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marzo 18, 2012

PETE DEXTER, Spooner

Giornalista prima ancora che scrittore (quando la scrittura per così dire "creativa" inizia con un trauma: 1981, circa una trentina di cittadini di un quartiere malfamato di Philadelphia - Devil's Pocket, anche il titolo, significativo, del suo primo romanzo - che sottopongono il giornalista, reo di averli offesi con un articolo su un fatto di cronaca avvenuto in quella zona, a un pestaggio che lo lascia in fin di via, condannandolo a una parziale disabilità e una serie di interventi chirurgici), Pete Dexter, nato a Pontiac (Illinois) negli anni '40, ci regala con Spooner il suo ottavo romanzo, direttamente dall'isola nella suggestiva zona del Puget Sound (una baia fra Seattle e Vancouver, nello stato di Washington). Si tratta di una sorta di autobiografia spuria, che mischia in modo piuttosto confuso episodi reali e di finzione, o - meglio - che parte da episodi reali e da lì si muove. Verso? Verso qualche tentennamento e qualche scivolone, con questa figura di Spooner che sfugge e non si fa propria, mai o quasi mai. Quel che stride è forse che l'autore vorrebbe una partecipazione del lettore - o forse non la vorrebbe affatto: ma non pare del tutto chiaro nemmeno a lui, in definitiva, come non del tutto chiaro pare la cifra stilistica da dare a Spooner. Si tratta di un eroe picaresco sempre pronto a cacciarsi nei guai, di un anti-eroe che sente irresistibile l'impulso verso il crimine o la contestazione, un Huckleberry Finn o un inetto assoluto, un giovane Torless, un individuo marchiato fin dalla nascita dal senso di colpa? Di un Jean-Jacques che fa le sue Confessioni, di uno Zeno che alla fin dei conti cade sempre in piedi? E non vale tanto il dire: non è nessun di questi, che in sé potrebbe essere anche un pregio. Perché è po' questo un po' quello, e forse il romanzo patisce un po' il continuo attraversar di confini, fra autobiografia (senza che per questo debba essere esatta o trasparente al 100% - quale autobiografia lo è?) e finzione: perché ogni volta i personaggi si ridefiniscono in una sorta di transustanziazione letteraria, smaterializzandosi da una dimensione per ri-materializzarsi nell'altra, e non è un caso - secondo me - se il momento migliore del lavoro di Dexter è l'ultima sezione del libro (la parte ottava, Whidbey Island), in cui ormai la scelta per l'autobiografia (di nuovo: senza che questo debba necessariamente significare una cronaca fedele della vita presente o passata del cittadino Pete Dexter, che pure rielabora nuovamente il tragico episodio del Devil's Pocket) è stata fatta, e questi scivolamenti un po' fastidiosi - in particolare, il personaggio che ne patisce di più è senz'altro lo sfuggente (suo malgrado) Calmer Ottosson, al pari anche della madre e gli anni d'infanzia, che soffrono di un tratteggio poco chiaro e confusionario  - non ci sono più. 
Lo stile dell'autore è ellittico ed originale, per così dire mosso, come già nelle altre prove, ma si ha la sensazione che le cartucce migliori siano state sparate (la migliore, senz'altro Paris Trout, romanzo del 1988, vincitore del National Book Award, da noi uscito in infelicissima e pasticciata traduzione con gratuita citazione conradiana acclusa; pessimo fu Train, pare sia ottimo The Paperboy, tradotto come Un affare di Famiglia - saprò dire quanto prima, casomai a qualcuno interessi) e a poco serva come collante il "sentire" di Spooner bambino e adulto, il suo senso della vita lungo tutta la stessa, una sorta di ansia costante, la "sensazione di venir risucchiato in un violento turbine, come se qualcuno avesse tirato l'acqua e lui stesse precipitando giù per lo scarico del gabinetto", la paura di perdere quello che ha conquistato (e che ha avuto come per caso, ma sempre con fatica - è forse tutta qui la contraddizione irrisolta di questo romanzo-autobiografia!), per cui "aveva sempre dato per scontato che qualunque cosa gli cadesse in grembo gli sarebbe anche caduta dal grembo, prima o poi". 
Interessante, certo: acute e pungenti alcune annotazioni, sicuramente il personaggio Dexter è un tipo decisamente originale (la carriera di pugile dilettante, il giornalismo, i fratelli più "svegli" e più "riusciti" di lui, etc), ma la sensazione del colpo mancato c'è. Eccome se c'è.

