Ora, ogni volta che era in un’inquadratura il Bellandi (e la cosa capitava assai spesso), non si poteva non ridere, è chiaro. Così, qualsiasi capolavoro si smorza, capite. E ragion per cui, quindi, potrei anche star qui a parlare di Dogville come di un film imperniato sul simbolismo (la cittadina che simboleggia in realtà il mondo intero; la piccola comunità che è specchio dell’intera e misera razza umana; i gangster e Grace – non a caso, Grace, la Grazia, che può essere accolta o meno… libero arbitrio, no? – che rappresentano la divinità che giunge dal cielo, a giudicare, a mettere alla prova l’Umano, che però è sempre Troppo Umano, ahahah mi si passi la citazione pseudo-stronz-colta), e sull’allegoria (in fin dei conti il film è una grandiosa parabola sulla meschinità dell’umanità, cui è offerta, invano ovviamente, una redenzione). Oppure potrei dire della realizzazione tecnica del tutto (tra teatro – certo teatro d’avanguardia, che adesso non ricordo ma forse era Artaud? Giuro che m’informerò – e letteratura, nello strutturare rispettivamente il mondo come una lavagna-palco, pieno di convenzioni sceniche, anche quelle fortemente simboliche, a partire dall’organizzazione dello spazio; e la svolgimento della vicenda, organizzata come un racconto in nove capitoli più un prologo per voce narrante). Infine, potrei considerare che spesso i film che si immergono nel simbolismo e nell’allegoria, rischiano di diventare presuntuosi, cerebrali, insopportabili insomma, specie poi se cercano altri artifici, prendendo a prestito da altre arti (senza contare fissità di luci e primitivismi di montaggio, per quel che riguarda in senso stretto quella cinematografica), aggiungendo subito però che non è questo il caso, che si rimane sempre (o quasi) ben al di qua della noia e del fastidio che certe operazioni (condotte male) possono dare.


Tutto questo, potrei dire, sì, certo, e sarebbe pure bello, perché secondo me è di un gran film che si sta parlando (ma Dancer in the dark è e resta una cagata, e così molto altro della produzione precedente). Ma – cazzo! – c’era il Bellandi, capite? Come faccio?

novembre 27, 2003

CANTANDO DIETRO I PARAVENTI, Ermanno Olmi

In Cantando dietro i paraventi c’è Bud Spencer. Punto. Già solo questo basterebbe per pagare il biglietto e andarselo a vedere. Se poi lui nei titoli di coda figura proprio come Bud Spencer (e non come Carlo Pedersoli, o quel che è), e dimostra che può ancora aprire gli occhi più della solita fessura… beh, signore e signori, è un evento da non perdere. Resteranno delusi però tutti quelli che si aspettano anche Trinità-Terence Hill. Mannaggia...
Il film, beh, il film è un tipico film di Ermanno Olmi: chi ha visto Il mestiere delle armi (e questo potrebbe essere l’ideale seguito), La leggenda del Santo bevitore e ovviamente L’albero degli zoccoli, sa di cosa si parla. Manca, secondo me (e siccome qui ci scrivo solo io, tutto è relativo e il secondo me è verità assoluta, presuntuosa e tersa; tie’ tie’ tie’), e del tutto, il RITMO. Un esempio: nell’Albero degli Zoccoli si raccontava la vita umile e raccolta, ciclica e misera, ecc ecc, di poveri contadini e braccianti di fine Ottocento. Ovviamente, la si raccontava con un tono perfettamente adeguato alla materia narrata. Insomma, era una naturale conseguenza. E fin lì niente da obiettare, se prendiamo il film singolo, in sé e per sé. Sennonché, questa cosa diventa maniera, alla lunga; un modo per travestire tutto quel che si fa da Opera d’Arte, di quelle con la O e la A maiuscola, seriose e solenni, che forse sembrerebbero anche assai noiose, ma visto che ispirano una rigida riverenza e un rigido rispetto, le si fa passare, quasi ammirati. È un’operazione piuttosto furba, in fin dei conti. Così succede nel Mestiere delle armi, in cui “ogni gesto sembra venire direttamente da Dio” (ok, la frase non è mia, ma le virgolette le ho messe no? Cazzo volete? L’ha detto Claudio Magris!), e in cui la ricostruzione minuziosa e maniacale del tempo passato fa da antidoto (anestetico?) alla noia che si sprigiona e che così si trasforma. Non si riesce ad attrarre un interesse, però si incute rispetto. Ma il solco resta: da una parte la Cultura, sempre quella con la C maiuscola; dall’altra la gente, che magari la prima rispetta e riverisce, ma vi gira alla larga, con rispetto dicendo che non “ne capisce” un cazzo.
Che succede invece in Cantando dietro i paraventi? Si narra una storiella, e come sempre quando l’occhio della cinepresa si sposta a Oriente abbiamo il solito zuppone di orientalismi: il teatro kabuki, quello No, l’Opera di Pechino, le geishe, la musica statica e stucchevole, la ritualità, i samurai, le dinastie, la tradizione dello spettacolo estremamente lungo, durante il quale la gente mangia, beve, conversa, guardandolo solo con la coda dell’occhio e con un’attenzione relativa, eccetera eccetera.
Per quanto, in questo caso, siano tutti filologicamente esatti (e ci mancherebbe: Olmi sta sempre sul limitare del pedante), zuppone restano. Siamo in Cina e uno studentello (alquanto antipatico e, a vederlo, dotato presumibilmente di una pienezza di sé e di una spocchia tale da far impallidire gli intellettualini che ai primi anni d’università si vestono solo di velluto, fumano i cigarillos e frequentano i circoli cinematografici alternativi), con un misterioso pacchetto regalo, corre per arrivare in tempo ad uno spettacolo, che però ha tutti i crismi del giapponesissimo teatro kabuki (misto di recitazione, balletto, voce narrante e pantomima; “cammino fiorito” – tipico ponte-palco del teatro in questione; lunghezza della pièce – che però è preceduta da altre pièces, e questo invece è tipico dell’Opera di Pechino; attenzione episodica e superficiale dell’uditorio, che si intrattiene amabilmente con delle zoccole-schiave, come da tradizione peraltro, ecc). Lo spettacolo narra una favola di pirati. Una piratessa, a dire il vero; una storia molto esile e semplice, complicata e ingarbugliata ogni tanto (o forse ero io che mi perdevo, pensando a altre cose – d’altra parte ve l’ho detto già, che sono un critico affidabile come la merda, e forse meno…) da qualche raggiro politico e managerial-commerciale di quei tempi. Il tutto col solito ritmo-zero, compensato appunto dalla possibilità che si resti in ammirazione rispettosa & pensosa di tutto ciò che sta intorno alla favola, perché siamo persone civili e educate, di fronte alla cultura. Di quelle che si vestono bene quando vanno in un museo, e con la cravatta addirittura se vanno a teatro. E via, e via.
In sintesi: nient’affatto delizioso, come si dice (è una tonalità che a Olmi penso proprio manchi del tutto). Però, nemmeno pretenzioso, insomma. Non il massimo. Ma c'è BUD SPENCER!!! Volete Mettere? 

