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febbraio 13, 2012

HUGO CABRET (Hugo), Martin Scorsese

Va' e scrivi di Hugo Cabret, dicono. Vai, sì, dinne qualcosa: undici candidature all'Oscar, sceneggiatura presa da un romanzo di tal Brian Selznick, discendente del fu magnate-produttore di Via Col Vento, regia di Martin Scorsese al suo primo film in 3D, omaggio al cinema, e piglia, incarta e porta a casa.
La miglior recensione del film sarebbe visivo-nichilista, e starebbe tutta nel comportamento di un branco di giovani mostri disturbati dalla tempesta ormonale che ho avuto la (s)fortuna d'aver nella fila davanti alla mia: due ore e dieci di puro casino sguaiatissimo e molesto, interrotto da circa venti minuti di attenzione silenziosa, mentre sullo schermo il padre nobile ma misconosciuto George Méliès (l'inglese Ben Kinsgley, già con Scorsese in Shutter Island) racconta la sua storia e scorrono i ricordi, variopinti e meravigliosi. Ecco: si fosse il film limitato a una qualche forma di documentario (e pure Scorsese ne ha fatti, e di notevoli, dall'omaggio al cinema neorealista al ciclo sul Blues, fino ad esempio a Shine a Light, sui Rolling Stones), magari anche un po' romanzato, ne saremmo usciti tutti meglio, e gli sgorbi magari sarebbero pure stati un po' più quieti. Così, come dar loro torto? Ognuno si esprime come può; resta certo che la storia insulsa e sfilacciata di questo bambino insopportabilmente dickensiano non funziona, e non si lega alla vicenda di Méliès. Né al cattivissimo Ispettore della stazione (Sacha Baron Cohen, non a caso senza nome come da tradizione favolistica - peccato ricordi più l'ispettore di Frankenstein Junior, quello con la mano di legno che un cattivo dickensiano), né a niente. E questa specie di bambino-mutante, discendente inconsapevole del Dolce Remì con gli occhi azzurrati dal fotoritocco, che continua a cercare il messaggio che gli dovrebbe aver lasciato il padre (?) morto in un incendio in un museo dove si trovava per cause non ben chiarite, visto che faceva l'orologiajo e aveva la sua bottega, lascia veramente il tempo che trova: poi ci si mette anche un bello zio ubriacone che prende il bambino rimasto orfano (vuoi non gli fosse morta anche la madre?) sotto la tua tutela, rinchiudendolo dentro gli appartamenti (appartamenti?) del backstage della stazione ferroviaria di Montparnasse, per dar la carica ai vari orologi (???). Il bambino reca seco un automa rotto che il padre aveva trovato nel museo di cui sopra, e accumula nel tempo altri mille meccanismi a dire il vero nient'affatto seducenti o interessanti a vedersi (meraviglia per gli occhi?). Forse a causa di questa passione si imbatte in un giocattolajo-chiccajo o quel che è, vale a dire il George Méliès caduto in disgrazia, il quale gli prende il taccuino dove il padre (il padre?) aveva disegnato i meccanismi dell'automa, nel tentativo di ripararlo. E quindi lo impiega nella bottega, dopo che gli ha fatto riparare un topo meccanico, perché gli dice che è un ladro e deve farsi perdonare i furti degli attrezzi. 
A questo punto già sta emergendo il cetriolo cinematografico del Ponte per Terabithia (ommioddio, il Ponte per Terabithia!), e lo spettatore comincia ad avvertire sinistre sensazioni sotto il seggiolino: non bastasse, poi, l'orrido infante dai calzoni ineluttabilmente corti comincia a frequentare la figlia adottiva dell'austero George Méliès, e lei - così, potevano andare a prendere una cioccolata calda, o a giocare sul prato, e invece! - lo porta da Saruman (Christopher Lee), il quale è finito a gestir la locale biblioteca, (locale nel senso che è dentro la stazione di Montparnasse - nelle stazioni anni '30, vuoi che non ci sia una biblioteca?) e, dopo che la prima volta lo ha guardato storto (pensandolo magari pronipote di Gandalf-il-Grigio?), poi regala, improvvisamente benigno, una copia di Robin Hood all'infausto protagonista, chiosando che era destinata sì al suo figlioccio, ma siccome tutti i libri hanno il loro giusto destinatario, Robin Hood è per lui (?), con tanti saluti al figlioccio che si ciuccerà magari i diti e leggerà magari l'Almanacco del Calcio 1931-32.
