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marzo 11, 2012

YOUNG ADULT, Jason Reitman

Alla fine si ricompone il connubio Jason (figlio di Ivan, mitico regista di Ghostbusters e tanto basta - oh: tutto il mondo è paese e niente ci possiam fare; comunque sia, siam fuori da ogni sospetto, si può ben dire per il caso: e anzi il figlio è onore e non onere per il padre - certo, acchiappa-fantasmi a parte!) Reitman e Diablo Cody, ex-spogliarellista di qualche paesino sperduto in Minnesota passata poi dietro alla macchina da scrivere con esiti freschi e frizzanti (Juno, felicissimo frutto del sodalizio di cui sopra), un po' convenzionali ma comunque apprezzabili per il genere (l'horror Jennifer's body), e infine nuovamente discreti, seppur lontani dal dieci e lode dell'esordio.
Al suo quarto film dopo due gioielli (Thank you for Smoking e, appunto, Juno - non saprei dire quale dei due più riuscito) e qualcosa di riuscito a metà (Up in the air, da noi uscito col titolo di Tra le nuvole, film che avrebbe dovuto consacrare definitivamente il ragazzo al di fuori del circuito del Sundance Film Festival, ma che a fronte di un'incisiva idea iniziale à la Coen, si annacquava nei fastidiosi manierismi facciali da piacione di George Clooney), Reitman recupera in pieno lo "spirito Sundance" - che sarebbe poi dire politically uncorrect, ritmo, anticonformismo divertito al di là di qualsiasi giudizio o moralismo, un pizzico di off-culture e underground, giovanilismo nel senso buono del termine (per capirsi: non nel senso in cui lo stesso concetto trionfa da noi) - e ci propone l'eterna opposizione metropoli-provincia (tradotto nei nostri confini: città-campagna), senza come al solito esser pro o contro l'una o l'altra, ma per  ricavare spunti acuti e brillanti da una situazione. Tant'è che alla fine, il divertimento ritmato rimane e un'amarezza molto autobiografica (della sceneggiatrice) si sente, ma non finiamo per parteggiare né per Mavis Gary (Charlize Theron, molto brava), ex-reginetta del locale liceo in (sterile) fuga dalla soffocante e monotona provincia, né per Buddy Slade (Patrick Wilson, un po' troppo di plastica nel suo dar corpo al provincialotto costantemente in camicia a quadri con maniche arrotolate e aperta su maglietta bianca) e tutto ciò che si trova a simboleggiare. 
La provincia pigra, chiusa in se stessa, con tutto ciò che nega e tutto ciò a cui lega; il poco, il niente, il limitato e il limitante; il sentirsi contenti con (quel) poco o il sentirsi morti dentro, vivendo senza un domani, inconsapevoli soldatini di un posto sul lago che "puzza di merda di pesce", in cui ciascuno è "grasso e stupido" a suo modo. E la grande città, Minneapolis - MiniApple nella terminologia un po' bifolca degli abitanti di Mercury, Minnesota, i quali hanno (si pensi!) un nuovo locale "fico" in paese - con le sue opportunità e le sue luci, la sua vita "ventilata" e piena di occasioni.
Di fatto, due ragioni diverse della solita infelicità - perché l'infelicità ce la portiamo dentro, non è fuori di noi né si può legare a un posto piuttosto che ad un altro, né - tantomeno - nasce dal bersi le solite birre al solito bar ogni benedetta sera, ripensando ai tempi d'oro del liceo, piuttosto che vedere e vedersi più cool in uno dei tanti locali più raffinati della grande città - da una parte limitazione, dall'altra solitudine. 
Non conta dove siamo né si fugge da noi stessi, se noi stessi siamo personaggi usciti da Glory Days di Bruce Springsteen (di fatto Diablo Cody e The Boss fotografano, ciascuno col proprio linguaggio, la stessa situazione). 
"Quanti ne abbiamo riportati a casa ubriachi dal bar, di ex-capitani della squadra di football del liceo?", diceva il detective Emily Sanders (di nuovo Charlize Theron - magari avrà fatto tesoro di quel personaggio per dar vita a questo) nel bel film di Paul Haggis, Nella Valle di Elah (2007). Be', è più o meno la stessa cosa, lo stesso modo di sentire e vedere uno stato di cose. Per questo forse, più che la vicenda messa in scena dal duo Diablo Cody-Jason Reitman - divertente e amara al tempo stesso - conta lo spirito e l'odore che il film spande per l'aria durante la visione.
Limitazione e solitudine, si diceva. I due elementi si incontrano nel personaggio ottimamente reso di Mavis Gary la quale, pur fuggita dall'insostenibile senso di soffocamento del paesino monotono e limitante, di fatto ne è ancora in tutto e per tutto figlia (una figlia che ben volentieri passa le serate nel solito bar rievocando i tempi del liceo, pur a quindici e passa anni di distanza!), rivelando che dietro un odio tanto acceso per il posto c'è un trauma adolescenziale, e poco altro. 
Per questo, il ritorno è terapeutico - e un po' fuorviante è sulla locandina del film leggere "Tutti invecchiano. Ma non tutti crescono" (cazzo c'entrerà?): compiuto il percorso, avvenuta la catarsi, riabbracciata in tutto e per tutto la provincia e fatti i conti col passato, la scrittrice-semi-fallita-semi-alcolizzata-mezza-isterica Mavis può chiudere finalmente la porta dietro di sé, e la parola fine e in realtà un inizio.
Vita, eccomi.

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