ottobre 31, 2003

KILL BILL - VOLUME I, Quentin Tarantino

Kill Bill è veramente un film EPOCALE. Orribile, ridicolo, con una sceneggiatura che potrebbe esser stata scritta da un ragazzino, piena com’è di incongruenze, personaggi rigidamente divisi in buoni e cattivi, esagerazioni, e tutta una serie di cose così. Ma, con tutto ciò, è un film veramente epocale.
Ogni cosa è bella alla sua maniera, si potrebbe dire: immaginate di vedere, camminando per la campagna, un’enorme cacata di mucca, lì, ferma, del tutto presente, che può esprimere migliaia di significati solo con quel suo essere lì, magari con qualche mosca intorno. Ecco, che direte? Non so voi, ma io certo dirò: “ma che bella cacata!”. Quasi ammirato. E questo è il punto. Quella zotta è meravigliosa come cacata, perfetta, compiuta in sé e per sé, intangibile; e lo stesso vale per il film (il quarto film, come si premurano di avvertirci fin dai titoli di testa – a proposito, perché tradurre così qualsiasi cosa? Nel caso, appariva scritto: “The 4th Quentin Tarantino film”, e subito sotto: “Il quarto film di Quentin Tarantino”; poi, all’inizio vero e proprio del film, più tardi: “Pasadena, California”, e sotto “Pasadena, California”. Mah…) di Tarantino. Non ha nessun senso metterlo (e magari confrontarlo) in una ideale galleria di film. Non ha nessun senso contestarne qualche aspetto basandosi sui paradigmi di verosimiglianza, unità di tempo luogo e spazio, o altre stronzate. Non ha nessun senso, quasi, parlarne. Perché non c’è niente da dire. C’è solo da VEDERE. Se poi qualcuno vuole ripensare all’Opera di Pechino (Jing Ju), con tutti quei balletti estremi, faccia pure. Stesso discorso per i Samurai. O Kenshiro, i Manga; un sacco di altre cose di cui so troppo poco per parlare. Fate pure: tanto questo film sta lì, un enorme manifesto a cartoni animati, solido, coloratissimo, di grande impatto. Semplicistico? Ok, semplicistico. Ma un mattone (dico proprio fisicamente, Il mattone, senza nessuna metafora allusiva) lo è, semplicistico nella sua consistenza?
Tra le poche cose che si possono dire è che questo è il film che Tarantino VOLEVA fare. Da sempre. Ci rivediamo il bambinone che è in lui, quello che divorava telefilm, cartoni e film di serie z, da ragazzo, e che con tutto questo è cresciuto. La sceneggiatura, del resto potrebbe averla tranquillamente scritta un ragazzo del genere, cresciuto a pane e tv, col viso coperto di brufoli, e magari mago dei primi linguaggi basic e/o macchina: anche nel Volume II non mi aspetto di sapere perché un tempo ci fosse la squadra delle Vipere Assassine, che scopo avesse nel mondo, perché e soprattutto chi mai dovessero andare ad assassinare a giro. Perché proprio delle donne-perfette-macchine-da-guerra, con un capo-tiranno-gentiluomo stile Charlie’s Angel, e via così. Semplicemente c’erano, e questo ci basti. C’erano perché ci dovevano essere, c’erano perché sul “c’era una volta” nessuno si è mai sentito di dover dare spiegazioni di nessun genere (e ci mancherebbe!). Si parte da uno stato di cose su cui non ci può esser nulla da obiettare e poi ci si getta una manciata di pepe (ecco, magari sapremo qualcosa di più su quella maciata di pepe, sul perché, cioè, è successo quel che è successo, perché, insomma, pestano così la povera Black Mamba il giorno delle sue nozze) e si fanno succedere un sacco di cose, coi personaggi come figurine. Già, i personaggi: nemmeno su di loro (e i nomi, i nomi: Vernita Green, Black Mamba, le Vipere Assassine, Go-go… nomi che solo un sedicenne può inventare) c’è un minimo approfondimento caratteriale. Ed è perfetto così: puro intreccio, mettendo nel calderone sempre più ingredienti grezzi (del resto anche l’Orlando Innamorato prima e l’Orlando Furioso poi – ok, l’Orlando Furioso meno, non vi arrabbiate… meno! – potrebbero dirsi un guazzabuglio di storie intrecciate fra loro, senza andar troppo per il sottile, seppur di gusto, perfette ecc ecc).
Per smetterla qui: se leviamo Kill Bill Volume I da tutto questo contesto, vi diverrà la più grande cazzata possibile. Immane (resterà comunque la grandezza, si noti). Se ce lo lasciamo, invece, sarà IL CAPOLAVORO. C’è gente, penso, che può impazzire per questo film...
ah, ultima parola per la tanto declamata e deprecata violenza del film. Non esiste, letteralmente. Il sangue scorre a fiumi, saltano teste, arti, ecc ecc. Ma di qui a dire che faccia effetto… beh, ma andate in culo, via…
Certo, potreste dirmi: ma tu porteresti tuo figlio a vedere questo film? No, cazzo, certo che non ce lo porterei.
Non ho un figlio.

