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novembre 26, 2007

BEOWULF, Robert Zemeckis (II)

IO SONO BEOWULF, E TUTTO IL MIO ESSERE GRIDA VENDETTA! (II parte del post a latere  (a latere?) diviso in due - su consiglio del mio amico invisibile, Enio Gambacciani, anni 43 portati alla bersagliera, professione reporter sì, ma di rametti lanciati per diletto & svago - acciocché anche i vieppiù stolti siano in grado di apprendere & migliorarsi, quantomeno nell'arte del turpiloquio e della vana, vanissima ciancia)

...ragion per cui si può benissimo capire si possa preferire un bel filmone pieno di cazzotti & asce, maledizioni arcaiche, oggetti apotropaici e sempiterne & mitiche lotte fra il bene e il male, col male che alla fine perde però prima seduce & attira parecchio perché come spesso succede è rappresentato da una bella fica; un bel filmone quale quindi è BEOWULF di Robert Zemeckis, leggendaria storia del re di Danimarca Barbacane II (Antony Hopkins passato - male - a Poser 6), che siccome c'aveva il regno infestato dai malvagi Topi™ a seguito d’una antichissima maledizione, chiamò l'avventuriero BEOWULF (in antica lingua vichinga, colui-che-attraversò-le-acque-cor-un-bicchierino-sul-capo) acciocché glieli distruggesse tutti. Arrivato lì, BEOWULF non trovò di meglio da fare che spodestare il re a mazzate (si sa, i vichinghi son gente rude; semplice ma rude), e distruggere i Topi™ fino ad arrivare a parlamentare col capo di essi, la Topa™. Ovviamente, questa, in virtù di chissà quale incantesimo, si mostrava fittiziamente sotto l'aspetto di Angelina Jolie scannerizzata, mentre in realtà era Cristiano Malgioglio, il male assoluto. BEOWULF (in antica lingua normanna, invece, colui-che-mi-pisciò-sullo-zerbino), pur essendo forte, robusto, duro e in tutto e per tutto integerrimo, fu ottimo esempio del noto detto “tira più un pelo di fica, etc. etc.”, e ci cascò come un cieco in campagna potrebbe zompare nella merda di vacca (ma del perché un cieco debba comunque andare in campagna non ci è dato sapere). Insomma, BEOWULF (in antica lingua finnica dai-oggi-dai-domani-prima-o-poi-anch'io-m'incazzo) glielo porse e glielo riporse (anche dietro, pare), finché la Topa™, esasperata (era venuta per governare il mondo, lei), non gli mostrò il suo vero volto. Così BEOWULF riprese in mano la MAZZA® e, un tantinello (comprensibilmente) esacerbato dall’errore/orrore, fece fare la più meritoria fine all'orrido mostro, partorito dal regno delle tenebre di LOKI (il re dei loti nella mitologia nordica, rappresentato sottoforma di serpente incazzoso che cerca di vendervi sovrapprezzo un bei tre etti di loti peccato siano ancora acerbi e li mangiate tra quattro mesi, quando tutti gli altri son lì che sgranano i cocomeri – d'altra parte in questo sta la malvagità, sennò era gentile). Però il mostro non può morire, no. E allora alla fine del film (perché BEOWULF alla fine muore, muore con tutti gli onori) esce fuori dalle acque, sempre con le sembianze d’Angelina Jolie a poppeculodifòri renderingata e lo spettatore attonito sa già che tenterà il suo già fidato quanto savio consigliere, MARIO (in antica lingua runica colui-che-era-tanto-fidato-poi-vide-un-po’-di-fica).
Il film è realizzato - se non s'era capito - con l’avveniristica (?) tecnica modello Pentium III con qualche scatto causa Voodo-3D piantata, sistema a mezzo del quale era già stato (perché? Perché? Perché?) realizzato – dallo stesso regista, che quindi è recidivo – Polar Express, il film che ti faceva dire: non basta che ci sia Tom Hanks ovunque e faccia cacare la storia, deve pure esser mostruoso com’è fatto. Ma che cazzo gli è venuto in mente? Be’ teNpi, quando c’aveva Doc e Marty McFly e Beef e Cane Pazzo Tannen, ora fa i film pare Mafia, ma che si potrà? Poi dice uno s'incazza.

