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maggio 30, 2011

THE TREE OF LIFE, Terrence Malick

Spinto ed alfin convinto dai trionfalismi critici di – almeno per me – certificata ed autorevolissima provenienza, son quindi giunto a vedere l'opera che ha sbancato l'ultimo festival di Cannes, questo Albero della vita secondo Terrence Malick. Non ci sarei andato altrimenti, sia perché credo che il regista sia un po' prigioniero di se stesso e della sua ossessione Artistica (metto la A maiuscola non per caso); sia perché il precedente film, (datato 2005: The New world, con Colin Farrel impegnato a rifare una seriosa versione di Pochaontas), era una discreta palla al piede, seppur opera originale e tutto quel che vuoi; sia, infine, perché i film che combinano le variabili "lunga gestazione" più "alone messianico-apotropaico" (vedi anche alla voce David Lynch) hanno sempre qualche controindicazione minacciosa. E così è, invariabilmente: ci sediamo per assistere a due ore e venti di immagini senz'altro molto belle e suggestive, e musica ancor di più; fotografia senz'altro da apprezzare, ma ci sentiamo il tempo che scorre pesante addosso, dilatandosi attorno al niente, o poco oltre. L'impianto del film è veramente poca cosa – diciamo, riassumibile nelle eterne domande di matrice flagello-cristiana: “Signore, perché mi fai questo?" "Perché a me?" "Perché permetti che accada il male?" "Perché noi dobbiamo esser buoni se tu sei cattivo?" – e sia che il mondo sia visto attraverso gli occhi di un bambino (prima), quasi-adolescente (poi), dipoi uomo fatto; oppure attraverso quelli della madre, passando attraverso un punto di vista puramente visivo-illustrativo ad illustrare - appunto - il miracolo della vita e la sua bellezza, poco cambia. Resta una pretenziosità inutile che è spesso eccesso ed artificio: le inquadrature di sinistri e scuri alberi spogli dal basso verso l'alto, col cielo grigio sullo sfondo (ce le aveva già propinate – cambiava solo la musica, ché lì udivi la Sonata al Chiar di Luna di Beethoven – Gus Van Sant in Elephant, e il risultato era stucchevolmente simile); uno stormo di uccelli che danza nel cielo, fra i grattacieli del tempo moderno, col “mondo che è peggiorato, oggi” (spunto tirato fuori da un malinconico ed assorto Sean Penn, grande - lui - come di consueto, ma nient'affatto sviluppato – e questa mi pare a conti fatti una gran colpa); tutta una serie di vulcani che eruttano, acque impetuose e musica che accompagna e sottolinea; scene di vita, salti temporali arditi. Soprattutto inquadrature del cielo e la voce fuori campo del personaggio di turno a bisbigliare le sue domande senza risposta a un Dio la cui casa – dice la madre al piccolo – è in cielo. Veramente troppo.
Così come oltre il limite siamo nel trattamento del tempo, certo volutamente non narrativo o consequenziale, ma veramente troppo ondivago e onirico: il bambino diventato grande che ritrova dentro le sue fantasie la famiglia e il suo passato, dopo aver camminato in un arido deserto – fin troppo ovvia ipostasi della sua vita nell'oggi – e riveduto se stesso da piccolo; la morte di uno dei fratelli, o le scene di vita spicciola e concreta (oltre alle famiglie in litigio e ai bambini che giocano col sottofondo della Moldava di Smetana si pensi anche al Brad Pitt padre – a proposito: tanto celebrata anche la sua interpretazione; non mi pare che almeno per stavolta si possa parlar di chissà quali virtuosismi! – che fa forse convivere in sé la rappresentazione del dio buono e misericordioso con quello vendicativo e irato) che nulla aggiungono a un normalissimo trattamento che chiunque ne poteva fare: in fin dei conti che il mondo è un posto brutto e ingiusto lo si può dire anche con meno pretenziosità ed assai maggior efficacia.