(ok, e poi il film è vietato ai minori di 14 anni, e poi in ogni modo non ce lo porterei: però IO non lo porterei a vedere quasi nulla di quel che danno, quindi il problema non può porsi solo di fronte a “il 4 film di Tarantino”)

ottobre 26, 2003

MYSTIC RIVER, Clint Eastwood

È passata da poco la metà del film; i due poliziotti entrano in un negozio di liquori, e interrogano il vecchio proprietario a proposito di una rapina che questi subì tempo addietro. Una pallottola bucò una bottiglia di Jack, sta raccontando lui, e rimase conficcata nello scaffale. “Un brutto spavento”, commenta il sergente. “Già, come davanti ad un bicchiere di latte” risponde il vecchietto, e sorride ammiccante. Cazzo. Mi giro verso quello che è accanto a me:
“cazzo, ma quello...”
anche lui l’ha riconosciuto:
“si… è Il Brutto…”
“ELI WALLACE!”
Che bello! Clint Eastwood fa un film, e in una particina appare come per magia Eli Wallace, Tuco, Il Brutto. Mi aspetto di vedere spuntare fuori da un momento all’altro – chessò, un passante, un agente della stradale, un cliente al negozio di liquori – Sentenza Lee Van Cleef, se non fosse che, a quel che ci ricordiamo è leggermente defunto. E Gian Maria Volonté?
“…E io… miagolavo… miagolavo  M I A G O L A V O…”
Quando ride, nonostante gli sia nevicato e tirato parecchio vento sui capelli, e c’abbia in più un pizzetto nelle stesse condizioni, per forza viene in mente di lui che addormenta i carcerieri ribelli, beffardo.
Ricordate Hulk, di questa estate? Dopo pochi minuti appare lui, Lou Ferrigno: nel fare un film sul Hulk, i produttori hanno voluto zepparci così, d’amblée, tanto per far contenti i cinefili con una citazione dotta (?), il protagonista della serie TV di tanti anni fa: e allora Lou Ferrigno fa la guardia di sorveglianza, enorme e bolso come sempre, e per farlo notare ancora di più (non poteva passare e basta?) fa un cenno da cavallo, con le dita a pistola, allo scienziato Bruce Banner (Eric Bana, ma in realtà era chiaramente Paolantoni coi capelli tinti, ahahahah).
Ok via, sarebbe questo tutto quello che ho da dire su Mystic River? Cazzo, certo che sì, è inutile dilungarsi: il film è bello, degno di un romanzo di James Ellroy, nel suo essere cupo, teso e senza (quasi, per la verità) punti deboli nella trama (al contrario, tanto per fare il primo esempio che mi passa per la testa, di Seven); degno di C’era una volta in America, nella rappresentazione e ricostruzione della parte scalcinata della città (qui) di Boston (lì, New York), e dei personaggi che la affollano (Sean Penn per l’occasione è diventato veramente enorme, e tatuato ovunque: ha la grandezza, non solo fisica a ‘sto punto, di un personaggio di Shakespeare – lui e tutta la sua corte di sgherri); degno infine della 25ma ora.
Cazzo c’entra? Non lo so; fatto sta che fin dall’inizio del film mi è venuto in mente, come per metterli a confronto, il bel film di Spike Lee, in cui furoreggia il mio idolo di sempre: Philip Seymour Hoffman (beh, che c’è? Lo è almeno da quando faceva la checca in Boogie Nights – è grandissimo!), ed in cui soprattutto, per la prima volta, il regista abbandona il solito film “ghetto-negro” arrabbiato e rancoroso per qualcosa di più maturo e sfumato (anche se, a ben vedere poi ci ricade: “e voi negri del cazzo che passate le giornate a giocare a pallacanestro, sempre a chiamarvi infrazione di passi, ecc ecc. Sveglia belli! La schiavitù è finita cento anni fa!”, o giù di lì, vado a memoria… alé! Questa la parte che tocca ai suoi FRATELLI nella lunga – e bella peraltro, almeno secondo me – invettiva che il protagonista fa, passando in rassegna con una rabbia molto spikelee tutte le razze che affollano NY: compatimento e male minore…)
Ma questi son problemi miei, dopotutto… si diceva di Mystic River, no? Fotografia splendida, con la scelta di rimanere su colori assai scuri (all’inizio danno quasi noia, e si vorrebbe avere per le mani un telecomando – contrasto, luminosità, ecc), una certa grandezza, e, certo, alcune lungaggini che forse potevano esser tagliate: prima fra tutte la gratuita (e che cazzo c’entrava? Fellini? Come la si giustifica?) parata conclusiva (chiaro, facendo rimanere ASSOLUTAMENTE la scena finale, in camera, fra Sean Penn e la moglie, che è qualcosa che da sola basterebbe a rialzare qualsiasi film – come non lo so… ma che cazzo, il regista sono io?), ma tutto sommato, e in attesa di “Piano Blues”, beh… questo è tutt’altro che un pessimo assaggio! Perché, già… Clint Eastwood, oltre ad essere il Texano dagli occhi di ghiaccio, il senatore, politico in generale, ecc, è anche un musicista (tra l’altro, qui, firma la colonna sonora), e col prossimo (spero esca presto: forse, fratelli Coen a parte, è il film che aspetto di più, ultimamente) film renderà omaggio alla musica con cui è cresciuto. Ricordando magari Bird. No, tanto per dire...
Visto? non mi sono dilungato mica tanto...