novembre 24, 2007

UN'ALTRA GIOVINEZZA (Youth Without Youth), Francis Ford Coppola, e... (parte I)

IO SONO BEOWULF, E TUTTO IL MIO ESSERE GRIDA VENDETTA! (I parte - post in due parti rigorosamente divise nel rispetto della più piena equità ed equilibrio bembesco - un cazzo, speriamo muoja lui e le prose della volgar lingua, non fosse che è già morto secoli & secoli orsono. Bene, diobòno) 

…si potrebbe dire una volta usciti da vedere Un’altra giovinezza di Francis Ford Coppola, in cui un semiologo rumeno anziano e toto coelo rincoglionito viene colpito da un fulmine e ritorna giovane, mentre intorno infuriano venti di guerra e il Terzo Reich (ma va’? c’hanno fatto videogiochi, libri di fantascienza, storielle péi biNbi, ti pareva che non ci scappasse anche qui?) tra le altre simpatiche attività cerca di creare un superuomo e per questo non si lascia certo scappar l’occasione di rapire e utilizzare ai suoi turpi scopi il malcapitato, tramite l’immancabile spia-topone in culottes nere di pizzo, la quale per rapirlo (?) lo tromba e lo ritromba, nemmeno gliel’avesse detto il Casalieri di Berlinguertivogliobeniana memoria, be’ mi’ tempi cari Cioni & Bozzone, altro che oggi come oggi: un tempo, la fica gli’era la meglio cosa che c’era in Italia, oggi come oggi, secondo me; altro che cazzi. Il malcapitato in questione, comunque, dal fulmine, oltre ad un’altra giovinezza ha avuto in dono la capacità di capire tutte le lingue, presenti e passate e la capacità di leggere i libri passandoci sopra la mano. Nel caso, il libro s’illumina di luce azzurrina, e lui – magia delle magie – sa quel che c’è scritto. Sai quanto può essere utile uno così all’impero nazista? Vede, mein Führer? In questa preziosissima fonte del IX sec a.C., l’antica quanto misteriosa civiltà proto-indeuropea, sosteneva questo questo e quest’altro. Bravo, Tim Roth (l’ho detto che l’anziano semiologo è Tim Roth?)! O distruggiamo tutto ora, va’, tanto per non perdere l’abitudine. Per stasera leggimi tutti que’ libracci decadenti & borghesi che son stati scritti dal ‘700 in poi, che poi me li racconti e si decide quali bruciare, senza che si stia a scomodare Goebbels che c’ha sempre tanto da fare, povera stella.
Inoltre, sempre tramite il fulmine, Tim Roth ha avuto in dono un doppio, che pare uscito direttamente dal Pasto Nudo di Cronemberg/Burroughs: appare quando cazzo gli pare, fa le facce cattive e dice cose senza senso. Ogni tanto dona 3 rose al suo alter ego buono. Uno non ci capisce un cazzo, esattamente con nel Pasto Nudo di Cronbemberg, aspetta per un po’ che qualcuno nomini l’interporto o che una macchina da scrivere-ragno mostruoso si animi, e poi assiste all’immancabile resa dei conti col dottore-pazzo nazista venuto a prelevare Tim Roth. Il quale si salva perché la spia-topone in culottes nere di pizzo, si frappone tra lui e il colpo di pistola sparato dal dottore-pazzo, frustrato nell’animo sensibile perché Tim Roth era alquanto riottoso riguardo al seguirlo, nonostante il dottore-pazzo gli avesse promesso le caramelline alla banana. È che la spia-topone s’era inevitabilmente innamorata di lui, ormai – il che ci fa supporre che, oltre alla capacità di comprensione di tutte le lingue & lucentezza della mente, il fulmine avesse dato a Tim Roth anche una considerevole verga virile. Tra l’altro, quando carnalmente lo conosceva (mentre un disco dell’epoca andava sul grammofono - così, per fare atmosfera), la donna gli parlava ora in russo, ora in polacco, ora in sardo, e lui capiva sempre, e rispondeva a tono. Sicché lei riferiva al comando nazista e loro capivano che questo sapeva un sacco di cose ed era un super-uomo (?). O lei, allora, non era una super-donna? In più c’aveva anche la fica! Sarà meglio di Tim Roth? Bah, misteri del Reich…
