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febbraio 21, 2011

IL GRINTA (True Grit), Joel & Ethan Coen

Immaginate di vedere questo film dalla grande atmosfera, dai campi lunghi e dalla musica lenta e suggestiva con l'audio che miagola pesantemente, e il tizio addetto al proiettore che a un certo punto decide di aprire l'oblo e far sentire alla sala il rumore del medesimo, con in più la sua risposta al walkie-talkie che porta alla cintura - "ok, va bene arrivo, ci penso io, ricevuto".
Immaginate che per superne ragioni, qualcuno decida di inzepparci anche l'intervallo, riempiendo 8 lunghi, lunghissimi minuti con un pesantissimo pippero che fa il verso (male) a Carosone. L'intervallo, oggi, si origina e risolve in due tagli bruti alla pellicola, col film che quindi interrompesi di brutto, quasi fosse un guasto, e riparte alla stessa maniera, talché lo stolto - ma sól quello - potrà dire: "però, bravi questi, han già risolto il guasto!".
Potreste dire, alla fine, di averlo apprezzato?
E invece.
Sì, eccome: perché il remake di un film del 1969 di Barry Hathaway (True Grit) con un semi-vecchio John Wayne già malato e proprio con questo film vincitore dell'unico suo Oscar in carriera, è un'operazione così riuscita e compiuta che su queste cose passi sopra a corsa, e magari approfitti dell'intervallo per andarti a prendere il pop-corn che i tizi di cui sopra mettono a ricompensa (a titolo gratuito, sennò col cazzo!) delle tue sopportazioni.
Western già di un filone crepuscolare - quindi che fa di suo a meno degli adamantini cow-boy tutti d'un pezzo, rudi e dalla parte del giusto, senza paure e realismo alcuni - viene reso in direzione più di un romanzo picaresco che altro, evitando così al tempo stesso l'omaggio tra lo struggente l'ironico e il realistico (inteso nel senso più quotidiano del termine, maiali che scappano nel fango, eroi che salgono male a cavallo, bounty-killer miopi, etc.) che allo stesso tema aveva riservato il più grande regista ad oggi (che Dio o chi per lui ce lo conservi) Clint Eastwood, in Unforgiven.
Tornando al nostro caso, in altre parole: si prende un genere defunto e ampiamente dimenticato e gli si rendono un'ora e cinquanta di onori, con la consapevolezza che al termine di tale tempo il genere, un po' attualizzato e contaminato, tornerà sottoterra buono buono. Ovvi e dovuti, anche i garbati consueti omaggi, primo fra tutti il treno che arriva in stazione con l'inquadratura che si perde pateticamente in lontananza (C'era una volta il West - non si potrà mai evitare un omaggio a Sergio Leone, uno che già il genere l'aveva contaminato col genio). Dite voi il resto, tanto sarà sempre questione di due o tre nomi.
La ragazzina quattordicenne (Hailee Steinfeld, candidata giustamente all'oscar come attrice non protagonista) incarica un cacciatore di taglie (Jeff Bridges-Drugo Lebowski riciclato in versione ciclope inanzianito, seduto sghembo sul suo cavallo - magnifico) un po' cialtrone di prendere l'assassino di suo padre, salvo poi partecipare in prima persona all'impresa. Mirabili, sempre sul filo di un ironia tutt'altro che di genere, i dialoghi tra i due, e molto "Coen" le scene eccessive e grottesche in cui si trova immersa senza uno spavento - e quindi nel solito possibile difetto di verisimiglianza, solo che è sempre qui che la magia costante dei Coen sprigiona: a loro questo non si può mai imputare, vedere (qualsiasi cosa) per credere! - la protagonista, sullo sfondo di un Vecchio West che si dà un po' più struttura e concretezza rispetto al solito saloon e sentiero polveroso.
Fin quando arriva il dottore in pelle d'orso: e il disegno ormai si compie, c'è anche il loro tocco di follia - il trio di messicani che sveglia Josh Brolin in No Country for old men, il suonatore di cornamusa in Intolerable cruelty, e via così, ricordando certo volentieri l'indugio sublime in questi luoghi di Burn after reading ("che cazzo di casino...") - e uno si siede più comodo e si ripete: sì, son proprio a vedere un film dei Coen! Dovrei forse essere da qualche altra parte?
L'assassino è Josh Brolin, dimagrito 20 chili dall'ultimo e frettoloso Woody Allen; la spalla buona (ranger del Texas "sempre ardimentoso", a rappresentare - lui sì! - la stagione d'oro del western classico) è Matt Damon; il capo della banda con cui si duella in Gran Finale è Barry Pepper, che da un po' non ritrovavo - ed era gran peccato, per quanto lui magari possa bearsi d'altra scala di valori che non quelli che suggerisco io: signori, il cast è servito, si potrebbe chiudere.
Da vedere assolutamente, financo non amando il filone, beandosi anche soltanto di una caratterizzazione del malvagio assai meno manichea di quanto i canoni di genere - e ahimè non solo quelli: è la norma ad uso delle masse - potrebbero far pensare: ben che vada i criminali sono assennati e trattabili, diplomatici (Pepper); male, dei ridicoli idioti che fan le bizze (Brolin).
E proprio in questo si noti, ad ancora maggior merito, come i registi abbian mostrato un nuovo aspetto del concetto di male, dopo ad esempio la fredda e gratuita ferocia distaccata della coppia Buscemi-Stormare (Fargo), l'intrigante avidità di Emmet-Walsh (Blood Simple) e - potevo non lasciarlo per ultimo? - l'ossessione patologica ed agghiacciante di Berdem (No contry for old men). Il tutto, naturalmente, a ricordare che le cose son sempre un po' più "mosse" di quanto si vorrebbe - uno dei motivi, tra l'altro, per cui è sempre tutto così dannatamente difficile.

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