ottobre 23, 2003

PRIMA TI SPOSO POI TI ROVINO (Intolerable Cruelty), Joel & Ethan Coen

Ma cosa cazzo scrive la sig.ra Irene Bignardi (parente di Daria? Ah caste, caste…) sul Venerdì di Repubblica? Fa un articolo di 3 colonne – dico, 3 colonne – per raccontarci qualcosa sul nuovo film dei fratelli Coen, e si arriva alla fine e del nuovo film dei fratelli Coen non si sa un cazzo! Ci parla di George Clooney, e ci dice qualcosa come “il bel George Clooney, che tanto giuggiolone non è, nonostante sia così bono…” (brrr… femminilità distorta e zeppata bene nella scrittura – ma perché non se ne liberano mai o quasi, quando scrivono?); comincia a descrivere i fratelli Coen, e tutto ciò che sa dircene è che loro “sono attraenti in maniera diversa. [… ] Tutti e due belli alla loro maniera strana” (o mio dio, ancora! – O forse stavolta siamo sconfinati nella frenologia?); ci racconta la storia del copione del film (interessantissimo!) per poi finire a parlare del loro prossimo lavoro, che avrà come protagonista nientemeno che Tom Hanks. Alla fine restano solo poche righe, peraltro confuse ma inutili (ci mette dentro il “contorno di cagnetti, Simon & Garfunkel, istruzioni su come vivere senza intestini, macchinette antiasma”!), dedicate a quel che ci si aspetterebbe. Certo, non siamo ai livelli di Eyes Wide Shut, presentato dalle nostre stampa e TV come un “porno d’autore” (non si sa nemmeno bene perché, poi; e al limite tutto quello che può venir da pensare, stavolta come allora, è: ma almeno, il film, l’avete visto?), ma comunque, è divertente lo stesso.
Forse, sarebbe bastato dire che Intolerable Cruelty è la prova che la commedia NON deve essere per forza stupida; che gli equivoci su cui PUÒ (e non è detto che lo sia) essere giocata NON debbano essere per forza stupidi, che l’insieme delle cose, dialoghi attori colpi di scena compresi, NON abbiano da essere sempre scontati e STUPIDI.
E poi, e poi… che altro? Siamo secondo me un po’ al di sotto dello standard, e Il film è “puro Coen” solo a tratti. Spesso non ci riesce: ad esempio, in alcuni personaggi (l’investigatore di colore che “incastra alla grande” i malcapitati, per il quale si ha l’impressione proprio di qualcosa di non riuscito, di qualcosa che non raggiunge il paradossale pazzesco ); nel – per quanto sia ridicolo dirlo così – finale (un lieto fine, coi due che si amano beati, non è quanto ci sia da aspettarsi dai fratelli Coen: si veda la fine di Arizona Junior, al proposito – in questo caso, chessò… un salto temporale di un anno, e poi rivedere i due protagonisti in un’aula di tribunale, per un divorzio da comuni mortali, per effettive e vere e sentite incomprensioni di coppia sarebbe stato il beffardo che ci manca!); in certi momenti del dialogo (che a volte dà l’impressione di un certo stagnare, riuscendo solo a tratti ritrovare la brillantezza assurda del Grande Lebowsky o Fratello dove sei?).
“Puro Coen”, invece – e ci si ride, come in altre occasioni – per il pastore scozzese che sposa i due a Las Vegas (con tanto di Simon & Garfunkel alla cornamusa), per il prete suonatore di chitarra, per lo splendido Billy Bob Thornton che “ama A BESTIA” la sua bella, per l’associato dell’avvocato Miles-Clooney che frigna al solo sentir odore di matrimoni (ed è un avvocato divorzista).
C’è poco da dire, in fondo: abituati ad una curiosa alternanza serio/comico (ovviamente sempre in uno stile tutto particolare, che non si può, penso, non definire “stile Coen” – questo per notare anche come i due siano sempre perfetti in ogni genere che toccano, dal noir, al picaresco, all’affresco sociale: nell’ordine, Arizona Junior, Miller’s Crossing, Barton Fink, Mister Hula Hoop, Fargo, Il grande Lebowski – loro capolavoro, secondo me, perfetto punto d’incontro tra il serio e il comico, in 100% “Stile Coen” – Fratello Dove sei, e L’uomo che non c’era – il tutto senza dimenticare i racconti del solo Ethan Coen, raccolti, almeno per l’Italia, sotto il titolo de I cancelli dell’Eden, e il cui primo sembra soltanto chiedere una trasposizione cinematografica!), giusto seguito del cupo e splendido Uomo che non c’era è questa commediola divertente e tutto sommato tesa, la cui pecca maggiore (ancora una volta, secondo me!), è allentare un po’ troppo la morsa di cinismo & paradosso nel finale.
Il tutto, con tanti saluti alla sig.ra Bignardi.
Per la cronaca, sempre sullo stesso numero del Venerdì, c’è pure un delirante pezzo di Enrico Ghezzi sul nuovo film di Quentin Tarantino, un articolo pienissimo di nomi, citazioni, riferimenti “alti”, termini difficili, ecc ecc, come ogni buon intellettuale deve fare, d’altra parte, anche per far sì che il solco tra lui e il resto del mondo indegno & stupido & vuoto sia sempre più profondo.
Ma chi gli dà IL DIRITTO di parlare così, a quello? Lui è il suo “spostamento bunueliano estremo”?
Ma cosa sta dicendo? Ma come cazzo parla? (Schiaffo) Le parole sono importanti! (ci si ricorderà, spero...)

