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febbraio 28, 2011

D. WINSLOW, Il potere del cane (The power of the dog)

Di rado ci si imbatte in libri di simile potenza espressiva e complessità storica. Don Winslow, ex-assicuratore, ex-soldato, ex-qualsiasi cosa, come da perfetta tradizione americano-pragmatica (cosa che, ad esempio, mette abbondantemente al riparo tale società da ogni forma di snobismo, quantomeno nel termine a noi noto e in nome del quale la Cultura è da farsi tassativamente entro e per una cerchia di eletti che passano il loro tempo - mi si passi la citazione dal Mr. Wolf di Tarantiniana (Quentin, no Gianpaolo) memoria - a "farsi i pompini a vicenda") squaderna una narrazione cruda, un ritmo serrato e un plot veramente monumentale: insomma un capolavoro assoluto, probabilmente il più potente - stando a quel che posso aver letto io, il miglior - affresco dell'epoca post-moderna ('74-99) che gli USA potessero aspettarsi. Meglio di Lehane, di Ellroy, del quale rigetta manierismi stilistici e visione oltranzistica in nero & sconforto pur non rinunciando a creare una propria originalità a livello di linguaggio e mantenendo una complessità della vicenda quantomeno affascinante e non labirintica - e si badi che il confine può esser sottilissimo ed è arte complessa, il rimanervi agganciati; meglio anche di DeLillo, meglio di tutto ciò che vi possa venir da pensare, Il potere del cane è un'opera complessa e grondante un mix di sangue, malvagità, efferatezze, abiezione e avidità che sono, purtroppo, storia. La nostra, nostro malgrado.
Il libro scuote e colpisce, provoca un dolore quasi fisico; eppure non smetteresti mai di leggerlo, riconoscendoci con una difficoltà appagante un quadro storico effettivo e desolato, intrighi politici - ahimè! - del tutto verosimili e veritieri; personaggi ed organizzazioni reali che fanno da sfondo a una vicenda che d'inventato forse ha solo i nomi, mai troppo orribile per essere vera.
Anche i personaggi - Art Keller, Adan e Raul Barrera, Sean Callan, Parada, tutti - sono caratterizzati e analizzati nelle loro profondissime complessità di esseri umani, e il lasciarli, o vedere l'umana tragedia che si abbatte su ciascuno di essi in modo ogni volta diverso dà quella stessa forte sensazione che - personalmente - mi davano le vicende riferite alle figure descritte da uno Stendhal o un Dostoevskij.
La dico troppo grossa? Ad ogni tempo la sua opera, che volete farci. E i nostri tempi questi, esattamente, sono.
Semplicemente, Don Winslow si rivela un sorprendente fenomeno sotto tutti i punti di vista, confermando il già pur ottimo livello de L'inverno di Frankie Machine (dal quale dovrebbe esser stato tratto un film con Robert DeNiro nella parte di Frank 'The Machine' Machianno, in uscita da noi chissà quando - siam sempre le ultime ruote del carro), testo nel quale le avventure di un padrino in disarmo fanno pensare a un C'era una volta in America in versione Californiana e crepuscolare, e rendono ancora lustro - nel contempo rinnovandola (altra operazione non dappoco) - alla gloriosa tradizione gangster-movie.
E, a conti fatti, passi pure se La pattuglia dell'Alba (ancor non so degli altri usciti adesso - il rischio è sempre quello di munger troppo la vacca che dà il latte, come già è successo per Lansdale, tanto per dirne uno) non è granché: trovarsi in mano un mattone dorato compenserà pure un sasso comune...

febbraio 27, 2011

Un gelido inverno!