marzo 11, 2012

YOUNG ADULT, Jason Reitman

Alla fine si ricompone il connubio Jason (figlio di Ivan, mitico regista di Ghostbusters e tanto basta - oh: tutto il mondo è paese e niente ci possiam fare; comunque sia, siam fuori da ogni sospetto, si può ben dire per il caso: e anzi il figlio è onore e non onere per il padre - certo, acchiappa-fantasmi a parte!) Reitman e Diablo Cody, ex-spogliarellista di qualche paesino sperduto in Minnesota passata poi dietro alla macchina da scrivere con esiti freschi e frizzanti (Juno, felicissimo frutto del sodalizio di cui sopra), un po' convenzionali ma comunque apprezzabili per il genere (l'horror Jennifer's body), e infine nuovamente discreti, seppur lontani dal dieci e lode dell'esordio.
Al suo quarto film dopo due gioielli (Thank you for Smoking e, appunto, Juno - non saprei dire quale dei due più riuscito) e qualcosa di riuscito a metà (Up in the air, da noi uscito col titolo di Tra le nuvole, film che avrebbe dovuto consacrare definitivamente il ragazzo al di fuori del circuito del Sundance Film Festival, ma che a fronte di un'incisiva idea iniziale à la Coen, si annacquava nei fastidiosi manierismi facciali da piacione di George Clooney), Reitman recupera in pieno lo "spirito Sundance" - che sarebbe poi dire politically uncorrect, ritmo, anticonformismo divertito al di là di qualsiasi giudizio o moralismo, un pizzico di off-culture e underground, giovanilismo nel senso buono del termine (per capirsi: non nel senso in cui lo stesso concetto trionfa da noi) - e ci propone l'eterna opposizione metropoli-provincia (tradotto nei nostri confini: città-campagna), senza come al solito esser pro o contro l'una o l'altra, ma per  ricavare spunti acuti e brillanti da una situazione. Tant'è che alla fine, il divertimento ritmato rimane e un'amarezza molto autobiografica (della sceneggiatrice) si sente, ma non finiamo per parteggiare né per Mavis Gary (Charlize Theron, molto brava), ex-reginetta del locale liceo in (sterile) fuga dalla soffocante e monotona provincia, né per Buddy Slade (Patrick Wilson, un po' troppo di plastica nel suo dar corpo al provincialotto costantemente in camicia a quadri con maniche arrotolate e aperta su maglietta bianca) e tutto ciò che si trova a simboleggiare. 
La provincia pigra, chiusa in se stessa, con tutto ciò che nega e tutto ciò a cui lega; il poco, il niente, il limitato e il limitante; il sentirsi contenti con (quel) poco o il sentirsi morti dentro, vivendo senza un domani, inconsapevoli soldatini di un posto sul lago che "puzza di merda di pesce", in cui ciascuno è "grasso e stupido" a suo modo. E la grande città, Minneapolis - MiniApple nella terminologia un po' bifolca degli abitanti di Mercury, Minnesota, i quali hanno (si pensi!) un nuovo locale "fico" in paese - con le sue opportunità e le sue luci, la sua vita "ventilata" e piena di occasioni.
Di fatto, due ragioni diverse della solita infelicità - perché l'infelicità ce la portiamo dentro, non è fuori di noi né si può legare a un posto piuttosto che ad un altro, né - tantomeno - nasce dal bersi le solite birre al solito bar ogni benedetta sera, ripensando ai tempi d'oro del liceo, piuttosto che vedere e vedersi più cool in uno dei tanti locali più raffinati della grande città - da una parte limitazione, dall'altra solitudine. 
Non conta dove siamo né si fugge da noi stessi, se noi stessi siamo personaggi usciti da Glory Days di Bruce Springsteen (di fatto Diablo Cody e The Boss fotografano, ciascuno col proprio linguaggio, la stessa situazione). 
"Quanti ne abbiamo riportati a casa ubriachi dal bar, di ex-capitani della squadra di football del liceo?", diceva il detective Emily Sanders (di nuovo Charlize Theron - magari avrà fatto tesoro di quel personaggio per dar vita a questo) nel bel film di Paul Haggis, Nella Valle di Elah (2007). Be', è più o meno la stessa cosa, lo stesso modo di sentire e vedere uno stato di cose. Per questo forse, più che la vicenda messa in scena dal duo Diablo Cody-Jason Reitman - divertente e amara al tempo stesso - conta lo spirito e l'odore che il film spande per l'aria durante la visione.
Limitazione e solitudine, si diceva. I due elementi si incontrano nel personaggio ottimamente reso di Mavis Gary la quale, pur fuggita dall'insostenibile senso di soffocamento del paesino monotono e limitante, di fatto ne è ancora in tutto e per tutto figlia (una figlia che ben volentieri passa le serate nel solito bar rievocando i tempi del liceo, pur a quindici e passa anni di distanza!), rivelando che dietro un odio tanto acceso per il posto c'è un trauma adolescenziale, e poco altro. 
Per questo, il ritorno è terapeutico - e un po' fuorviante è sulla locandina del film leggere "Tutti invecchiano. Ma non tutti crescono" (cazzo c'entrerà?): compiuto il percorso, avvenuta la catarsi, riabbracciata in tutto e per tutto la provincia e fatti i conti col passato, la scrittrice-semi-fallita-semi-alcolizzata-mezza-isterica Mavis può chiudere finalmente la porta dietro di sé, e la parola fine e in realtà un inizio.
Vita, eccomi.