ottobre 18, 2003

ELEPHANT, Gus Van Sant

Piccola premessa veloce: dunque, la visione del film ce l’ha sciupata il cassiere del multisala dove siamo andati a vederlo (che ora non nomino – il multisala non il cassiere, abbiate pazienza mi incasino sempre con l’intreccio dei complementi – per non far pubblicità, o anzi sì lo nomino tanto che me frega, era il Vis Pathé, di Campi Bisenzio per chi non lo sapesse), dal momento che ha pensato bene di incoraggiare i nostri dubbi dicendoci qualcosa tipo: “ehi, andate a vedere Elephant. Tutti quelli che l’hanno visto mi hanno detto che è BBBBEEEEEELLO!”. Al che abbiamo provato a rispondere, imbarazzati: “ok, ma noi volevamo un’altra stronzatona, tipo Terminatortre, hai presente…”; “stronzata? Io sono qui che aspetto a gloria il 4, e voi mi dite che è una stronzata?”. Ok, comunque sia poi erano pronti i nostri biglietti, e abbiamo chiuso lì la conversazione. Che andasse per Elephant, COME ON!
E allora, in ordine sparso: Scoprendo Forrester; Cowgirl, Il nuovo Sesso; Will Hunting – Genio Ribelle (e sospendiamo il giudizio su Psycho, che tutto sommato può anche andare, forse). È solo l’elenco dei film firmati dal nostro Gastone, fin qui. E basterebbe quello. Ma invece, poiché siamo buoni, si continua. In fondo, Elephant è una cosa diversa; tutto sommato non così BBBBBBEEEEELLO come si potrebbe pensare, ma ovviamente altro rispetto ai precedenti.
Positività del film: dura poco, e poi puoi divertirti a guardare le facce stranite degli altri spettatori. Cercando di evitare quelli che vanno lì perché loro sono intellettualoni, loro di qua loro di là, insomma. Li riconosci perché vestono alternativo. E discutono, discutono, discutono. Negatività: spesso si parla troppo “intellettualese”. Sennò non ci andrebbero i suddetti, è anche chiaro. E la pesantezza del film-documento si fa sentire, anche se non ai livelli di quelli mediorientali o italiani o indiani.
Ma soprattutto: il film comincia, e la telecamera inquadra il cielo, fissa, ferma, immobile. Un palo della luce, qualche nuvola, la musica di Beethoven sotto (Chiaro di luna, primo movimento – famossissimo, si vuol fare tanto gli intelligentoni e poi c’è un pezzo così… così… abusato? Ok, il suo effetto lo fa sempre, però perché no allora i Trois Gymnopedies di Erik Satie? O altro?). La cosa si ripete altre due volte nel corso del film. Più o meno a metà, e alla fine, così tanto per gradire. È lecito (più che lecito, insomma) chiedersi: “ma che cazzo vuoi, GusVanSant? Si ok, tussei proprio bravino… aaah ma quanto sono ammirato; questa sì che è arte! Ma te l’ha suggerito Diane Keaton? No, visto che produce…
Drammatizzazione di un evento accaduto realmente, come tutti sanno, Elephant è interessante nella realizzazione tecnica: la telecamera ferma sul campo di gioco, con gli studenti che entrano ed escono dal campo visivo giocando a football, o correndo; la ragazza bruttina che rientrando negli spogliatoi sente le voci maligne delle compagne che la prendono in giro; i lunghi piani-sequenza che seguono gli allievi per i corridoi (anche se in questo caso si può dire che il troppo stroppia, caro il mio Gus Van Sant); il tempo che torna indietro, seguendo ogni volta la giornata di uno dei protagonisti (idem come sopra, però, alla lunga).
Quantomeno, è un modo molto originale di raccontare una storia. Quasi affascinante, se si evitano certi eccessi, il cui esempio lampante è certo il cielo inquadrato fisso senza una ragione ben precisa, gratuito. Altra cosa è che forse si manca un po’ in coerenza: i personaggi ci vengono presentati in sequenza, introdotti sempre dal nome del ragazzo in questione. Come fossero una serie di brevi episodi. La macchina da presa, ovviamente, li segue ogni volta, incrociandoli con gli altri quando le strade dei singoli personaggi si incontrano. Niente ci viene risparmiato, insomma: per quattro volte, ad esempio, da quattro punti di vista diversi assistiamo all’incontro del fotografo e del biondino (a proposito… ma perché lui non viene fatto fuori? Proprio LUI??? Cazzo, ci saremmo risparmiati un futuro membro di boy-band, quello biondino e tenero, target per le teenager diligenti a scuola!) nel corridoio, a seconda che la scena sia vissuta dall’uno, dall’altro, dalla ragazza bruttina e ancora. Tutto questo può essere bello, ma come dicevo, pare mancare un po’ di organicità: perché, così per dirne una, viene presentata con tanto di titolo e storia seguita passo passo, la ragazza bruttina e presa in giro, e non le tre amiche? Perché il fotografo sì, e la coppietta di ragazzi no? Eppure, i primi non hanno affatto qualcosa in più rispetto ai secondi, nessuna funzione particolare. Se ne presenta solo qualcuno, a caso. Ed è chiaro quindi che il gioco perde di significato. Che i due assassini non siano presentati per ultimi, come gran finale pirotecnico, si può anche accettare: magari si vuol far notare come questi siano “due fra mille”, classici adolescenti che non escono dalla media, al di sopra di ogni preventivo sospetto e così via, ma perché tutto il resto? O si presentano tutte le figure principali, o nessuna. Sarebbe venuto un film troppo lungo?
Un po’ semplicistico inoltre il fatto che i due siano degli sfigati ed inetti Nerds, presi selvaggiamente per il culo da un po’ tutta la classe e istituto, capaci poi di trasformarsi in due perfetti Commandos e di concepire un piano diabolico come quello. E che infine (particolare immancabile!) si riducano a far finocchierie nella doccia perché le ragazze vuoi mica che li considerino, due coglioni così? “Io non ho ancora baciato nessuno…”, e giù verga.
Bello (e purtroppo realistico – e giusto tutto sommato che non ci sia nessuna critica, perché l’occhio della telecamera qui ha da riprendere e basta, non da giudicare) il chiacchiericcio tra le tre amiche alla mensa (anche se pare evidente lo “strappo” temporale, tra il momento in cui si siedono al tavolo e quello in cui si alzano: sono passati solo un paio di minuti!), concluso da una capatina in bagno a vomitare, da brave adolescenti anoressiche. E soprattutto, perfetta l'esecuzione dilettantistica di Per Elisa prima e del Chiaro di luna poi, del Rambo #1, tutta giocata non sulle stecche, ma su tanto pedale, sulla mano sinistra pesante, su rallentamenti dovuti alla difficoltà, sulla mancanza di mezzi-toni, ecc. Perfetto, lì, come doveva essere: esattamente come l'avrebbe suonata un dilettante scarso. Un particolare degno di Kubrick.
Ma la figura finale, quella che beh si insomma ci voleva se ne sentiva proprio il bisogno, è il ragazzo di colore che passa qua e là, vestito da stella del basket NBA. Questo (possibile, ma probabilissimo) Allen Iverson dei poveri, non dice mai nulla; appare come un messia per i corridoi rimbombanti di esplosioni e di panico studentesco e cammina piano, guardandosi intorno silenzioso, come in trance. Aiuta, da buon santone, una ragazza a fuggire dalla finestra, prendendola dolcemente per mano, e poi che fa? Non esce anche lui – sa una sega cosa succede, il cretino – ma continua a camminare assente per i corridoi, finché si imbatte nel Rambo #2, il quale sta gambizzando il preside. Cerca di fare finta di nulla, ma l’altro lo vede e gli spara. Il commento che gli riserva poi è: “che stronzo!”. Ha ragione anche lui, insomma… (a proposito, la lezione di gruppo che si teneva nell’aula lì vicino era qualcosa del tipo “Come si riconosce un frocio rispetto alla media? Dalla camminata?” – logico che i due John Rambo, lì, si siano incazzati!)
Ok, ma tutto sommato è un film che si può anche vedere, in fondo dura 80 minuti e, ripeto, il montaggio, la fotografia, l’atmosfera, non sono male. Ma togliamo quel cazzo di inquadratura sul cielo, perdio! Spocchia, spocchia, spocchia…

