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febbraio 25, 2011

B. YOSHIMOTO, Kitchen (Kitchin)

Anzitutto: questa è una recensione (ammesso che lo sia - solitamente penso a quel che scrivo più nei termini di un cumulo di bischeratere ingarbugliate che altro) un po' limitata, zoppa, parziale. Più che tutto perché Kitchen è l'unica prova della Yoshimoto che fino ad oggi ho potuto sciropparmi, e visti gli esiti non tendo a escludere del tutto che sia l'ultima. Per carità, eh? Sicuramente martellarsi le estremità è esperienza peggiore. Comunque sia, anche complice un'italica veste editoriale alquanto discutibile (perché mettere insieme Kitchen, Plenilunio ovverosia Kitchen 2, e dulcis in fundo la tesi di laurea dell'autrice (???), un raccontino un po' scipito a titolo Moonlight shadow come la canzone (perché?), non mi pare affatto una scelta felice, specie se il titolo o il frontespizio non segnalano in niente la tripartizione - o quantomeno la bipartizione, ammettendo la continuità dei primi due - del testo!), la domanda che ci si pone leggendo - intendo leggendo in modo per così dire "autonomo", senza collocare cioè l'autore entro contesto e tempo assai diversi rispetto al nostro - Kitchin è: dove vuole andare a parare? Già: perché più che piacevoli pennellate episodiche, relative ad aspetti marginali, notazioni temporali "di colore", riflessioni un po' liricizzanti e - ammetto - anche molto valide, sembra proprio mancare non tanto una trama ben definita, ché di questa non sempre ci può esser bisgogno, bensì quantomeno un impianto d'insieme. Kitchin pare un accumularsi di annotazioni sensoriali, registrazioni di stati d'animo che spesso trovano immediata e poetica rispondenza nell'ambiente che ci circonda (se non sono proprio verso questo traslati a livello percettivo): Mikage, la protagonista, pare venir condotta dall'autrice senza nessuna pretesa di logica o verosimiglianza, ma con il solo scopo di guardare, sentire e raccontarci quel che avviene dentro di sé. È un gioco un po' ombelicale, ma tutto sommato, se si accettano le coordinate spazio-temporali, funziona. Siamo forse un po' straniati e ci chiediamo anche il perché di tanta pudicizia e ritrosia, ma dobbiamo anche considerare che canoni, temi e sfondi sono molto lontani da noi; non possiamo certo pretendere la ferrea struttura di un poliziesco o quella quantomeno consequenziaria di un romanzo di formazione: probabilmente (dico, probabilmente: non sono esattamente un esperto del mondo giapponese) l'occhio orientale è assai più propenso a cogliere la magia dell'istante, la seduzione delle piccole cose, pur senza cadere - come accadrebbe invece in occidente - nel minimalismo, e per contro restando sempre all'interno di un qualcosa di magico e delicato, come - sarò banale - un origami. Ok, sparate, l'ho detta bassa...
Più che la trama o i personaggi, contano per Banana Yoshimoto i sentimenti (ed in questo è molto "scrittrice" - almeno nel senso che solitamente mi vien da dare a questo termine, con tutto ciò che da esso deriva) e bene è messo in luce nella postfazione il suo diretto contatto o la comunanza di punti di partenza con lo shojo manga (trad. letterale il manga per ragazze), cosa che le permette di aggirare la sequenzialità e la logica di una storia in nome di un arbitrio narrativo diverso - né più semplificato né più dozzinale: soltanto, con un altra scala di valori. Tuttavia, il punto è che tutte le notazioni singole, per quanto carine, valgono per se stesse e non si armonizzano né verso una direzione (appunto: la trama) né verso un quadro d'insieme che in qualche modo risolva. Sono, semplicemente, pennellate, e si accumulano giustapponendosi una dopo l'altra, tanto che a volte pare che il gusto di darne una sia superiore alla sua efffettiva necessità in quel preciso punto della tela - mettiamola così. Di fatto, puoi tranquillamente arrivare alla fine del primo pezzo, del secondo, del terzo, e chiederti: ma è finito?
In definitiva: la Yoshimoto ci fa vedere che sa scrivere - meglio: sa sentire e scrivere, in sequenza immediata - ma in definitiva non scrive un romanzo, non almeno in questo caso, per cui comunque posson valere tutte le attenuanti del medesimo, non ultima ovviamente il fatto che Kitchin sia la sua prima pubblicazione. Perché in tale prima pubblicazione l'editore italiano abbia messo, senza grosse spiegazioni, anche un lavoro della "studentessa" Yoshimoto, una (strana, invero) prova di laurea, non è dato sapere.
Moonlight shadow? Come la canzone (di ricorda la stessa autrice nel suo Postscriptum)? Viene un po' da sorridere - un po' troppo candore, un po' troppo perbenismo: qui si vede (inutilmente, per la verità - la variantistica c'entra proprio poco!) veramente qualcosa di acerbo, qualcosa che a conti fatti poteva anche rimanere nel cassetto, e nessuno avrebbe gridato al capolavoro sottratto.
Vabbe', questo era quanto, e non saprei dilungarmi oltre... solo aggiungere che la pudicizia estrema - quasi fastidiosa - dietro cui si trincera ostinata l'autrice è forse anche un riflesso di ciò a cui inevitabilmente porta una visione del mondo molto mediata e frenata come quella che - suppongo - ha la società giapponese (una visione in cui ad esempio qualsiasi riferimento sessuale è bandito e sublimato o nel travestitismo come fuga, o nella raffinatezza estrema, come modo per prendere tempo).

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