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febbraio 22, 2011

A. GOPNIK, Una casa a New York (Through the Children's Gate)

Scene di quotidiana vita a Manhattan, durante i nostri giorni. Sì, ma raccontate attraverso voce e penna di un columnist del New Yorker, che per l'appunto raccoglie ed amplia ciò che va scrivendo in apposita rubrica su La Rivista per antonomasia.
Questo, con tutto ciò che ne può conseguire: altro è leggere una pagina al mese, densa quanto si può chiedere, magari su accadimenti immediati, con riferimenti che ancora bruciano del momento appena trascorso, se non proprio sono pane quotidiano; altro è condensare in successione simili resoconti, giustapponendo, con il solo filo conduttore dei soliti personaggi (più che tutto i figli dell'autore, Luke e Olivia, e ciò che ad essi è direttamente o indirettamente legato, dal rientro in Manhattan con un ideale e metaforico passaggio attraverso Children's Gate di Central Park passando per scuole, tornei di scacchi, quotidianità varia in salsa newyorkese), fatti, situazioni, aspetti minimi di una città che si può a pieno diritto definire - e come tale è peraltro presentata e vissuta - il vero e proprio ombelico del mondo, quantomeno della sua parte occidentale.
Per notomizzarla e presentarcela con le bollicine e i vassoî d'argento, Gopnik utilizza - forse a volte ne abusa - la punta della penna, attingendo alla nobile tradizione dell'elzeviro anglosassone, la cosiddetta "Terza Pagina" che - nei paesi più civilizzati che non ad esempio il nostro (in Inghilterra ed in Germania i musei sono per lo più gratuiti; la danza, per tacer delle musica, è materia d'insegnamento dalla seconda metà dell'Ottocento - e si potrebbe impietosamente continuare, con noialtri che tutt'al più difendiamo biliosi snob e pieni di sussiego il nostro schifosissimo caffè espresso) - ha così largo consumo e apprezzamento, con la sua idea di una prosa significante per sé stessa, scintillante ed affilata, erudita, che sappia smuovere il riso e l'acume di chi legge sia che narri di lavandaje o di noumeni kantiani.
Come dicevo, però: accostare tante Terze Pagine, seppur con un qualche tentativo di collegamento, può anche essere un eccesso, un sovraffollamento di una dimensione che solitamente risolve la sua tensione in - appunto - una pagina, di giornale, di rivista, quel che volete. Protrarre il gioco per 396 pagine può, alla lunga, stancare. E tantopiù.

E tantopiù che, purtroppo per noi, occidentali che a tale ombelico possono tutt'al più tendere e aspirare, una quotidianità e familiarità eccessive con la Grande Mela ci sono - ahinoi! - negate; e allora questioni innegabilmente (ok: a volte più, e a volte meno!) deliziose ma circoscritte al luogo, come le traversie edilizie di un quartiere, le dispute municipali di localissimo cabotaggio e via discorrendo, possono diventare piuttosto inconcludenti se non noiose. Magari avrebbe comodato un accorto controcanto del curatore dell'edizione italiana, ad illustrare e metter qualche puntino sulle -i che a noi resta, inevitabilmente, invisibile.
Restano, certo, delle file di perle e dei singoli diamanti - l'elzeviro, si sa, è anche incline all'aforsima (anche di questo a volte abusa) o alla riflessione brillante: le irresistibili e molto newyorkesi avventure dell'uomo di mezza età alle prese con la psicanalisi e i suoi soloni; le fantasie di bambini con amici immaginari già troppo presi dalla vita per giocar con loro; i ricordi di una memorabile serata al Village Vanguard di cinquant'anni fa; le vicende di un pesce rosso e di una squadra di soft-ball di ragazzini e il suo allenatore malato di cancro in Central Park. Il jogging mattutino/serale di padri di famiglia attorno all'Onassis Reservoir, condito da riflessioni scandite dal passo. Lo sviluppo diacronico di Times Square, da luogo decaduto (come tutta la città) negli anni '70 e '80, ventre molle e ricettacolo di tutto ciò che è sordido, a salotto buono ad uso quasi esclusivo - vale per gli autoctoni, bontà loro - della novella ondata di bambini che popola la penisola, e della borghesia high-tech di tutto il mondo, in pellegrinaggio estatico alla ricerca di luoghi mitizzati e da cartolina, quando va bene di ricordi di bohème.
Quanto all'aforisma, magari un po' diluito, qualche esempio:
New York riduce il confortevole all'ansioso, l'ansioso all'indigente, l'indigente al criminale e solo il vero ricco trova un reale conforto.
La saturazione d'impegni è la nostra forma d'arte, il nostro rituale civico, il nostro modo di essere noi.
New York esiste al tempo stesso come una città di simboli e associazioni letterari e artistici, e come una città di cose reali [...] una città di sogni eccentrici e di realtà che disilludono.

E molti potrebbero essere gli esempi. Ma non importa, il libro è lì; chi può aver la pazienza a volte di esser sconfitto lo prenda in mano: perché più che tutto, leggendo Una casa a New York si ha l'impressione di girare freneticamente intorno all'autore, alla ricerca speranzosa di un punto di contatto che significa che quella cosa la conosciamo anche noi, che l'ombelico del mondo ha lasciato che affondassimo dentro di lui, almeno per quell'aspetto: se ad esempio riuscitre a capire cosa l'autore esattamente intenda quando dice che "intorno alla fermata del bus esiste una zona in cui è lecito salire, estesa un metro e mezzo o due, nota esclusivamente all'autista, il quale apre e chiude le porte nel momento in cui, rispettivamente, percepisce la comparsa e la scomparsa della zona"; se questo vi succederà, dicevo, vi sentirete una calda soddisfazione che vi riempie il petto, e il trionfante senso di contatto & condivisione vi riporterà a calori amniotici - tutto sommato, un'esperienza piacevole.
Altrimenti, è tempo di tornare (spero per voi che non sia: andare) a New York.

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