ottobre 16, 2003

Italy, I love cinema... (due cose piuttosto distanti)

E ora… una approfondita e serena disamina del (sul) cinema italiano. Che è bello bello bello. Sia chiaro fin d’ora che questo non è un contraddittorio o un dibattito; in altre parole, insomma, a me non me ne frega un cazzo delle Vs. opinioni, modi di vedere le cose, ecc. ecc. Se volete esprimere i Vs. interessantissimi e dottissimi pareri sull’argomento, prego infestate altri posti. D’altra parte, sono affari miei?
Dunque, torniamo a noi: il cinema italiano fa cacare. Ma assolutamente, dalla A alla Z. Via, siamo buoni, dalla A alla U. Certo, non da sempre, ci mancherebbe altro, però da molti anni a questa parte è indubbio. Ecco di seguito i temi solitamente trattati dal nostro meraviglioso cinema:

1) Film basato sui ricordi di giovinezza. Protagonista bambino, o giù di lì. Rigorosamente ambientato nel “profondo passionale e genuino” (discreto stereotipo, tipo Romani = scioperati / Milanesi = lavoratori) sud.  
2) Variazione del punto precedente. Al posto del bambino c’è un adolescente, e se non si rimane nel profondo sud, ma deve assolutamente essere la provincia a farla da padrone. 
3) Film di denuncia, solitamente una ventina di anni dopo l’evento. Interessante, tra l’altro, caso di cinema militante a posteriori. (da Il muro di gomma a Vajont, arrivando fino a Ilaria Alpi e Buongiorno notte)
4) Squallida storia di vita e amore metropolitano, sempre immergendosi nel fantastico e variopinto mondo delle borgate. E il drammone è sempre dietro l’angolo (evito perfino di far nomi, qui)