Prima di dar la stura al secondo teNpo, si badi inoltre che ai tempi della sua effettiva giovinezza reale, il semiologo stava lavorando ad un’opera che voleva scandagliare il linguaggio fino ad arrivare alle sue fonti primarie, andando per questo a ritroso fino a tempi sconosciuti, civiltà sconosciute, idiomi totalmente nuovi e perduti. Nel frattempo, il tizio aveva anche una ragazza, una graziosa troterella di – forse – 23 anni, dalle belle pose nonché poppe. Ella, veduta la mala parata (un po’ va bene, poi chi cazzo se ne frega di che lingua parlava la civiltà pre-iraniana; che s’ha a chiavare un po’?), decide di lasciarlo. E lui non si riprende più, fino alla vecchiaja, e il libro in questione non sarà mai completato. Il fulmine dunque capita a fagiuòlo (ma tu guarda che culo!): e Tim Roth tornato giovane si rimette tosto all’opera.
Vi basta? No, perché c’è il secondo tempo, in cui son passati molti anni e in cui Tim Roth che fa trekking (?) incrocia una jeep con un’anziana signora alla guida e una ragazza accanto, le quali si fermano per chiedere indicazioni (che vo bene per Mengarone Paderno? No, fai inversione, è la seconda a destra, davanti al corniciajo Ciapetti & Nepote snc). Il semiologo riconosce, reincarnata, la sua vecchia fiamma. La Jeep riparte ma – dopo poco – drammone! Un  altro fulmine. Stavolta colpisce la jeep; Tim Roth è il primo ad arrivare sul luogo del disastro: la vecchia è crepata (cazzi sua, era già vecchia – bella parte che fa, leilì); la giovane è in un fosso, parla sanscrito, si crede una sacerdotessa indù di svariati secoli avanti Cristo, a nome Ru-Pini (probabile specialista nell’arte dei, ma questo non ci vien mai rivelato). Tim Roth è l’unico, ovviamente, che la capisce.
I dottori studiano il caso (del precedente nel frattempo s’era persa ogni memoria), e tramite l’insostituibile aiuto di Tim Roth si decide di far venire un paio di orientalisti di chiara fama. L'anziano è l'assistente del giovane, ma vabbè, ormai questo si può anche lasciar passare, fosse il mal di questo. Tramite loro (l’università sì che c’aveva i fondi, ai tempi!) si decide di ricondurre Ru-Pini nel suo territorio, in Nepal, dove dice lei si ricordava stava meditando in una caverna. Lì riconosce il luogo, e come per magia si risveglia e torna ad essere la ragazza della jeep. Nel frattempo i giornali si sono scatenati, su temi quali reincarnazione e vite precedenti. Tim Roth, che le è sempre rimasto accanto, si innamora, ricambiato, di quella che un tempo era forse la sua vecchia fiamma e insieme fuggono a Malta (giuro, non mi sto inventando nulla). Lì, trombano allegramente, lontano da tutto e tutti, mentre lui continua a lavorare al suo libro. Ma il tegamello è tutt’altro che guarito: la notte delira, e forse spinta dall’amore per Tim Roth (chi non amerebbe Tim Roth?), si reincarna a ritroso in vari personaggi di epoche sempre più lontane (sì, si riparte da Ru-Pini, maestra dei pompini), padroneggiando, nel delirio, la lingua e i costumi di ognuno, permettendo all’amato bene di comprendere effettivamente le varie fasi dell’evoluzione del linguaggio e proseguire il libro, lasciandosi alle spalle l’inevitabile impasse, causa le limitate capacità umane. Così si arriva fino a civiltà arcaiche e misteriose, finché ci mancherebbe proprio l’ultima, quella da cui tutto ha avuto origine, prevista per quella notte. Ma la cosa non è senza conseguenze: di notte viaggia nel tempo, di giorno la signora avvizzisce. Ormai dimostra settant’anni, anche se ne ha ventitre. Tim Roth capisce che è colpa sua, e che un’altra impersonificazione la ucciderebbe; quindi le confessa il suo segreto e le dice addio, l’unico modo – dice lui – per farla tornar giovane e liberarla dall’incubo. Indi gira un po’ qua e un po’ là, ha modo di rivedere – non riconosciuto –  lei scendere da un treno, tornata giovane, con due bambini (parla francese, ora); e poi decide di tornare  in Romania, dove prende dimora in un albergo, discute e scaccia il doppio, torna vecchio, rivede i suoi soliti amici, decrepiti anch’essi, nel solito bar che frequentava quando era giovane, e poi tornando nella sua stanza muore di freddo. Il cadavere è giovane, e in mano reca una rosa. A nessuno gliene frega un cazzo, del morto. E riparte una stucchevole musichina anni'40, e tutto ha - seddiovuole - termine.
E questa cosa l’ha fatta FrancisFord Coppola, quello de Il Padrino. Poi dice uno s'incazza.