Tutto sommato a me sembra che lo spettatore si senta sempre come in attesa di qualcosa che dovrebbe avvenire e che invece non avviene mai. Si attende l'epifania, la rivelazione che ci toccherà nel profondo. E quando questo non avviene, ti scopri a ripensare quindi al messaggio di fondo del film, cercandolo sfrondando da immagini che peraltro Kubrick in 2001: Odissea nello spazio ci aveva già mostrato (e quindi niente di nuovo).
E il messaggio, alla fine, è il classico pugno di mosche, un po' gonfiato dall'enfasi.

C'è chi ha scritto di questo film nei termini di un'esperienza più che cinematografica, e quindi totalizzante (ciò può esser vero se vogliamo vederlo come un affresco della vita nella sua interezza, quasi una cosmogonia: una famiglia americana che è in realtà tutti noi, il mondo, la vita in sé stessa, le domande le sofferenze e le gioie che questa ci passa – va da sé che questo non è sufficiente a fare un capolavoro!); chi ne ha parlato come di qualcosa che si vede come si ascolta una sinfonia, con un tema che torna ossessivo (e il tema sarebbe quello del dolore e della perdita, che contraddice l'illusione e tensione umana verso l'amore e la bontà - ma anche in questo caso non mi sembra chissà quale verità o novità sconvolgente); chi, con meno esaltazione, ha parlato di un film di poesia (senz'altro vero), o di una specie di National Geographic film, per arrivare a chi parla di un film che fa il verso al suo regista, auto-parodiandolo inconsapevolmente.
Dopo aver ammantato di (calcolato?) mistero la sua opera durante la lunga gestazione e realizzazione, Malick, per rimanere nel personaggio austero e schivo che si è creato, quasi un compiaciuto guru, sceglie di non presentarsi nemmeno alla consegna del premio. E - verrebbe da dire - così chiude il cerchio.

maggio 20, 2011

D. MEANS, Episodi incendiari assortiti (Assorted Fire Events)

Raccolta di racconti esile nelle dimensioni quanto densissima nei contenuti, questo lavoro dello scrittore statunitense David Means (il suo primo pubblicato in Italia) ha in sé tutta la desolazione del Midwest americano – quell'esser sempre un po' a metà di tutto, né carne né pesce, sempre in una condizione media e mediocre, con un paesaggio che nulla ha di seducente e molto del disturbante (senza esser terrificante o apocalittico: semplicemente spiacevole, o un po' deforme), quel senso di "vorrei ma non posso", né di provincia né di centro del mondo, che è sempre a un passo ma è sempre irraggiungibile, pura mèta a cui tendere invano - desolazione cui peraltro molti altri ci hanno abituato, e molto, molto di nuovo. Può certo piacere o non piacere, ma a livello formale la capacità di Means di spostarsi, spostare il punto di vista, movimentare il tempo, soprattutto giocare con i processi mentali che si ingenerano a partire da, è incredibile, e certo lo fa apparire come nessun altro. È, credo, uno stile profondamente unico e personale, per la cui buona riuscita è fondamentale anzitutto l'aver compreso (da parte dell'autore) il fatto che questo genere di densità e contorsione può riuscire solo entro lo spazio del racconto, meglio se breve o comunque non troppo lungo. Altrimenti si scivola nel manierismo e nella contorsione fine a se stessa, col povero lettore che si arrabatta invano a stendere il filo, a sciogliere i nodi, a scoprire (inutili) enigmi, magari risalendo a ricostruire una catena di eventi per poi scoprire addirittura che l'epilogo è del tutto immaginario e ipotetico, come perduto o secondario (Incidente ferroviario - Agosto 1995, o anche I travagli della vedova, La presa). Ciò perché spesso il filo si nasconde, ed anche nudi fatti di cronaca o genericamente familiar-autobiografici hanno questa impronta (Quello che fecero, uno dei pezzi migliori della raccolta, Episodi incendiari assortiti, Il cacciatore di gesti); ma siamo sempre rassicurati dal fatto che non un'asciutta vicenda o concatenamento di eventi conta (per questo è fondamentale la durata del pezzo, il respiro della pagina), quanto il descrivere ciò che questi eventi muovono nella figura del protagonista, nella sua mente. Al centro dei racconti di Means c'è sempre una figura singola – soprattutto: sola – e i suoi processi mentali, siano questi ricordi, suggestioni, idee, possibilità; tutti quanti mossi tra passato presente e futuro, e in base ad un qualcosa che si sta svolgendo al di fuori. In definitiva, è la scrittura la protagonista assoluta (ad un certo punto della raccolta, in un breve racconto, a titolo Quello che spero io, a prender la parola è proprio l'autore in prima persona, intavolando un dialogo con la scrittura, in un gioco di rimandi che diventa scrittura sulla scrittura, meta-narrazione), e la libertà con cui la mente procede e si fa parola scritta. Si va avanti non con una consequenzialità puramente narrativa, bensì ad illuminazioni poetiche, improvvise, squarci tristi o nostalgici. Va da sé che la raccolta non può, per sua natura, essere uniforme o di livello costante; tuttavia determinati passi, determinati momenti colgono nel segno, e a fronte di una lettura tutto sommato “difficile”, rimangono meravigliosi barlumi e pesanti perle (tra cui si segnala in particolare Il lamento di Sleeping Bear).
Il piccolo volume ha suscitato enormi consensi in USA, e Means è stato inserito - senz'altro a ragione - tra i migliori scrittori statunitensi del nuovo millennio; quantomeno tra questi uno dei più originali. In Italia non ha forse riscosso lo stesso successo di altri di quest'ultima generazione (Saunders, Lethem, per tacer del compianto David Foster Wallace) e solo tre anni dopo è stata fatta uscire (per altro editore) la sua nuova raccolta, dal titolo Il pesce rosso segreto (The secret Goldfish) che più o meno ricalca gli schemi e gli stili della precedente. Comune un po' a tutti gli scrittori "made in Usa" di ultima generazione è la ricerca di un'originalità tematica e stilistica (Saunders ad esempio fa dello humor la sua arma di ricerca), ma in Means il discorso è ancora diverso: c'è una specie di partecipazione dolorosa, qualcosa che è come se toccasse nel profondo l'autore prima di tutto... una specie di poesia in forma di racconto, una tangibile forma di coinvolgimento personale.