Inoltre, e soprattutto, ci dev’essere una qualche misteriosa e sottaciuta legge per cui quasi ogni film italiano deve partire, far riferimento, citare, parlare in qualche modo insomma, del fascismo, specie nel periodo immediatamente precedente la seconda guerra mondiale, con il definitivo avvicinamento di Mussolini alla politica di Hitler (insistendo soprattutto sulla deportazione degli ebrei, e indirettamente sulle leggi razziali). Che sia un semplice flashback, la base dell’intero film, il ricordo di un parente che non compare del protagonista, la cosa è d’obbligo. Insomma, in Italia non c’è stato altro.
Tutto questo, o singolo, o variamente intrecciato, sullo sfondo di un generico pazzesco provincialismo, un fiato corto che mette una tristezza infinita. Anche da un punto di vista strettamente tecnico (ma su questo non posso dir molto, quindi mi limiterò ad accennare e basta), tutto è sempre viziato da un non so che di dilettantesco pauroso. Comunque, e in sintesi, una incommensurabile ristrettezza di orizzonti.
(La stessa cosa succede nella letteratura. Tiro fuori solo un po’ di nomi: Enrico Brizzi, Andrea de Carlo, Margaret Mazzantini, Dacia Maraini, Sandro Veronesi. Ok, non ho citato i migliori? Bene, ci sto. Del resto, nemmeno nella controparte adesso cito i migliori: Dave Eggers, George Saunders, Amanda Homes, David Foster Wallace. Volendo, tiriamo fuori i migliori, da entrambe le parti: Philip Roth e Claudio Magris, Don de Lillo e Antonio Tabucchi, Citati e Updike, ecc ecc. Si noterà una cosa: il secondo gruppo è totalmente fatto da persone che vengono da lontano, il primo da giovani, o comunque esordienti. La differenza allora è che i tempi contemporanei, in Italia, producono quasi esclusivamente spazzatura, patetica banale e ripetitiva?).
Altra caratteristica simpatica, è che su un film italiano tutti ci devono mangiare; quindi ecco che la musica è firmata da un cantante, solitamente con una sua nuova hit da classifica (!) che almeno gli farà vendere un po’, di lì a poco. Così succede per il tanto acclamato La finestra di fronte (Giorgia – ah, a proposito: la scena serioso-drammatico-straziante del vecchio che consiglia a Giovanna Mezzogiorno di “seguire i propri sogni”, convincendola così a mollare il suo posto di capo reparto di una polleria a beneficio della sua grande passione di cucinare dolci, con tanto di pianto del marito quando ELLA glielo confessa, a notte fonda manco fosse un triplice adulterio orgiastico è di un grottesco e di un ridicolo da brividi. Complimenti! Ma davvero… non se ne accorge nessuno?); con l’eccezionale sequela di inverosimili banalità de L’ultimo bacio (Carmen Consoli – una delle poche figure, comunque, nel panorama, ad avere un certo temperamento artistico); con lo stucchevole ritratto di famigliola persa totalmente nel meraviglioso mondo dell’arte (complimenti anche lì!) di Ricordati di me (Elisa). E si potrebbe continuare. Quando invece la colonna sonora è affidata a un musicista vero, tocca a Nicola Piovani. Sempre. Ecco, se già siamo su un altro mondo (ce ne fosse!), nel caso c’è da notare che raramente non si riconosce la sua mano, nei suoi lavori . In senso mediamente negativo: sono tutte (più o meno) uguali!
Ogni regista inoltre (da buon “grande artista”) ha i suoi tic e le sue fissazioni: Ozpetek, quello degli omosessuali, tematica relativa ai quali infila da diritto e rovescio in tutti i suoi film; Bertolucci, quello del sesso torrido & selvaggio; Pieraccioni (già, c’è anche lui a fare i film… ma a voi fa veramente ridere), quella di raccontare storielle in cui lui è al centro dell’universo: tutte si innamorano di lui, che è sempre quello simpatico, scanzonato, ma non brutto, con la battuta pronta, sempre “il migliore”, il ragazzino più in vista, nel suo gruppo di amici della provincia di turno.
Che dire poi, quando il cinema italiano si tuffa nell’impegno sociale? Che dire dei melodrammoni strappalacrime e nauseanti che ne vengono fuori? Qui ci si è invischiato pesantemente anche Nanni Moretti, il cui ultimo tanto strombazzato film, La stanza del figlio, è una “cagata pazzesca” di fantozziana memoria. Checché ne possano dire i più, è qualcosa di osceno, una fiction tv e poco più: dopo 10 minuti di film, personalmente ero lì ad augurare qualcosa di brutto a quella famigliola stucchevole, che più che in un film (di Moretti poi! Ce n’era di che essere increduli!) sarebbe stata bene in uno spot del Mulino Bianco: ESSI fanno colazione tutti insieme, seduti ad un tavolo; ESSI conversano amabilmente di questo e quest’altro argomento; ESSI vivono in perfetta ed equilibratissima armonia, col padre che sporziona per tutti la cena e i figli che sono dei veri e propri tesori – insomma una bella famigliola di plastica, senza contare l’inadeguatezza assoluta della recitazione di Moretti (che comunque anche da padre di buona famiglia intellettual-borghese ripropone – è in grado di far diversamente? Doveva proprio far diversamente? – il Michele Apicella delle altre volte) per un ruolo come quello (certo, ci sono anche cose decenti, ma il fatto resta quasi marginale!).
E poi, tanto per chiudere in bellezza, il Cinema Italiano è fatto di polemiche: quelle che scatena un qualsiasi regista con la sua ultima opera scandalo, e ancor di più quelle che arrivano puntuali quando una qualche giuria non lo caga. Allora, ecco che si assiste alla levata di scudi dell’associazione tutta: “il Cinema Italiano” (preso tutto insieme, cosa curiosa questa – direbbe cose interessanti Flaiano, sulla mediocrità “confortata da altre mediocrità, a far numero, lega, sindacato”), non deve essere sempre così bistrattato, è un vero complotto, e la Rai giura che non produrra più film, ecc ecc. Al proposito, si noti come si adora farle alla mostra del Cinema di Venezia, queste polemiche, perché lì – si sa – si gioca in casa, e quindi bisognerebbe che ci fosse più rispetto, eccheccazzo.
Dimentico qualcosa? beh, non ho detto nulla della cittadella chiusa ed elitaria, nepotistica perfino, che si va a formare, nel “mondo” Cinema Italiano; niente dei veri e propri piccoli regni di questo o quel ras (già, un termine fascista… e non a caso!). Fino a qualche mese fa eravamo sotto il giogo di Stefano Accorsi. Pensate un po’ voi… quello che faceva la pubblicità al Maxibon.