Il cielo dell’America son mille cieli sopra a un continente

C’è l’America delle luci di New York dei lustrini di Hollywood e del cinema da questa prodotto.
C’è un’altra America però lontana dalle grandi città , dai luoghi di potere, dalla “bella vita”.
Ci sono luoghi di miseria, di povertà dove la vita si trasforma in un film horror.
Dove si vive senza tetto, senza soldi, lavoro e ogni tipo di calore famigliare anche quello dei parenti più stretti.
Un gelido inverno, perfetto prodotto del cinema indipendente americano,ci mostra questa realtà nella sua più crudele manifestazione.
Ree, Jennifer Lawrence, ha 17 anni vive in un bungalow in una specie di baraccopoli dove l’attività principale della "comunità" è coltivare cocaina.
Una mamma malata e incapace di parlare, due fratelli piccoli a cui badare, e un padre più spesso in carcere che fuori uscito di galera su cauzione pagata ipotecando la casa.
Lo sceriffo avverte la ragazza che se il padre non compare in Tribunale lo Stato procederà alla vendita della casa per coprire la cauzione.
Ree si mette alla ricerca del padre,certa che gli sia successo qualcosa di brutto, per dare un futuro alla famiglia.
 In questo ambiente di miseria, di delinquenza e di traffici illeciti, Ree dovrà sfidare l’omertà di parenti, i codici d’onore distorti di una società quasi barbara e priva di valori esterni e di cultura, non lontana da quella descritta da Mccarty in Figlio di Dio o in il buio fuori.
Ogni scena del film è raccontata con un realismo autentico. Ogni situazione sgradevole al limite, a volte, della tollerabilità è posta in un contesto che la rende necessaria e naturale.
Il film non eccede mai in scene fini a stesse per rappresentare e denunciare il degrado della società.
Gli attori non sembrano personaggi di un film, ma persone reali.
Se mai dovessi andare nella catena montuosa dell’Ozark, dove si svolge il film, non credo che vedrei niente di diverso da quello descritto in questo film.
Un gelido inverno è candidato a 4 premi Oscar, meritato sarebbe quello alla protagonista, ma mi stupirei se ne vincesse qualcuno perché troppo crudo e scomodo e lontano dal cinema di Hollywood.
Spero di essere smentito. Resta comunque il fatto che Un gelido inverno è un gran bel film.  

febbraio 26, 2011

Once more... Il fantasmagorico cinema italiano

Ci sarebbero molte domande che una persona sana di mente si può porre scorrendo i titoli che regolarmente sforna il cinema italiano: come mai si finisca sempre a raccontare scipite storielle di adolescenti (ribelli, innamorati, appiccicosi, fastidiosi, limitati); perché ci sia sempre bisogno di prendere una disgrazia familiare vera o immaginata e adagiarci sopra un bel drammone lacrimoso e svenevole; per quale motivo si sia così prodighi nel conceder libero cimento a divi & divette televisive con parti e copioni che della gloriosa - ma, anche qui: ok rispetto e deferenza, ma ci si potrà pur aggiornare, il mondo va anche avanti... - commedia all'italiana non hanno mantenuto nemmeno un odore lontano, e tutt'al più servono agli odierni protagonisti come banalissimo fondo per replicare le macchiette che ci propinano in tv.
E ancora: perché l'amore o il sentimento siano sempre squadernati e dozzinali, perché gli intrecci così poveri; da dove ci venga questa banalità di fiction a oltranza, sempre con le stesse quattro o cinque facce - quello bello, quella bella, il tenebroso, la nevrotica, il piacione, e via pedalare.
Ci si chiede perché, in definitiva, ci sia sempre quest'aria stantìa, questa miseria di fondo, sia di mezzi che di temi che di facce.
E ciò non basta: perché tutto si deve anche ripetere, senza misura e senza limite: Manuale d'amore tre quattro cinque e sei; Maschi contro Femmine (andata) e Femmine Contro Maschi (ritorno - chi ha vinto?); per tacere del fenomeno tutto nostrano del cinepanettone, in nome del quale, sotto le feste si deve ridere perché si è spensierati e ci si può (deve) rilassare.
E quando si toccano i tasti dell'impegno! Si arriva a rimpiangere la tundra piatta e sconfinata dell'evasione: in questo caso, ecco allora l'invasione dei ricordi d'infanzia (Fellini docet - ma Fellini era Fellini; voi non siete un cazzo, direbbe il buon Marchese), memorie del tempo del fascio, altri complessi ma inutili scavi psicologici col tema dell'omosessualità buttato là, che - si sa - fa tanto intellettuale.
E quando qualcosa finalmente esce, ce lo promuoviamo in grande stile - squilli di tromba; ci si canta e ci si suona, tutti attenti al proprio campanile come siamo: interviste nei tiggì, comparsate in questo e quel programma, pubblicità e servizi vari, ed ancora altre interviste nei tiggiuno due tre quattro cinque e sei. E lo speciale di Verissimo, prendi incarta e porta a casa.
All'estero ci snobbano? Maccheccafoni!