novembre 05, 2007

NICK CAVE, E l'Asina vide l'Angelo (And the Ass saw the Angel)

(GENTILMENTE (IN REALTÀ CON FRODE & INGANNO ACUTISSIMI, ET A FRONTE DI PROMESSE DI MULIEBRI DELIZIE CHE TAMPOCO MAI RISCUOTERÒ, ESSEND'IO NULLA PIÙ CH'UN'ENTITÀ FITTIZIA E DEL TUTTO BURLESCA ET IMAGINARIA, CASOMAI ISTITUITA A SCOPO DI DILETTAR IL PROSSIMO TUO COME TE STESSO E A VOLTE ANCHE PEGGIO), DICEVO: GENTILMENTE RICHIESTOMI, INDOSSO UNA VOLTA DI PIÙ I PANNI DI DOTTOR MERDA, E LORDANDOMI ANZICHENÒ DELL'OMONIMA MATERIA VADO TOSTO A RECENSIRE IL SUMMENTOVATO PRODOTTO D'INTELLETTO)

Linguaggio e immagini potenti ed apodittici, a metà fra un’idea di vecchio testamento e un visionario rocker d’antan, quale appunto Nick Cave si troverebbe anche ad essere. Però, ciò che funziona in una murder ballad, o comunque sia nei lyrics di una pur ottima produzione di canzoni, non è detto funzioni sottoforma di libro, vale a dire in un terreno che imporrebbe quantomeno un filo più preciso e meno sedotto da lirismo deviato e visioni deliranti, crudeltà efferate e follia a go-go. Per tacere, poi, di un io narrante gratuitamente ondivago e bizzarro, che non si giustifica altrimenti se non coll'autocompiacimento verso forme di incomprensibilità e oscurità scambiate - spesso, nel rock - per poesia. Il prezzo da pagare, in caso non si tenga conto del differente mezzo con cui ci si sta misurando, è giungere ad un prodotto assai fine a se stesso, compiaciuto nelle crudeltà e nella vicenda - vicenda letteralmente seppellita sotto il peso di un immaginario che vorrebbe essere mitico ma spesso riesce soltanto un po’ pesante. Un eccesso di gotico, o se vogliamo un eccesso di assolutezza crudele pseudo-mitologica: non c’è un tempo definito (sono gli anni ’40-’50, ma la cosa si rivela nulla più che un dettaglio), gli abitanti della valle sono completamente fuori dal mondo esterno, né leggono giornali né sanno nulla della vita intorno. L’ignoranza e la superstizione regnano sovrane, e su tutto s’impongono le riflessioni deliranti e ricchissime quantomeno in lessico di Euchrid il muto, alternandosi col racconto (suo o - come dicevamo poco sopra - di chissà chi altro) di episodi efferatissimi compiuti dagli abitanti, in un’ignoranza che il medioevo al confronto era nulla. Un gotico-barocco-horror-rock, insomma, in cui tutto può essere giustificato (a niente vale chiedersi, di quando in quando: "perché?"), dal realismo crudo al rivolgersi verso il lettore, più o meno alla fine del libro, in un'invocazione che - semplicemente - a quel punto proprio non ci sta.
E la cosa finisce per rivelarsi un po’ troppo pretenziosa: nel voler alzare quel tipo umano simbolico a paradigma del tipo umano di sempre (l’umanità è malvagia, disprezzabile, pronta a credere e infiammarsi, sempre con isteria e delirio); nel voler ingigantire il tutto nell’aura del mito, si viene ben presto a perdere la reale dimensione del testo, il quale paradossalmente resta “un sogno d’atmosfera – un ghirigoro senza storia né trama definita”, per usare le parole dell’autore stesso (p. 277), quali miglior suggello a un’operazione che dopo un po’, stanca. Ragion per cui vi dico (oltre a mandarvi in culo, come di prammatica):
Leggete qualcos'altro.
Nick Cave (nemmeno tutto, a dire il vero - le mitizzazioni a prescindere son degli idioti, o dei sedicenni) ascoltatelo, ne vale più la pena. Idem varrebbe per Capossela, ma questo - ciò il tamarindo sul fuoco, s'abbia pazïenzona - è altro discorso, altra storia, altro ballino di cazzate da scrivere per far finta di ingannare il bianco falsamente placido che - informe ma crudele - c'assedia. O anche no; cazzi mia; vi chiedo nulla, io?

