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febbraio 24, 2011

IL CIGNO NERO (Black Swan), Darren Aronofksy

Il virus del nuovo millennio (la danza, nella sua accezione più svilita e competitivamente impoverita nelle esibizioni presso nostrane mariedefilippi e altre miserie) sbarca sul grande schermo, e le sale italiane - all'estero saran certo più lungimiranti, si spera sempre - si riempiono di ragazzine che giungono direttamente dall'ultimo plié alla sbarra, le vesti il portamento e il sussiego della balleria classica per definizione, ideale ormai passato (suo malgrado) come standard presso simil cervelli.
Peccato; peccato perché il film di Aronofsky è tutto sommato un bel film, un film che dal mondo del Balletto Classico muove non tanto per rifar Scarpette rosse, Saranno Famosi, o un documentario sulla danza - in quest'ultimo senso fu un discreto naufragio già il tentativo effettuato qualche anno addietro per mano di un grande della regia, Robert Altman, che col suo The Company rimase a metà di tutto: fiction, film, documentario, luoghi comuni - ma per indagare un cosiddetto "abito" mentale che abitualmente i giorni nostri ci cuciono addosso. L'ossessione e la tensione costante sono sì proprie della ballerina Nina (Natalie Portman, che come sempre patisce, piange a dirotto ed è costantemente turbata - chissà come vivrà nella vita di tutti i giorni...), e peraltro si può capire facilmente come il mondo della danza classica - universo assolutamente fuori da ogni tempo e (come ha scritto Natalia Aspesi su Repubblica) cieco alla realtà; fastidiosamente etereo ed autoreferenziale, inutilmente severo e alla perpetua e tesissima ricerca di un Ideale di perfezione fine a se stesso, un ideale che mai nessuno raggiungerà appieno proprio perché è in questo la sua essenza più profonda, essenza peraltro regolarmente sublimata in una malata competitività malcompresa e ancor peggio accolta dai protagonisti che tale mondo popolano - si capisce bene, dicevo, come un mondo che valorizza un ideale astrattissimo e non la persona possa essere una lente d'ingrandimento ideale per indagare lo stress e le fissazioni mentali che sono il nostro pane quotidiano; ma più che tutto Aronofsky indaga ancora una volta questi ultimi elementi come risultato e conseguenza del nostro essere nel mondo: il corpo (e di conseguenza l'anima) umiliato, offeso, ossessivamente curato per qualcun altro, inteso questo come occhi che ci guardano (ci impongono), società, professione.
Fino all'identificazione suprema, pericolosa e dannosa fino anche alla morte, di ciascuno col proprio personaggio, la propria maschera che, se anche inizialmente ci siamo scelti, ci ha ben presto divorato.
La stessa cosa succedeva col magnifico Mickey Rourke di The Wrestler, e se i casi del lottatore e della ballerina sono certamente casi estremi e spinti all'eccesso, il paradigma vale in potenza per tutti: siamo come ci vedono, e le convenzioni e i ruoli ci schiacciano.
Nina, diafana ballerina dal virginale candore, afflitta da una madre castrante e orribile che la tiene cristallizzata nell'immagine di bambina in tutù che quest'ultima ha di lei, respira a pieni polmoni il gioco di ruolo in cui lei è la ballerina o l'immagine che di questa si tramanda convenzionalmente: finirà regolarmente a rimettere i pasti, senza saper trattenere un sogghigno quando la costumista le farà notare quanto sia (ulteriormente) dimagrita; costantemente vivrà sulla corda, nella perpetua e tesa ricerca di una artificiosa perfezione che di fatto non esiste - avrà in pratica, suo malgrado, da adempiere a un ruolo che si ritrova cucita addosso. La molla che accelera la tragedia è l'assegnazione del ruolo da protagonista nella prossima produzione della Compagnia, Il lago dei cigni, comunque visto dal coreografo (Vincent Cassel, presumibilmente etero, o quantomeno non la solita checca isterica, alla faccia di chi ha voluto parlare di questo film come di una sequela di luoghi comuni sulla danza, ballerina anziana e quindi da buttare a parte, vedi la parte di Winona Ryder o della patetica matusa che mostra al cigno come muovere le ali - anche se qui, più che di luoghi comuni si tratta forse di una fedele radiografia d'un ambiente) come una contrapposizione di luce ed ombra, apollineo e dionisiaco, ragione e istinto, forza e lato oscuro - appunto, cigno bianco e cigno nero.
Il personaggio di Nina, cristallizzato nell'etereo ideale di ballerina e di bambina (tutto ciò che è puro, positivo, niveo), accelera il suo senso di disagio e comincia ad andare in pezzi - al proposito, il regista insiste forse un po' troppo coi primi piani mossi e granulosi, condotti in modo quasi claustrofobico con la camera a mano, per tradurre in termini visivi il turbamento e lo squilibrio sempre maggiore della protagonista; tutto il film è girato quasi esclusivamente in interni, eccezion fatta per qualche angoscioso squarcio del Lincoln Center - vivendo di un sempre più drammatico sdoppiamento tra una cosiddetta parte nobile ed una parte oscura, in cui il conflitto è tutto ingenerato dalla convenzione che ci possano e ci debbano essere una parte nobile e una oscura in noi (fuor di metafora, e in modo più stretto: l'immagine pura della ballerina è il bene e il sesso è male; ancora una volta, amor dei e amor passio, pari pari dal trattato  De Amore di Andrea Cappellano; il primo può passare, l'altro è da respingere - eravamo nel XII secolo: quanti pochi passi abbiamo fatto, come esseri umani?), un bene da accogliere e un male da respinger risoluti.
Tra scene piuttosto esplicite di sesso, visioni al limite del thriller, proiezioni immaginarie di se stessi in corpo d'altri, tentativi di simbolica liberazione frustrati dalla forza effettiva di una maschera ormai troppo pesante (che reagisce e si modifica come un virus), Nina arriva ad uccidere se stessa pensando di uccidere l'altro, il negativo, il male, ipostatizzato nella sensale figura di un'altra ballerina che agli occhi del suo personaggio vuol prendere il suo posto; e per contro celebra nell'intermezzo fra il qui ed ora e la fine, la mimesi suprema di quest'ultimo e il suo ideale, con la metamorfosi completa in cigno, nero o bianco è indifferente. È una celebrazione in tutto e per tutto illusoria, tragica; e nel momento in cui si scopre che la nostra essenza profonda non può essere che un misto di luce ed ombra può solo compiersi la nostra tragedia, col personaggio che invariabilmente vince, ci asfalta, ci porta via con sé.
Peccato che di tutto questo, al pubblico di cui parlavo in apertura niente arrivi, con l'aggravante che passa invece e in cavalleria - vediamo quel che vogliam vedere - il suo esatto contrario: la nobiltà suprema, quasi trascendente, di un personaggio-maschera (non già la sua natura deviata e malata);  il perpetuarsi e il rafforzarsi della concezione più convenzionale del medesimo. Sì: più o meno l'opposto di ciò che il regista ha voluto dire.

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