febbraio 25, 2011

B. YOSHIMOTO, Kitchen (Kitchin)

Anzitutto: questa è una recensione (ammesso che lo sia - solitamente penso a quel che scrivo più nei termini di un cumulo di bischeratere ingarbugliate che altro) un po' limitata, zoppa, parziale. Più che tutto perché Kitchen è l'unica prova della Yoshimoto che fino ad oggi ho potuto sciropparmi, e visti gli esiti non tendo a escludere del tutto che sia l'ultima. Per carità, eh? Sicuramente martellarsi le estremità è esperienza peggiore. Comunque sia, anche complice un'italica veste editoriale alquanto discutibile (perché mettere insieme Kitchen, Plenilunio ovverosia Kitchen 2, e dulcis in fundo la tesi di laurea dell'autrice (???), un raccontino un po' scipito a titolo Moonlight shadow come la canzone (perché?), non mi pare affatto una scelta felice, specie se il titolo o il frontespizio non segnalano in niente la tripartizione - o quantomeno la bipartizione, ammettendo la continuità dei primi due - del testo!), la domanda che ci si pone leggendo - intendo leggendo in modo per così dire "autonomo", senza collocare cioè l'autore entro contesto e tempo assai diversi rispetto al nostro - Kitchin è: dove vuole andare a parare? Già: perché più che piacevoli pennellate episodiche, relative ad aspetti marginali, notazioni temporali "di colore", riflessioni un po' liricizzanti e - ammetto - anche molto valide, sembra proprio mancare non tanto una trama ben definita, ché di questa non sempre ci può esser bisgogno, bensì quantomeno un impianto d'insieme. Kitchin pare un accumularsi di annotazioni sensoriali, registrazioni di stati d'animo che spesso trovano immediata e poetica rispondenza nell'ambiente che ci circonda (se non sono proprio verso questo traslati a livello percettivo): Mikage, la protagonista, pare venir condotta dall'autrice senza nessuna pretesa di logica o verosimiglianza, ma con il solo scopo di guardare, sentire e raccontarci quel che avviene dentro di sé. È un gioco un po' ombelicale, ma tutto sommato, se si accettano le coordinate spazio-temporali, funziona. Siamo forse un po' straniati e ci chiediamo anche il perché di tanta pudicizia e ritrosia, ma dobbiamo anche considerare che canoni, temi e sfondi sono molto lontani da noi; non possiamo certo pretendere la ferrea struttura di un poliziesco o quella quantomeno consequenziaria di un romanzo di formazione: probabilmente (dico, probabilmente: non sono esattamente un esperto del mondo giapponese) l'occhio orientale è assai più propenso a cogliere la magia dell'istante, la seduzione delle piccole cose, pur senza cadere - come accadrebbe invece in occidente - nel minimalismo, e per contro restando sempre all'interno di un qualcosa di magico e delicato, come - sarò banale - un origami. Ok, sparate, l'ho detta bassa...
Più che la trama o i personaggi, contano per Banana Yoshimoto i sentimenti (ed in questo è molto "scrittrice" - almeno nel senso che solitamente mi vien da dare a questo termine, con tutto ciò che da esso deriva) e bene è messo in luce nella postfazione il suo diretto contatto o la comunanza di punti di partenza con lo shojo manga (trad. letterale il manga per ragazze), cosa che le permette di aggirare la sequenzialità e la logica di una storia in nome di un arbitrio narrativo diverso - né più semplificato né più dozzinale: soltanto, con un altra scala di valori. Tuttavia, il punto è che tutte le notazioni singole, per quanto carine, valgono per se stesse e non si armonizzano né verso una direzione (appunto: la trama) né verso un quadro d'insieme che in qualche modo risolva. Sono, semplicemente, pennellate, e si accumulano giustapponendosi una dopo l'altra, tanto che a volte pare che il gusto di darne una sia superiore alla sua efffettiva necessità in quel preciso punto della tela - mettiamola così. Di fatto, puoi tranquillamente arrivare alla fine del primo pezzo, del secondo, del terzo, e chiederti: ma è finito?
In definitiva: la Yoshimoto ci fa vedere che sa scrivere - meglio: sa sentire e scrivere, in sequenza immediata - ma in definitiva non scrive un romanzo, non almeno in questo caso, per cui comunque posson valere tutte le attenuanti del medesimo, non ultima ovviamente il fatto che Kitchin sia la sua prima pubblicazione. Perché in tale prima pubblicazione l'editore italiano abbia messo, senza grosse spiegazioni, anche un lavoro della "studentessa" Yoshimoto, una (strana, invero) prova di laurea, non è dato sapere.
Moonlight shadow? Come la canzone (di ricorda la stessa autrice nel suo Postscriptum)? Viene un po' da sorridere - un po' troppo candore, un po' troppo perbenismo: qui si vede (inutilmente, per la verità - la variantistica c'entra proprio poco!) veramente qualcosa di acerbo, qualcosa che a conti fatti poteva anche rimanere nel cassetto, e nessuno avrebbe gridato al capolavoro sottratto.
Vabbe', questo era quanto, e non saprei dilungarmi oltre... solo aggiungere che la pudicizia estrema - quasi fastidiosa - dietro cui si trincera ostinata l'autrice è forse anche un riflesso di ciò a cui inevitabilmente porta una visione del mondo molto mediata e frenata come quella che - suppongo - ha la società giapponese (una visione in cui ad esempio qualsiasi riferimento sessuale è bandito e sublimato o nel travestitismo come fuga, o nella raffinatezza estrema, come modo per prendere tempo).