Nel frattempo, i due infanti hanno pure fatto funzionar l'automa (la bambina - sosia in piccolo di Amélie, essendo francese - ha ovviamente la chiave che il Mysero Orfanello cercava a più non posso) che è quindi partito in tromba a disegnare ed ha riprodotto un fotogramma de Il viaggio dell'uomo sulla luna, l'oggi celebre film di George Méliès.
Da lì, dopo altre inutilissime vicende, tra cui una filippica sullo scopo di tutte le cose, inflitta dal maschio alla femmina in cima alla torre dell'orologio della stazione mentre la daghereotipizzata Parigi vede le sue strade percorse a folli velocità (???) da strisce di luci di vetture stupidamente fuori tempo, il Dinamico Duo trasborda in un'altra biblioteca (ce li manda Saruman con un incantesimo, forse) e comincia a spulciare un libro sul cinema. Magia delle magie, alle loro spalle accapa l'autore del testo, un professore con la barba, ossessionato da George Méliès, che crede morto.
Il "Terabithia-mode" si palesa ormai (non è possibile... era di Scorsese... cazzo! M'avete fregato un'altra volta!) tragicamente nella sua interezza: tutto  si svela e rivela come già scritto poco sopra e, mentre il perfido Ispettore della stazione attacca bottone con la signorina dei fiori e lo zio di Harry Potter e la Gigantessa della battaglia contro Voldermort cominciano una relazione a base di Cani Pipy (lei porta il suo, lui ne compra uno), e un tizio che somiglia a Johnny Deep però più giovane (Johnny Deep è il produttore del film, tra l'altro - sia un caso?) suona la chitarra in un locale come fosse Django Reinhardt però più cool (ovviamente sempre dentro la stazione - ma treni ce ne parte?), George Méliès racconta la sua storia, in quello che è l'unico momento bello e appassionante del film (circa venti minuti): un magico omaggio al cinema, alle sue origini a metà fra magia e tecnologia, sogno e scienza - Méliès e i Fratelli Lumière, per dire; filmati di repertorio, altre cose mirabilmente rivisitate e immaginate. Peccato finisca tutto presto, e all'orrido Nànide Sciupato gli pigli lo schiribizzo di correre a prender l'automa per il catartizzato Georges Méliès, perché (già: perché?) l'aveva fatto lui. Nel tragitto però lo scopre l'ispettore che lo insegue e lo bracca, incurante del fatto che il Bambino Bionico© debba scoprire il messaggio che il padre gli ha lasciato.  
No, andrai in riformatorio, dove ti insegneranno a fare a meno di una famiglia, perché non ne hai bisogno di una famiglia, come me, gli sbraita l'Ufficiale Robotico, al che si suppone che Hugo Cabret possa anche ribattere: che fai, mi pigli per il culo? Qua ci manca il nonno di Heidi e poi..., però a quel punto giunge in stazione George Méliès, che chiude l'idillio accollandosi bambino e automa riparato.
Finale con la celebrazione del medesimo, per merito del critico, con un teatro improvvisamente pieno et adorante, ed una celebrazione-recupero del cinema inteso forse per la prima volta nella storia come forma d'arte (la vicenda di George Méliès è mediamente vera, e come detto è l'unica cosa che accende un irritante buio - allora, se omaggio doveva essere, meglio, incommensurabilmente meglio quello al muto di The Artist!).
Oscar scontato ed annunciato (e tutto sommato giusto) al consueto Dante Ferretti per la scenografia (bella); per il resto uno zuppone inconcludente che fa pensare, per elisioni incongruenze & fastidio, alla versione cinematografica de La Bussola D'oro. Anche la fotografia lavora un po' troppo, e se un ammiccamento ci può stare, metter come sotto gelatina tutto quanto fa un po' specie.
Di fatto, dopo Harry Potter assistiamo ancora una volta all'insensata e ineluttabile equivalenza film-con-bambini=film-per-bambini (ok: anche il trailer ci gioca un po', eh?). Molti infanti in sala, anche ieri, in trepidante attesa e speranza (poveracci). Mica loro: i genitori...

1 commento:

Ciofo ha detto...

In effetti non era granche', eppure (stranamente) il tempo mi e' passato bene, ma piu' per le immagini che per la storia.

Eppure mi e' passato bene. mah. sara' questa la magia del cinema?