maggio 16, 2011

D. DU MAURIER, Gli uccelli e altri racconti (The Apple Tree)

Dovendo dipoi (speriamo nel tempo affinché giunga in uno spazio mentale che si possa considerar ragionevolissimo e breve) recarmi in Cornovaglia per motivi di fondamentale importanza quali il mio personal diporto, diletto ed interesse nonché per spirito di vision del mondo (quindi, tutti motivi assai più importanti rispetto a ciò con cui di solito facciam nostro malgrado i conti - almeno io), ho deciso d'intraprendere il riempimento di una delle tantissime mie lacune colpevoli – più o meno tali – attraverso la conoscenza di una delle cosiddette voci del posto, bella quanto non molto conosciuta, sebbene da molti registi (Alfred Hitchcock su tutti) sia stata sfruttata come una miniera.
Si rimane sinceramente molto colpiti più che tutto dalla modernità di scrittura e di analisi psicologica dei personaggi; la Du Maurier rifugge in modo pressoché perfetto quanto di solito si ascrive al femminino in letteratura (ovviamente, parlo al ribasso: assolutamente non mia intenzione colpire scrittrici di gran calibro; solo che dico che nel mediocre gli uomini fan schifo in molti modi, magari anche più bassi e vili; le donne si assomigliano) ed è una pura mano che scrive, impermeabile al banale, al tumido e al melodrammatico, allo scipito e al lagrimevole: semplicemente inquietante nella sua complessità il ritratto per assenza di Midge (Il melo, forse il miglior racconto della raccolta – e non è un caso che il titolo orginale della stessa fosse The Apple Tree; ma si sa, bisogna pur vendere, e se da uno dei racconti Hitchcock ha tratto uno dei suoi film più famosi perché non sfruttarlo? Tutto in fondo è merce, oggi); davvero sorprendente il trovarsi di fronte a racconti di larga campitura, quasi dei romanzi brevi, in cui si può trovar sottigliezze di analisi del personaggio da grande scrittore ottocentesco – a me continua a venire in mente Maupassant, e da lì Huysmann, fino ad Edgar Allan Poe – e facilità e immediatezza di scrittura da scrittore a noi contemporaneo, fatto ancor più da rimarcare se si considera che questi racconti sono del 1952!
Tra gli altri, già notato di Midge (per tacer del marito), il personaggio dell'operaio di Baciami ancora, sconosciuto, col suo punto di vista distaccato e dimesso, potrebbe tranquillamente uscir fuori da una raccolta di racconti di Carver, laddove il tono da feuilleton fin de siècle della marchesa de Il piccolo fotografo s'innerva di venature noir quantomeno soprendenti (e appunto hitchcockiane, forse – paradossalmente - assai più che nel celeberrimo Gli Uccelli, che nulla più che un ottimo spunto tematico è stato per il regista).
Le figure della Du Maurier, mentre forse interessa meno alla scrittrice la descrizione del circostante - curioso come pur riuscendo lei a scrivere soltanto in Cornovaglia, così poco faccia entrare poi questa terra a caratterizzare le sue pagine, pagine in cui più che altro si descrive una generica, per quanto molto bella e seducente, campagna inglese - si stagliano su uno sfondo che è molto spesso la provincia, intesa sia come rifugio dalla Grande Città, che come condizione ideale per un raccogliersi narrativamente sul personaggio e su questo scavare, pur non tralasciando un gusto per la trama (in quarta di copertina parlano di gotico, ma è un po' un calcar la mano, esattamente come si fa quando stesso concetto di vuole applicare a certi racconti di Maupassant) e per la sospensione dell'intreccio – una certa suspence, un certo thrill, che uniti alla sottile analisi psicologica fan sì che su tutto scenda come un sottile senso di straniamento, cosa che magari ci rende il tutto ancor più moderno – che chiudono il cerchio, e fanno di Daphne Du Maurier sì un caso – perché non è conosciuta quanto merita?, e via discorrendo – ma soprattutto una grande scrittrice.