febbraio 24, 2011

IL CIGNO NERO (Black Swan), Darren Aronofksy

Il virus del nuovo millennio (la danza, nella sua accezione più svilita e competitivamente impoverita nelle esibizioni presso nostrane mariedefilippi e altre miserie) sbarca sul grande schermo, e le sale italiane - all'estero saran certo più lungimiranti, si spera sempre - si riempiono di ragazzine che giungono direttamente dall'ultimo plié alla sbarra, le vesti il portamento e il sussiego della balleria classica per definizione, ideale ormai passato (suo malgrado) come standard presso simil cervelli.
Peccato; peccato perché il film di Aronofsky è tutto sommato un bel film, un film che dal mondo del Balletto Classico muove non tanto per rifar Scarpette rosse, Saranno Famosi, o un documentario sulla danza - in quest'ultimo senso fu un discreto naufragio già il tentativo effettuato qualche anno addietro per mano di un grande della regia, Robert Altman, che col suo The Company rimase a metà di tutto: fiction, film, documentario, luoghi comuni - ma per indagare un cosiddetto "abito" mentale che abitualmente i giorni nostri ci cuciono addosso. L'ossessione e la tensione costante sono sì proprie della ballerina Nina (Natalie Portman, che come sempre patisce, piange a dirotto ed è costantemente turbata - chissà come vivrà nella vita di tutti i giorni...), e peraltro si può capire facilmente come il mondo della danza classica - universo assolutamente fuori da ogni tempo e (come ha scritto Natalia Aspesi su Repubblica) cieco alla realtà; fastidiosamente etereo ed autoreferenziale, inutilmente severo e alla perpetua e tesissima ricerca di un Ideale di perfezione fine a se stesso, un ideale che mai nessuno raggiungerà appieno proprio perché è in questo la sua essenza più profonda, essenza peraltro regolarmente sublimata in una malata competitività malcompresa e ancor peggio accolta dai protagonisti che tale mondo popolano - si capisce bene, dicevo, come un mondo che valorizza un ideale astrattissimo e non la persona possa essere una lente d'ingrandimento ideale per indagare lo stress e le fissazioni mentali che sono il nostro pane quotidiano; ma più che tutto Aronofsky indaga ancora una volta questi ultimi elementi come risultato e conseguenza del nostro essere nel mondo: il corpo (e di conseguenza l'anima) umiliato, offeso, ossessivamente curato per qualcun altro, inteso questo come occhi che ci guardano (ci impongono), società, professione.
Fino all'identificazione suprema, pericolosa e dannosa fino anche alla morte, di ciascuno col proprio personaggio, la propria maschera che, se anche inizialmente ci siamo scelti, ci ha ben presto divorato.
La stessa cosa succedeva col magnifico Mickey Rourke di The Wrestler, e se i casi del lottatore e della ballerina sono certamente casi estremi e spinti all'eccesso, il paradigma vale in potenza per tutti: siamo come ci vedono, e le convenzioni e i ruoli ci schiacciano.
Nina, diafana ballerina dal virginale candore, afflitta da una madre castrante e orribile che la tiene cristallizzata nell'immagine di bambina in tutù che quest'ultima ha di lei, respira a pieni polmoni il gioco di ruolo in cui lei è la ballerina o l'immagine che di questa si tramanda convenzionalmente: finirà regolarmente a rimettere i pasti, senza saper trattenere un sogghigno quando la costumista le farà notare quanto sia (ulteriormente) dimagrita; costantemente vivrà sulla corda, nella perpetua e tesa ricerca di una