marzo 02, 2012

Paradiso amaro!


Paradiso amaro, nell’ossimoro sbiadito del titolo italiano viene riassunta la piattezza del film.
La trama è semplice e banale. La moglie di un ricco avvocato immobiliare( mi pare che questo facesse, ma non ho ben capito il mestiere visto che in tutto il film cerca di vendere un pezzo di isola) va in coma in seguito ad  un incidente in mare. Il marito cerca di unire o meglio riunire la famiglia, divisa, in questo momento di lutto e dolore.
“I miei amici credono che solo perché abito alle Hawaii io viva in paradiso” questo è l’incipit del film. E io aggiungo se vivi alle Hawaii e sei pallido cadaverico, passi 24 ore al giorno in ufficio, trascurando tua moglie che infatti ti tradisce, tua figlia ecc, te la sei cercata. Nessun luogo sarà mai il paradiso per viverci, visto che non sarai mai 365 giorni all’anno in vacanza, ma le Hawaii non sono la valle della morte. Comunque questa commedia drammatica rimane inerte per quasi 120 m, che sembrano un ‘eternità, in una sorta di nulla emotivo che non sconfina mai nel dramma o nella commedia. La storia come accennato è leggera. L’incidente della moglie cambia la vita dell’avvocato immobiliarista, Clooney. Lui cerca di affrontare il dramma in maniera razionale e equilibrata. Cerca di recuperare il rapporto con le figlie(perchè come era prevedibile e scontato lui era il genitore di riserva) evidenziando le difficoltà di comunicazione. "Una famiglia è proprio come un arcipelago, le cui isole sono un tutt’uno benché, separate, sole e sempre alla deriva, lentamente si allontanino”. Però se i temi sono elevati, come per esempio la precarietà della vita, il modo in cui sono trattati è stucchevole in stile soap opera. L’ancora una volta insopportabile Clooney(basta per favore non fatelo recitare più, affogatelo nel caffè) si limita a fare smorfie per esprimere il dolore che prova, senza riuscirci. Tutti i personaggi sono disegnati con il compasso. La figlia adolescente ribelle(avvilente nella sua scontatezza), la moglie fedifraga, l’amante opportunista, per non parlare della moglie di questo e della sua scena di gelosia al capezzale della signora Clooney. Il tutto ammassato alla rinfusa con un finale felice dove l’arcipelago familiare si riunisce. Per chi scrive un brutto film che  riesce ad annullare sia il dramma che la commedia. Nemmeno originale l’idea del regista di dare a Shaggy, Norville Rogers, attore più buffo  che bello il ruolo dell’amante  antagonista di Clooney per rimarcare l’amarezza del paradiso.
fsn