giugno 06, 2007

A PROVA DI MORTE - DEATH PROOF, Quentin Tarantino

DEDICATO ALL'ing. FERRAÙ (iddio l'abbia in gloria)

Mi ricordo, sì mi ricordo che quando parlai di Kill Bill Volume I conclusi il tutto col chiedermi (a me, un bel domandone retorico tanto per far guapperia colta & sostenuta, che poi tanto lo so che non legge nessuno qui, quindi più che guapperia colta potrebbe dirsi anche necessità inevitabile & mysera): “ma tu porteresti tuo figlio a vedere questo film? No, cazzo, certo che non ce lo porterei. Non ho un figlio […] però IO non lo porterei a vedere quasi nulla di quel che danno, quindi il problema non può porsi…” ecc ecc.
Ecco. Così mi sono anche auto-citato e ora posso pure credermi assai importante & intellettuale e farmi un (metaforico) segone di gïoia. A tutt’oggi ancora non ho un figlio, e se lo avessi non lo porterei certo a vedere questo splatterone e tantomeno nient'altro o quasi di quel che danno, nemmeno – cazzo, cazzo e stracazzo – Un ponte per Terabithia che sennò come minimo mi chiede di entrare negli scout, dopo. Meglio la zoppia, sapete. Comunque sia.
Comunque sia, ah che bellezza Tarantino che torna col suo quinto film (considerando Kill Bill un tutto unico & indivisibile, e non considerando invece Sin City, in cui pure aveva più che una consulenza, alla fin fine) ancora più sgangherato e caciarone del precedente, un omaggio – in tutto e per tutto: si pensi ai salti di pellicola, i fruscii, il montaggio “strappato”, i cambi repentini bianco e nero/colore – ai b-movies che ci garbavano tanto, al Tarantino già commesso di videoteca, sì da fargli dire poi a Cannes una delle verità più marmoree che abbia sentito negli ultimi anni: “il cinema italiano? Schifo; meglio quello dei b-movies anni ’70 che quello di oggi”. Sette minuti di applausi ideali, da parte mia.
Che poi, dicevo, Cannes. Cioè, capite? Tarantino è andato a Cannes con questo filmone tutto inseguimenti in macchina e vintagismi (si dirà vintagismi? Di sicuro no, ma finché vive Briatore e ci sono i master io dico un po’ il cazzo che mi pare) e schizzi di sangue e incongruenze nella sceneggiatura e via così, e pare pure di vederlo sghignazzare, di fronte a cotanti CULTURONI® colla barba e incravattati, tutti intenti a trybutar dieci mEnuti di sodi applausi all’ennesimo italico polpettone melo-lagrimevol-elegiaco, o alla solita pretenziosa e lambiccatissima riflessione ossessivo-estremorientale su qualche aspetto del sesso tipo sfrucugliare torridamente una con un cocomero aperto fra le gambe, o sfrucugliare torridamente il cocomero che tanto è uguale se non meglio, di sicuro più perverso & controverso e quindi degno di nota intellettuale. Viva Tarantino, sicché. Lui si presenta a Cannes con Death Proof, e una sceneggiatura (come per Kill Bill - assai più che in Kill Bill!) che per un po’ vede una la storia svolgersi (o pare insomma, chi lo sa) negli anni ’70, e poi d’improvviso si ritrova ai giorni nostri e poi si chiude di botto, come se a un certo punto avessero finito – poteva succedere anche quello, nel genere! – i soldi e dovessero troncare in fretta e furia il film. Già, il finale. Ah, il finale, CHEBBELLO! Ma dicevamo: è il tipo di film a cui si può perdonare tutto, per mille e più ragioni – le stesse di Kill Bill, tra l’altro: “si parte da uno stato di cose su cui non ci può esser nulla da obiettare e poi ci si getta una manciata di pepe […] e si fanno succedere un sacco di cose, coi personaggi come figurine. Già, i personaggi: nemmeno su di loro […] c’è un minimo approfondimento caratteriale. Ed è perfetto così: puro intreccio, mettendo nel calderone sempre più ingredienti grezzi”. Toh, mi son ricitato, piglia incarta e porta a casa. E porta sei. Ma come son bravo.