artificiosa perfezione che di fatto non esiste - avrà in pratica, suo malgrado, da adempiere a un ruolo che si ritrova cucita addosso. La molla che accelera la tragedia è l'assegnazione del ruolo da protagonista nella prossima produzione della Compagnia, Il lago dei cigni, comunque visto dal coreografo (Vincent Cassel, presumibilmente etero, o quantomeno non la solita checca isterica, alla faccia di chi ha voluto parlare di questo film come di una sequela di luoghi comuni sulla danza, ballerina anziana e quindi da buttare a parte, vedi la parte di Winona Ryder o della patetica matusa che mostra al cigno come muovere le ali - anche se qui, più che di luoghi comuni si tratta forse di una fedele radiografia d'un ambiente) come una contrapposizione di luce ed ombra, apollineo e dionisiaco, ragione e istinto, forza e lato oscuro - appunto, cigno bianco e cigno nero.
Il personaggio di Nina, cristallizzato nell'etereo ideale di ballerina e di bambina (tutto ciò che è puro, positivo, niveo), accelera il suo senso di disagio e comincia ad andare in pezzi - al proposito, il regista insiste forse un po' troppo coi primi piani mossi e granulosi, condotti in modo quasi claustrofobico con la camera a mano, per tradurre in termini visivi il turbamento e lo squilibrio sempre maggiore della protagonista; tutto il film è girato quasi esclusivamente in interni, eccezion fatta per qualche angoscioso squarcio del Lincoln Center - vivendo di un sempre più drammatico sdoppiamento tra una cosiddetta parte nobile ed una parte oscura, in cui il conflitto è tutto ingenerato dalla convenzione che ci possano e ci debbano essere una parte nobile e una oscura in noi (fuor di metafora, e in modo più stretto: l'immagine pura della ballerina è il bene e il sesso è male; ancora una volta, amor dei e amor passio, pari pari dal trattato  De Amore di Andrea Cappellano; il primo può passare, l'altro è da respingere - eravamo nel XII secolo: quanti pochi passi abbiamo fatto, come esseri umani?), un bene da accogliere e un male da respinger risoluti.
Tra scene piuttosto esplicite di sesso, visioni al limite del thriller, proiezioni immaginarie di se stessi in corpo d'altri, tentativi di simbolica liberazione frustrati dalla forza effettiva di una maschera ormai troppo pesante (che reagisce e si modifica come un virus), Nina arriva ad uccidere se stessa pensando di uccidere l'altro, il negativo, il male, ipostatizzato nella sensale figura di un'altra ballerina che agli occhi del suo personaggio vuol prendere il suo posto; e per contro celebra nell'intermezzo fra il qui ed ora e la fine, la mimesi suprema di quest'ultimo e il suo ideale, con la metamorfosi completa in cigno, nero o bianco è indifferente. È una celebrazione in tutto e per tutto illusoria, tragica; e nel momento in cui si scopre che la nostra essenza profonda non può essere che un misto di luce ed ombra può solo compiersi la nostra tragedia, col personaggio che invariabilmente vince, ci asfalta, ci porta via con sé.
Peccato che di tutto questo, al pubblico di cui parlavo in apertura niente arrivi, con l'aggravante che passa invece e in cavalleria - vediamo quel che vogliam vedere - il suo esatto contrario: la nobiltà suprema, quasi trascendente, di un personaggio-maschera (non già la sua natura deviata e malata);  il perpetuarsi e il rafforzarsi della concezione più convenzionale del medesimo. Sì: più o meno l'opposto di ciò che il regista ha voluto dire.

