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novembre 27, 2003

CANTANDO DIETRO I PARAVENTI, Ermanno Olmi

In Cantando dietro i paraventi c’è Bud Spencer. Punto. Già solo questo basterebbe per pagare il biglietto e andarselo a vedere. Se poi lui nei titoli di coda figura proprio come Bud Spencer (e non come Carlo Pedersoli, o quel che è), e dimostra che può ancora aprire gli occhi più della solita fessura… beh, signore e signori, è un evento da non perdere. Resteranno delusi però tutti quelli che si aspettano anche Trinità-Terence Hill. Mannaggia...
Il film, beh, il film è un tipico film di Ermanno Olmi: chi ha visto Il mestiere delle armi (e questo potrebbe essere l’ideale seguito), La leggenda del Santo bevitore e ovviamente L’albero degli zoccoli, sa di cosa si parla. Manca, secondo me (e siccome qui ci scrivo solo io, tutto è relativo e il secondo me è verità assoluta, presuntuosa e tersa; tie’ tie’ tie’), e del tutto, il RITMO. Un esempio: nell’Albero degli Zoccoli si raccontava la vita umile e raccolta, ciclica e misera, ecc ecc, di poveri contadini e braccianti di fine Ottocento. Ovviamente, la si raccontava con un tono perfettamente adeguato alla materia narrata. Insomma, era una naturale conseguenza. E fin lì niente da obiettare, se prendiamo il film singolo, in sé e per sé. Sennonché, questa cosa diventa maniera, alla lunga; un modo per travestire tutto quel che si fa da Opera d’Arte, di quelle con la O e la A maiuscola, seriose e solenni, che forse sembrerebbero anche assai noiose, ma visto che ispirano una rigida riverenza e un rigido rispetto, le si fa passare, quasi ammirati. È un’operazione piuttosto furba, in fin dei conti. Così succede nel Mestiere delle armi, in cui “ogni gesto sembra venire direttamente da Dio” (ok, la frase non è mia, ma le virgolette le ho messe no? Cazzo volete? L’ha detto Claudio Magris!), e in cui la ricostruzione minuziosa e maniacale del tempo passato fa da antidoto (anestetico?) alla noia che si sprigiona e che così si trasforma. Non si riesce ad attrarre un interesse, però si incute rispetto. Ma il solco resta: da una parte la Cultura, sempre quella con la C maiuscola; dall’altra la gente, che magari la prima rispetta e riverisce, ma vi gira alla larga, con rispetto dicendo che non “ne capisce” un cazzo.
Che succede invece in Cantando dietro i paraventi? Si narra una storiella, e come sempre quando l’occhio della cinepresa si sposta a Oriente abbiamo il solito zuppone di orientalismi: il teatro kabuki, quello No, l’Opera di Pechino, le geishe, la musica statica e stucchevole, la ritualità, i samurai, le dinastie, la tradizione dello spettacolo estremamente lungo, durante il quale la gente mangia, beve, conversa, guardandolo solo con la coda dell’occhio e con un’attenzione relativa, eccetera eccetera.
Per quanto, in questo caso, siano tutti filologicamente esatti (e ci mancherebbe: Olmi sta sempre sul limitare del pedante), zuppone restano. Siamo in Cina e uno studentello (alquanto antipatico e, a vederlo, dotato presumibilmente di una pienezza di sé e di una spocchia tale da far impallidire gli intellettualini che ai primi anni d’università si vestono solo di velluto, fumano i cigarillos e frequentano i circoli cinematografici alternativi), con un misterioso pacchetto regalo, corre per arrivare in tempo ad uno spettacolo, che però ha tutti i crismi del giapponesissimo teatro kabuki (misto di recitazione, balletto, voce narrante e pantomima; “cammino fiorito” – tipico ponte-palco del teatro in questione; lunghezza della pièce – che però è preceduta da altre pièces, e questo invece è tipico dell’Opera di Pechino; attenzione episodica e superficiale dell’uditorio, che si intrattiene amabilmente con delle zoccole-schiave, come da tradizione peraltro, ecc). Lo spettacolo narra una favola di pirati. Una piratessa, a dire il vero; una storia molto esile e semplice, complicata e ingarbugliata ogni tanto (o forse ero io che mi perdevo, pensando a altre cose – d’altra parte ve l’ho detto già, che sono un critico affidabile come la merda, e forse meno…) da qualche raggiro politico e managerial-commerciale di quei tempi. Il tutto col solito ritmo-zero, compensato appunto dalla possibilità che si resti in ammirazione rispettosa & pensosa di tutto ciò che sta intorno alla favola, perché siamo persone civili e educate, di fronte alla cultura. Di quelle che si vestono bene quando vanno in un museo, e con la cravatta addirittura se vanno a teatro. E via, e via.
In sintesi: nient’affatto delizioso, come si dice (è una tonalità che a Olmi penso proprio manchi del tutto). Però, nemmeno pretenzioso, insomma. Non il massimo. Ma c'è BUD SPENCER!!! Volete Mettere?