Alla fine dei conti: anche nell’ambientazione – Austin, Texas – più Lansdale (La notte del drive-in, molti racconti), che Elmore Leonard (e del resto l’esperimento di tradurre in cinema il suo idolo Leonard, Tarantino l’ha parzialmente cannato con Jackie Brown - a quando il tentativo con l'altro suo idolo letterario, Charles Willeford?) e un “modo, indecente e irrispettoso, giocoso e euforico, femminista e «cannibale» di amare e di fare arte con il cinema” come ha scritto Silvestri su Il Manifesto (Mereghetti sul Corriere della Sera ha aggiunto pure della “radicalità della regia, […] che sembra cancellare la sceneggiatura per seguire solo lunghissime e confusissime discussioni tra donne, spezzate all'improvviso da gratuiti inseguimenti in auto, senza mai spiegarne le ragioni”). I difetti ci sono eccome, sì. Ma contano poco. Eccetto quelli che son spuntati dopo. Già, perché Death Proof ha una storia particolare alle spalle, e io ora ve la dico giacché sono infinitamente buono e infinitamente meglio di una spinta sulle scale o un film con la Morante o Scamarcio. Originariamente distribuito in USA sotto il titolo di Grindhouse (nel trailer originale c'era la spiegazione del termine, da vocabolario, esattamente come avveniva all'inizio di Pulp Fiction. Nel caso, comunque, eccola qua: da Grind, Triturare, Macinare; House, casa, abitazione. Grindhouse è il cinema dei sobborghi americani dove negli anni '70 venivano proiettati, al costo di un singolo biglietto, più film uno dietro l’altro. Abitati e frequentati per lo più da gente di malafede, prostitute, ladruncoli e piccoli spacciatori, proiettavano splatter, film a basso costo, o più genericamente quelli che oggi chiamiamo b-movies), si componeva, dicevo, di due episodi slegati e indipendenti, di circa 85’ ciascuno, inframezzati da quattro falsi trailer di altri registi. Uno degli episodi – Death Proof appunto – era firmato Tarantino; l’altro – Planet Terror – Robert Rodriguez, il regista (co-regista) di Sin City, Dal tramonto all’alba e tutte quelle cose lì, insomma. Però poi 85 minuti per due fa circa 170-180 minuti. I geniali produttori europei, sulla scorta anche – ok, give Ceasar, etc... – del flop negli USA, hanno avuto la pensata: si dividono i due film (Planet Terror pare esca a fine luglio, tanto per incrementare l'incomprensibile tradizione "tempo d'estate, tempo di horror"), si fa aggiungere e rimpolpare delle scene, si fa due incassi invece di uno e si va in culo e porto sei. Bravi. Applausi. Però poi il tutto ha delle conseguenze, eccome. Il Death Proof  “europeo” dura mezz’ora in più, e i dialoghi tra le troie (ops, le attrici – ero entrato nello spirito del film) son troppo lunghi, e non sempre sono ispirati tipo Le Iene o Pulp Fiction. E si sente che sono un po’ posticci, a volte. Ma cazzo gliene fregherà a loro, che così fanno due incassi?
Menzione speciale, ma ormai non fa più notizia, per la colonna sonora, per il cammeo del regista (si noti la foto/raccomandazione che ha alla cassa) e soprattutto per il consueto auto-rimando ai precedenti. Ad esempio: lo sceriffo e il “figlio numero uno”, sono gli stessi di Kill Bill vol. 1; sulla macchina gialla di Kim c'è l'adesivo Pussywagon, come sul pick-up dello stesso film;  Abernathy ("che cazzo di nome è?" - ahahaha) ha come suoneria il “Twisted Nerve” di Elle Driveriana memoria e via così, sai quanti ce ne sarà e quanti ne sfugge: si pensi che in Pulp Fiction, Mia (Uma Thurman) racconta a Vincent (John Travolta) di aver appena girato un pilota di una serie, su una banda chiamata “Le Vipere Assassine della California”. Meno male che c'è Tarantino...