Ma andate in culo, andate…

ottobre 14, 2003

ANYTHING ELSE, Woody Allen

(Inauguriamo oggi, per la gioja di un po' tutti ma soprattutto la mia e quella della mia mamma, una spumeggiante & simpatica rubricona. La rubricona avrà cadenza arbitraria, e parlerà, volta volta, di argomenti sempre diversi. In altre parole, scriverò quando cazzo mi pare, e di cosa cazzo mi pare. Su dai, partecipa anche tu NUMEROSO!)

Beh, dunque… Woody Allen ci abituato almeno da un po’ di annetti ormai, al “filmino”; vale a dire a quell’oretta e mezzo (religiosamente… è difficile anche che sfori) simpatica e ammiccante che tutt’al più ti può far uscire dal cinema con una piccola puntina di malinconia dentro di te. Certo, dentro di te, laddove intorno invece avrai sempre persone che maledicono il momento per cui sono entrate a vedere quel film, che tanto le ha fatte dormire e poco le ha fatte ridere, anzi quasi mai. Sentono dire che Woody Allen è un comico e vogliono ridere – hanno ragione anche loro, d’altra parte. Solitamente, il film che segue questo loro grosso dispiacere è American pie 3 o anche How to lose a guy in 10 days, o un bel filmino con Marisa Tomei (escluso, mi pare chiaro, My cousin Vinnie che è fantastico) o Scary Movie o che so io. È quasi più bello vedere la gente (ultimamente ci ho sempre accanto belle fiche – ovviamente non con me, ahimè – che dopo un po’ danno, tra un’occhiata al cellulare e l’altra – già, perché lo lasciano acceso, IL CEL, senza suoneria! – pesanti cenni d’insofferenza all’amica, solitamente brutta, con cui sono venute) al cinema che si dimena o che si dice “madonna ma che film è questo?”, o si fa i sorrisini l’un l’altro come a dire “ma te ci capisci un cazzo?”, e poi però non va via perché ha pagato e quando si paga si consuma, e te lì accanto già te la immagini il giorno dopo al lavoro a dire a tutti “ieri sera ho visto un film che… mah, io non lo so mica come fa a vederli, la gente… madonna, era qualcosa di incredibile. Ogni tanto ci si guardava, io e la vale… mah…” – dicevo, è quasi più bello questo che il film.
Ma cazzo, io divago, ed ero qui invece che dovevo dire del film di Woody Allen. Ok, dunque: Christina Ricci ha una fronte veramente ENORME! MA SI PUÒ AVERE UNA FRONTE COSÌ LARGA? Gesù, saranno 10-11 cm di fronte in altezza, e perlomeno 24-25 in lunghezza. Ma veramente... questo, ciò che colpisce del film: ok, poi lei è sensuale, anche, versione Village (=universitaria) della Dea dell’amore Mira Sorvino di qualche tempo fa; la storia è come al solito ben condotta (anche se forse… non si arrotola un po’ su se stessa, con tutti quegli stacchi narrativi di Jason Biggs? Voglio dire, pare che all’inizio sia lui che ci racconta una storia, e poi di tanto in tanto torna, ed esce dalla narrazione, e allora ci si perde un po’, a dire il vero, perché poi in conclusione il film finisce nel presente, e ci resta quasi il dubbio, quasi fosse una cornice non chiusa); Woody Allen fa il woodyallen, e Jason Biggs fa il woodyallen (davvero, qualsiasi attore che sia passato da protagonista in un film di Woody Allen, non ha fatto altro che riprodurre in tutto e per tutto il suo regista: gesticolare come lui, parlare come lui, muoversi come lui. Non si scappa: unica eccezione, il John Cusak di Pallottole su Broadway, che degli ultimi film, penso, è il migliore).

Beh, insomma, dicevo, c’è anche tutto questo, e tutto sommato, come sempre, è piacevole, se uno non si mette a confrontare Manhattan (tanto per dire uno), col presente, o Ombre e Nebbia con Celebrity o Io e Annie con La maledizione dello scorpione di giada. Ma soprattutto c’è la FRONTE ENORME di Christina Ricci. Per smetterla di farci caso ci vogliono almeno quattro o cinque inquadrature, quattro o cinque inquadrature che la diluiscano nella di lei restante graziosità & conturbanza (che cazzo sto scrivendo?), che lascino campo a quello che il film è, facendolo scorrere, più o meno, in levità. Ma cos’è allora questo film? Beh, le possibilità sono due, in fondo: se, come dice un mio caro amico che magari avrebbe potuto pure scriverlo (e assai meglio) lui questo pezzo (ma, tanto per fare un esempio, tra me lui e un tavolo, quello con più spirito di iniziativa e voglia di fare e gioia di vivere è certo il tavolo), ci diciamo che la mediocrità è assai meno giustificabile e comprensibile da chi in precedenza ha fatto ottime cose, è un conto; se invece si accetta l’oretta e mezzo simpatica e ammiccante, non si fa caso quel che è stato (né alla dannosa ancorché incomprensibile ostinazione di voler scodellare nientemeno che un film all’anno); si prende il tutto per quel che è e ci diciamo che comunque è sempre meglio di Raimondo Vianello e di un sacco di altre cose, beh… allora… cos’è? “Mah, guardi… è come tutto il resto!”