febbraio 22, 2011

A. GOPNIK, Una casa a New York (Through the Children's Gate)

Scene di quotidiana vita a Manhattan, durante i nostri giorni. Sì, ma raccontate attraverso voce e penna di un columnist del New Yorker, che per l'appunto raccoglie ed amplia ciò che va scrivendo in apposita rubrica su La Rivista per antonomasia.
Questo, con tutto ciò che ne può conseguire: altro è leggere una pagina al mese, densa quanto si può chiedere, magari su accadimenti immediati, con riferimenti che ancora bruciano del momento appena trascorso, se non proprio sono pane quotidiano; altro è condensare in successione simili resoconti, giustapponendo, con il solo filo conduttore dei soliti personaggi (più che tutto i figli dell'autore, Luke e Olivia, e ciò che ad essi è direttamente o indirettamente legato, dal rientro in Manhattan con un ideale e metaforico passaggio attraverso Children's Gate di Central Park passando per scuole, tornei di scacchi, quotidianità varia in salsa newyorkese), fatti, situazioni, aspetti minimi di una città che si può a pieno diritto definire - e come tale è peraltro presentata e vissuta - il vero e proprio ombelico del mondo, quantomeno della sua parte occidentale.
Per notomizzarla e presentarcela con le bollicine e i vassoî d'argento, Gopnik utilizza - forse a volte ne abusa - la punta della penna, attingendo alla nobile tradizione dell'elzeviro anglosassone, la cosiddetta "Terza Pagina" che - nei paesi più civilizzati che non ad esempio il nostro (in Inghilterra ed in Germania i musei sono per lo più gratuiti; la danza, per tacer delle musica, è materia d'insegnamento dalla seconda metà dell'Ottocento - e si potrebbe impietosamente continuare, con noialtri che tutt'al più difendiamo biliosi snob e pieni di sussiego il nostro schifosissimo caffè espresso) - ha così largo consumo e apprezzamento, con la sua idea di una prosa significante per sé stessa, scintillante ed affilata, erudita, che sappia smuovere il riso e l'acume di chi legge sia che narri di lavandaje o di noumeni kantiani.
Come dicevo, però: accostare tante Terze Pagine, seppur con un qualche tentativo di collegamento, può anche essere un eccesso, un sovraffollamento di una dimensione che solitamente risolve la sua tensione in - appunto - una pagina, di giornale, di rivista, quel che volete. Protrarre il gioco per 396 pagine può, alla lunga, stancare. E tantopiù.