aprile 19, 2007

CHICCO SFONDRINI-LUCA ZANFORLIN, A un passo dal sogno. Il romanzo di “Amici”

Orbene, merde: questo è uno dei libri più venduti in Italia, al momento. Mica bastavano, Faletti, Moccia o Melissa P. E a breve, il/i libro/i rivelazione su Vallettopoli (già c'è l'album di figurine...) 
Ecco qui:
Mattia ha due grandi passioni, due motivi che gli fanno stringere i denti e battere il cuore: la danza e Giada. La danza l’ha scoperta per caso, Billy Elliot della provincia lombarda [sì, posti tipo Spilamberto, o anche Paderno Dugnano - posti buoni per la spïanatoja, ve lo darei io Billy Elliot]: “Quando ballo tutto corre a mille, chiudo gli occhi ed è come se nuotassi nell’aria, non penso più a niente, mi vengono idee… rivedo amici d’infanzia… urlo come un pazzo” [oggesù, che ti cachi anche addosso per caso? Sia l'epilessia? Ti sei fatto vedere da uno bravo?]. 
Giada l’ha conosciuta nella scuola di “Amici”, lungo la strada verso lo stesso sogno [ma rifugiatevi nella droga, imbecilli]. L’ha notata che ascoltava l’i-Pod con la testa appoggiata al finestrino del pullman [i gggiovani c'hanno l'i-pod, e pure gli zaini Eastpack]. Certe volte però è così difficile far uscire allo scoperto i sentimenti, passare dagli sms alla realtà [cazzo, queste son frasi che fanno male!]. E Laura Pausini sembra aver capito tutto mentre canta: “Vivimi senza paura / che sia una vita o che sia un’ora…” [perché queste, fanno bene?]
Questa è una storia d’amore e di entusiasmo, batoste e soddisfazioni, amicizia e tradimenti, complicità e paura, fatica, pazzie, slanci [ma vaffanculo]. La stessa sostanza di cui sono fatti i vent’anni [ma speriamo morïate]. E lezione dopo lezione, sfida dopo sfida, Mattia scopre che sta imparando qualcosa, non solo come ballerino. [Che il cervello è un accessorio perfettamente inutile, oggi]

Siete un popolo diviso a metà tra l’orrore e il folklore. Ogni volta pensiamo che abbiate toccato il fondo, e invece cominciate a scavare... 
(Jerzy Sturovsky, produttore polacco?)