maggio 15, 2011

TRAFFIC, Steven Soderbergh

Traffic è un film notevole, sotto molti punti di vista. Vincitore di quattro premi Oscar nel 2000 (regia, sceneggiatura, attore non protagonista, montaggio), ha un cast di primissimo ordine, e il regista – si noti, non stiamo parlando di Stanley Kubrick o qualche altro mostro sacri - riesce a tenere il gioco in mano a tal punto da potersi permettere di trattare star di prima grandezza (Micheal Douglas e Catherine Zeta-Jones, per dire) come se tali non fossero, al di fuori cioè degli obblighi che la loro presenza farebbe supporre, e cui invece spesso costringe: un film fatto per, costruito sulle misure di.
La forza del film è, oltre che nei suoi interpreti, la sua complessità d'intreccio, la capacità di far comprendere senza spiegare esplicitamente - senza cioè porsi su un piedistallo e da lì far discendere con sicumera una lezione moralistica e didascalica, illustrativa e dimostrativa (Oliver Stone?) – la realtà del narcotraffico, colta prima di tutto in termini visivi e simbolici, e poi raccontata lucidamente in tutta la sua tragica complessità – ahimè! – inestirpabile (in questo senso credo che l'epilogo della porzione di film riservata a Micheal Douglas e famiglia sia l'unica stonatura di una perfetta quanto triste sinfonia; un "fuori luogo", un qualcosa d'obbligato, una costrizione – la produzione, le major, qualche alto papavero: tutto in nome se non proprio di un consueto lieto fine, quantomeno di un raggio di luce – siamo in un film, vogliamo far credere alla gente che i buoni alla fine vincono o comunque la speranza la conservano sempre, proprio perché sono i buoni?).
Spettatore impotente, guardi e rifletti, capisci che tutto questo è qualcosa di più che un film; ti rendi conto che vie di scampo non ce ne sono – o, se ci sono, sono sempre parziali, sporche, dal confine sottilissimo: facile sarebbe chiedersi perché una ragazza di sedici anni bella, ricca, intelligente, con tutte le possibilità del mondo davanti a lei, debba proprio perdersi nella droga; facile sarebbe chiedersi perché la moglie di un ricco professionista presunto impresario edile e (invece) comprovato pesce grosso del traffico di droga fra il Messico e gli USA non dia un taglio a tutto questo una volta esploso il bubbone ma anzi si improvvisi trafficante ella stessa, mandante di assassini, eccetera. Si va al di là della vicenda narrata, del puro fatto di un film, e al tempo stesso si ammira la lucidità di un documento e di un'inchiesta che metaforicamente riproduce l'esperienza della e nella droga (Stephen Gaghan – e si tenga a mente il nome – sceneggiatore con Steven Soderbergh, è un ex-tossico), con una storia che si avvolge su se stessa, seducente, sinuosa e poi disperante, spietata e spossante, senza vie di scampo, e in cui tutto può essere il contrario di tutto, esattamente come labile è il confine tra il bene e il male, tra i buoni e i cattivi, con la legge del caos che apparenta e impasta tutto, intrecciando vicende apparentemente assai lontane tra loro: il poliziotto di Tijuana Javier Rodriguez (Benicio del Toro, fantastico come sempre, premiato giustamente con l'Oscar come attore non protagonista – un vero e proprio esempio di Arte in movimento: ecco, il suo personale spicchio di piccola redenzione finale appare meno stridente di quello riservato a Micheal Douglas – possa forse essere perché al netto di ogni religione?) suo malgrado corrotto senza nemmeno accorgersene, irretito fra le spire del cartello concorrente agli Obregon, rappresentato a livello di “legge” dal generale Salazar (udite udite: un Tomas Milian mefistofelico e strabiliante); la sua vicenda con quella del giudice antidroga di stanza a Washington (con tutte le declinazioni di quel potere che dovrebbe simili piaghe combattere e che spesso – quando non sia proprio del tutto inadatto - si ritrova ad esser piaga esso stesso) e quella del trafficante di San Diego e dei poliziotti (Luis Guzman, Don Cheadle, altri due assolutamente a dare meravigliosa quanto consueta prova) che per incastrarlo lavorano; quella, per finire, dei ragazzi e degli uomini che nella droga finiscono per trovare una via, ciascuno a suo modo e al suo livello, ciascuno trascinato inesorabilmente dal fascino di qualcosa che agisce, fino ad esserne parte, sulla natura umana, i cui lati peggiori, si sa, son sempre quelli più facili da blandire.
Il messaggio di fondo, oltre alla bellezza stilistica dell'insieme – a volte un po' troppo schematica, forse: anche direttore della fotografia, Soderbergh sceglie programmaticamente di contrapporre le tonalità ocra e sgranate di Tijuana e del Messico al colore-calore tendente all'arancione di San Diego e all'azzurrino come patina che ingessa Washington e il potere in genere – è un grande senso di difficoltà, una constatazione dolorosa di uno stato di cose che per com'è esteso e cosa coinvolge e cosa tocca dentro di noi, ha in sé un senso di tragico e immutabile che gli attori per primi sono bravi a rendere, mentre la tessitura del film fa ripensare, dal punto di vista dello schema tecnico-narrativo, all'Altman di America Oggi, nonché, dal punto di vista dell'ambizione e complessità d'intreccio, al Coppola de Il Padrino, entrambi padri nobili di un prodotto che non sbiadisce certo troppo, al confronto. Da un punto di vista letterario, invece, Traffic trova certo il suo parallelo (per così dire, "postumo") – ancor più approfondito, ancor più tragico - ne Il Potere del Cane di Don Winslow.
Curiosità: la distribuzione italiana decide di doppiare le parti che nella versione originale erano state lasciate in spagnolo con sottotitoli (la parte messicana del film), perché si in Italia si vuol sempre esser tetragoni alle lingue, e guai se lo spettatore fa un piccolo sforzo in più. Incuranti di quello che si perde...
altra curiosità: la musica originale del film è suonata (fra gli altri) da Herbie Hancock e The Flea (Red Hot Chili Peppers)
Ultima curiosità: nel 2005 lo sceneggiatore del film, stavolta regista (con Soderebergh produttore) fa la stessa identica cosa trasportando il tutto in Medio-Oriente e passando dalla droga al terrorismo: il risultato è ugualmente tragico e intricato, e si intitolerà Syriana; gli Oscar stavolta saranno due (sceneggiatura e miglior attore non protagonista) e il senso di smarrimento e impotenza di fronte al male, identico.