E tantopiù che, purtroppo per noi, occidentali che a tale ombelico possono tutt'al più tendere e aspirare, una quotidianità e familiarità eccessive con la Grande Mela ci sono - ahinoi! - negate; e allora questioni innegabilmente (ok: a volte più, e a volte meno!) deliziose ma circoscritte al luogo, come le traversie edilizie di un quartiere, le dispute municipali di localissimo cabotaggio e via discorrendo, possono diventare piuttosto inconcludenti se non noiose. Magari avrebbe comodato un accorto controcanto del curatore dell'edizione italiana, ad illustrare e metter qualche puntino sulle -i che a noi resta, inevitabilmente, invisibile.
Restano, certo, delle file di perle e dei singoli diamanti - l'elzeviro, si sa, è anche incline all'aforsima (anche di questo a volte abusa) o alla riflessione brillante: le irresistibili e molto newyorkesi avventure dell'uomo di mezza età alle prese con la psicanalisi e i suoi soloni; le fantasie di bambini con amici immaginari già troppo presi dalla vita per giocar con loro; i ricordi di una memorabile serata al Village Vanguard di cinquant'anni fa; le vicende di un pesce rosso e di una squadra di soft-ball di ragazzini e il suo allenatore malato di cancro in Central Park. Il jogging mattutino/serale di padri di famiglia attorno all'Onassis Reservoir, condito da riflessioni scandite dal passo. Lo sviluppo diacronico di Times Square, da luogo decaduto (come tutta la città) negli anni '70 e '80, ventre molle e ricettacolo di tutto ciò che è sordido, a salotto buono ad uso quasi esclusivo - vale per gli autoctoni, bontà loro - della novella ondata di bambini che popola la penisola, e della borghesia high-tech di tutto il mondo, in pellegrinaggio estatico alla ricerca di luoghi mitizzati e da cartolina, quando va bene di ricordi di bohème.
Quanto all'aforisma, magari un po' diluito, qualche esempio:
New York riduce il confortevole all'ansioso, l'ansioso all'indigente, l'indigente al criminale e solo il vero ricco trova un reale conforto.
La saturazione d'impegni è la nostra forma d'arte, il nostro rituale civico, il nostro modo di essere noi.
New York esiste al tempo stesso come una città di simboli e associazioni letterari e artistici, e come una città di cose reali [...] una città di sogni eccentrici e di realtà che disilludono.

E molti potrebbero essere gli esempi. Ma non importa, il libro è lì; chi può aver la pazienza a volte di esser sconfitto lo prenda in mano: perché più che tutto, leggendo Una casa a New York si ha l'impressione di girare freneticamente intorno all'autore, alla ricerca speranzosa di un punto di contatto che significa che quella cosa la conosciamo anche noi, che l'ombelico del mondo ha lasciato che affondassimo dentro di lui, almeno per quell'aspetto: se ad esempio riuscitre a capire cosa l'autore esattamente intenda quando dice che "intorno alla fermata del bus esiste una zona in cui è lecito salire, estesa un metro e mezzo o due, nota esclusivamente all'autista, il quale apre e chiude le porte nel momento in cui, rispettivamente, percepisce la comparsa e la scomparsa della zona"; se questo vi succederà, dicevo, vi sentirete una calda soddisfazione che vi riempie il petto, e il trionfante senso di contatto & condivisione vi riporterà a calori amniotici - tutto sommato, un'esperienza piacevole.
Altrimenti, è tempo di tornare (spero per voi che non sia: andare) a New York.