gennaio 15, 2007

IL GRANDE CAPO (Direktøren for det hele), Lars VonTrier

Allora, dunque: per vedere Il grande capo dovete immergervi nella pena e superar difficoltà. Perché è brutto? No, è bellissimo. Perché è un po’ “faticoso” a vedersi? No, scorre come bere un bicchier d’acqua. Semplicemente, perché è uscito in 39 copie in Italia. E l’hanno pure vietato (!) ai minori di 14 anni. Motivo: “la scena esplicita e chiaramente rappresentativa di un rapporto sessuale poco coerente con l’intero contesto narrativo e di carattere molto spinto e gratuitamente volgare” (ahahaha! – ma chi le scrive queste cose, la maga Ciappy?). 
Certo, poi il nuovo & untuosyssimo polpettone insipido di Gabriele Muccino (a questo punto, non c’è più niente da fare; possiamo solo sperare che muoja) sarà stato distribuito in 39.000, di copie; il trittico da ritardati Commedia Sexy-Natale a New York-Olé, si fa prima (e meglio) a non contarle; il film tutto-scoppy del nuovo James Bond o la serie di film-da-cassetta-natalizi (da Mi sono perso il Natale a Eragon, che qui in italia per esser fvrbi abbiamo affidato alla rydicolissima doppiatura milanese di quella trota-annunciagoal-messa-lì che è Ilaria d’Amico), idem. Teniamo presente poi che la nuova mostruosità gratuita & pretenziosa di Mel Gibson non ha certo subito divieti o similarî, giacché quella è arte somma (ok, parrebbe che sia stato vietato anche quello, ma solo a seguito di una lunga controversia, ricorsi & varie). Né il trittico da ritardati di cui sopra avrà scene di sesso, volgarità, linguaggio – tristemente, piattamente – osceno, come da consuetudine.
Sicché, Il grande capo, si diceva. Il grande capo lo trovi a qualche cinema d’essai di città più grandi, coi muri che cadono a pezzi e le sedie da tavolino del bar, magari pure pieghevoli. Nulla più che un maxi-schermo, e un palco col microfono abbandonato per terra, come se dopo ci dovesse essere il dibattito (magari c'era, son solo venuto via troppo presto). Fuori il biglietto te l’ha venduto uno che potrebbe benissimo essere anche il Casalieri, o comunque quello di “pòle la donna, oggi, perméttisi di pareggia’ coll’OMO?”. E che alla biglietteria vende pure i semi di zucca e le Brooklin’s al gusto liquerizia. Nel caso, non fatevi venire i lucciconi quando vedete dietro di lui le pubblicità della Prinz-Bräu e un par d'adesivi con scritto MildeSorte. Sta male.
Vuoi vedere un bel film al multisala, colle poltrone di ciniglia finissima e gli snecchini croccanti al gusto formaggio di capra anziana? Ma c’è WillSmith che fa il ragazzo padre che taaanti sacrifizî e poi ce la fa e diventa qualcuno (broker finanziario? Non era meglio consegnar la pizza a casa? Cacarsi in mano e prendersi a schiaffi?); c’è la torma di ragazzini che restano chiusi nel terminal dell’aeroporto e neanche uno viene risucchiato da una turbina dell’aereo; c’è la pletora di cartoni animati (regolarmente doppiati da qualche idiotissima starlettina della merdosissima TV, così poi il popolino dice sentilììììììì gaaanzo, è la voce di Elisabetta Gregoraci, ah ah ah; questo invece è Solange ah ah ah; nooo, questo è Minchio II del Grande Fratello!) scadenti e banalissimi però ormai ce n’è dieci ogni natale perché il meccanismo è iniziato e quindi non stiamo tanto a guardare alla qualità, te piglia un animalino fallo parlare e mettilo in mezzo a una qualche vicenda che faccia un po’ ridere e poi finisca bene, vedrai fai soldy.
Già, ma si diceva del grande capo. Il grande capo è un film grottesco e pieno di delirio, che uno si mette lì e ride assurdamente, perché l’autunno in campagna può esser molto soffocante, Gambini aveva teorie molto rigorose sulla drammaturgia e l’idea è Dio e se tu me lo dici io dico sempre di sì, e chi ci tira sempre su? Ravn, Ravn, Ravn!
Menzione speciale infine per la POVERA METTE! POVERA METTE! POVERA METTE!, e plauso assoluto&riverente alla sconclusionata genialità dell’idea, che come di consueto ci viene presentata nel modo povero, scarno e frammentato (ad esempio il montaggio, ma anche le scene stesse son quanto di più volutamente desolante ci possa essere) che chiunque abbia già visto un film di VonTrier conosce. E il tutto “dice” molto di più così, nella sua immobilità straniante, con i suoi colori piatti (il bianco e lo sbiadito, che già che ci penso non credo nemmeno sian colori) e i paesaggi smorti e solitarî battuti dal vento, che con un bell’affresco ricco, sfaccettato e psicologicamente curato tipo di Salvatores o Ozpetek. Toh, viva la myseria!
A Kristoffer (l’attore) – fantastico, anche se a volte parrebbe fare un po’ il verso a Woody Allen – la chiusa (idem: fantastica!) del film, con il monologo dello spazzacamino nella città senza camini, e la voce fuori campo del regista, didascalica & dimessa quanto basta, che ci (vi) prende per il culo, affermando in chiusura che “chi è venuto a vederci e si aspettava qualcosa del genere, ha avuto quel che si meritava”, alla faccia della critica che ormai associa(va?) VonTrier a un tipo di film cerebrale, intellettualoide et presuntuoso. Il che sarà stato anche vero – come dire: chi è causa del suo mal pianga se stesso, siamo anche onesti – ma certo non perenne od eterno. Plauso a chi ha deciso la dystribuzione sì frvsta; meglio far vedere a tutti Olé o anche Alla ricerca della felicità (e 'l budello di so' ma' - scusino, ma la rima m'obbliga, come direbbe l'ottimo Avviatura), con magari un bello zuppierone di croccantissimi popcorn al myrto lacvstre (o di brago).