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maggio 30, 2012

COSMOPOLIS, David Cronenberg

Un Cronenberg disciplinato, lineare e (più o meno) teso nell'inseguimento di un filo logico. Era così anche nel precedente A dangerous method (e ancor prima, in History of Violence - sono non solo cronologicamente lontani i tempi di Spider e, soprattutto, de Il pasto nudo!). Restano, trait-d'union al bagaglio consueto del regista canadese, il pessimismo e il mostrare la desolazione e il vuoto letale del nostro mondo. 
E che cosa può dirsi migliore, per i nostri giorni, per mostrare al suo massimo quel vuoto e quella desolazione, di una telecamera che si posa su quella che un tempo fu baldanzosa new-economy piena di speranza (?) ed oggi è - forse, ché nemmeno di questo si può esser certi! - solo caos e caso, bolla ormai scoppiata e dissolta, piena come si è rivelata di capriccio miliardario, immancabile ingiustizia, folle gioco fine a se stesso? 
Le 24 ore di Eric Packer, che decide di andare a farsi tagliare i capelli all'altro capo di Manhattan (Hell's Kitchen, quartiere di ricordi infantili e innocenza perduta - ma davvero nessuno ha notato la seduzione "Orsonwellesiana": Rosebud!), attraversando a passo d'uomo, chiuso non solo metaforicamente nel suo mondo di lusso, silenziato e separato, costruito sul nulla, incomprensibile a 360° (come incomprensibile in quasi tutti i sensi è la crisi che stiamo vivendo e che continueremo a vivere), sono una discesa nel niente immobile e autoreferenziale di un mondo costituito dalla sinistra e vuota unione di capitale e tecnologia, asserviti (?) per soggiogare e fortificare, o semplicemente perpetuando quel binomio - e, verrebbe da chiedersi, i due termini sono veramente asserviti a qualcuno o sono essi stessi padroni che mietono schiavi? -  o mettendo in moto catene di eventi che ci si illude di poter controllare sempre e comunque, perché tutto a un suo posto e tutto deve essere dominato, fino a scoprire, in una correlazione fra io e tu, fra corpo e mondo che già di per sé sarebbe invece significativa, che ci può esser sempre qualcosa che ci sfugge e non si immagina: la prostata asimmetrica, il crollo dello yuan. Una vita, un'altra, al di fuori di logiche (quali logiche?) che non siano accumulo autistico,
E anche l'incomprensibile - inteso sia come linguaggio cinematografico che come contenuto e messaggio veicolato - diventa giustificato e tutt'altro che fuori posto. Idem per la scelta dell'attore (l'inespressivo - ma qui a buonissima ragione - ex vampiro insulso di Twilight, Robert Pattinson) che si rivela più che azzeccata e felice. Tralasciando Paul Giamatti che, be', è sempre Paul Giamatti e vale di per sé il prezzo del biglietto.
Gran merito a Don DeLillo (era il 2003!) di aver previsto tutto questo, anche nei minimi dettagli (si veda alla voce Occupy Wall Street, ad esempio), anche in quelli più di colore (la torta in faccia che si è preso Murdoch nel 2011): Cronenberg prende pari pari il romanzo breve dello scrittore statunitense (solita scrittura densa e protagonista di per sé) e lo traspone in sceneggiatura, copiando spesso anche i dialoghi. Qualcosa si perde, qualcosa salta (qualche dato in più su Benno Levin-Paul Giamatti), ma che tensione che riesce a costruire nella sequenza finale, in attesa di uno sparo...