febbraio 21, 2011

IL GRINTA (True Grit), Joel & Ethan Coen

Immaginate di vedere questo film dalla grande atmosfera, dai campi lunghi e dalla musica lenta e suggestiva con l'audio che miagola pesantemente, e il tizio addetto al proiettore che a un certo punto decide di aprire l'oblo e far sentire alla sala il rumore del medesimo, con in più la sua risposta al walkie-talkie che porta alla cintura - "ok, va bene arrivo, ci penso io, ricevuto".
Immaginate che per superne ragioni, qualcuno decida di inzepparci anche l'intervallo, riempiendo 8 lunghi, lunghissimi minuti con un pesantissimo pippero che fa il verso (male) a Carosone. L'intervallo, oggi, si origina e risolve in due tagli bruti alla pellicola, col film che quindi interrompesi di brutto, quasi fosse un guasto, e riparte alla stessa maniera, talché lo stolto - ma sól quello - potrà dire: "però, bravi questi, han già risolto il guasto!".
Potreste dire, alla fine, di averlo apprezzato?
E invece.
Sì, eccome: perché il remake di un film del 1969 di Barry Hathaway (True Grit) con un semi-vecchio John Wayne già malato e proprio con questo film vincitore dell'unico suo Oscar in carriera, è un'operazione così riuscita e compiuta che su queste cose passi sopra a corsa, e magari approfitti dell'intervallo per andarti a prendere il pop-corn che i tizi di cui sopra mettono a ricompensa (a titolo gratuito, sennò col cazzo!) delle tue sopportazioni.
Western già di un filone crepuscolare - quindi che fa di suo a meno degli adamantini cow-boy tutti d'un pezzo, rudi e dalla parte del giusto, senza paure e realismo alcuni - viene reso in direzione più di un romanzo picaresco che altro, evitando così al tempo stesso l'omaggio tra lo struggente l'ironico e il realistico (inteso nel senso più quotidiano del termine, maiali che scappano nel fango, eroi che salgono male a cavallo, bounty-killer miopi, etc.) che allo stesso tema aveva riservato il più grande regista ad oggi (che Dio o chi per lui ce lo conservi) Clint Eastwood, in Unforgiven.
Tornando al nostro caso, in altre parole: si prende un genere defunto e ampiamente dimenticato e gli si rendono un'ora e cinquanta di onori, con la consapevolezza che al termine di tale tempo il genere, un po' attualizzato e contaminato, tornerà sottoterra buono buono. Ovvi e dovuti, anche i garbati consueti omaggi, primo fra tutti il treno che arriva in stazione con l'inquadratura che si perde pateticamente in lontananza (C'era una volta il West - non si potrà mai evitare un omaggio a Sergio Leone, uno che già il genere l'aveva contaminato col genio). Dite voi il resto, tanto sarà sempre questione di due o tre nomi.
La ragazzina quattordicenne (Hailee Steinfeld, candidata giustamente all'oscar come attrice non protagonista) incarica un cacciatore di taglie (Jeff Bridges-Drugo Lebowski riciclato in versione ciclope inanzianito, seduto sghembo sul suo cavallo - magnifico) un po' cialtrone di prendere l'assassino di suo padre, salvo poi partecipare in prima persona all'impresa. Mirabili, sempre sul filo di un ironia tutt'altro che di genere, i dialoghi tra i due, e molto "Coen" le scene eccessive e grottesche in cui si trova immersa senza uno spavento - e quindi nel solito possibile difetto di verisimiglianza, solo che è sempre qui che la magia costante dei Coen sprigiona: a loro questo non si può mai imputare, vedere (qualsiasi cosa) per credere! - la protagonista, sullo sfondo di un Vecchio West che si dà un po' più struttura e concretezza rispetto al solito saloon e sentiero polveroso.
Fin quando arriva il dottore in pelle d'orso: e il disegno ormai si compie, c'è anche il loro tocco di follia - il trio di messicani che sveglia Josh Brolin in No Country for old men, il suonatore di cornamusa in Intolerable cruelty, e via così, ricordando certo volentieri l'indugio sublime in questi luoghi di Burn after reading ("che cazzo di casino...") - e uno si siede più comodo e si ripete: sì, son proprio a vedere un film dei Coen! Dovrei forse essere da qualche altra parte?
L'assassino è Josh Brolin, dimagrito 20 chili dall'ultimo e frettoloso Woody Allen; la spalla buona (ranger del Texas "sempre ardimentoso", a rappresentare - lui sì! - la stagione d'oro del western classico) è Matt Damon; il capo della banda con cui si duella in Gran Finale è Barry Pepper, che da un po' non ritrovavo - ed era gran peccato, per quanto lui magari possa bearsi d'altra scala di valori che non quelli che suggerisco io: signori, il cast è servito, si potrebbe chiudere.
Da vedere assolutamente, financo non amando il filone, beandosi anche soltanto di una caratterizzazione del malvagio assai meno manichea di quanto i canoni di genere - e ahimè non solo quelli: è la norma ad uso delle masse - potrebbero far pensare: ben che vada i criminali sono assennati e trattabili, diplomatici (Pepper); male, dei ridicoli idioti che fan le bizze (Brolin).
E proprio in questo si noti, ad ancora maggior merito, come i registi abbian mostrato un nuovo aspetto del concetto di male, dopo ad esempio la fredda e gratuita ferocia distaccata della coppia Buscemi-Stormare (Fargo), l'intrigante avidità di Emmet-Walsh (Blood Simple) e - potevo non lasciarlo per ultimo? - l'ossessione patologica ed agghiacciante di Berdem (No contry for old men). Il tutto, naturalmente, a ricordare che le cose son sempre un po' più "mosse" di quanto si vorrebbe - uno dei motivi, tra l'altro, per cui è sempre tutto così dannatamente difficile.