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gennaio 10, 2012

J. EDGAR, Clint Eastwood

Che Dio o Chi-Per-Lui ci conservi a lungo il vecchio Clint! Lui e i suoi ritmi indiavolati, tant'é  che dal 2000 ha tirato fuori da cotanto cilindro dodici-film-dodici, tutti di un livello eccezionale nonostante l'assoluta eterogeneità dei temi trattati (si va dal thriller drammatico al biopic storico passando da documentario musicale e film di guerra, senza scordare la parabola sportiva, etc.) e per tutti o quasi firmando regia, musica e sceneggiatura. Capace sappia anche fare un'ottima creme-brulée, l'ex-sindaco di Carmel, California; e capace magari sappia anche convincerti delle sue ragioni di Repubblicano DOC, del tutto fuori (ahilui) dal tempo.
Dal 1988 (anno di Bird, splendido e partecipato ritratto di su Charlie Parker), in modo dapprima più diseguale poi via via sempre più puntuale, con un senso quasi di ineluttabilità, i film del "texano dagli occhi di ghiaccio" sono andati acquisendo la serena grandezza e la forza che nei libri hanno i Classici dell'Antichità - per dire: un dittico come Flags of our Father e Letters from Iwo Jima vale per me l'Iliade. E via discorrendo.
Per respiro; per capacità di visione a 360°, fuori da ogni schematica logica di bianco/nero; per equilibrio e al tempo stesso per passione bruciante e capacità di coinvolgimento dello spettatore; per analisi delle emozioni e dell'umano: per queste e un sacco di altre cose, fossi un critico di professione e non il fesso patentato (per dire: pure bocciato all'esame di guida) che sono, di fronte a un film di Clint Eastwood alzerei semplicemente le mani, le mani e la penna, e mi dedicherei a rimettere a posto i cassetti della scrivania.
Così faccio anche per J. Edgar, che unisce per la prima volta Eastwood a Di Caprio (solitamente attore-feticcio di Martin Scorsese) e imbastisce una trama basata (con una sceneggiatura scritta dal regista e Dustin Lance Black, che tra le altre cose aveva messo la sua firma sul bellissimo Milk, qualche anno fa) sulla figura umana del Grande Vecchio della politica interna made in USA. Un racconto in cui tra le altre cose son fantastici i costumi e le scenografia (rispettivamente: D. Hopper e J. Murakami), una impeccabile e strabiliante macchina del tempo, e un neo è forse il doppiaggio di Di Caprio, che la produzione italiana lascia discutibilmente al consueto doppiatore di sempre, il qual si sforza di parlare con voce da vecchio: non un gran risultato, in definitiva.
In ogni caso: non siamo forse sul livello d'assoluta perfezione del precedente Hereafter, né la scelta di fondo, tutta in direzione di un tono "crepuscolare" rispetto ad ogni magniloquenza o affresco storico - una scelta espressamente volta al raccontare le complessità dell'Hoover-Piccolo-Uomo impacciato, ossessionato dalla figura materna, fermo magari ad una "fase anale" di freudiana memoria, omosessuale non dichiarato prima di tutto a se stesso; una scelta cioè che di fatto relega ai margini l'uomo pubblico, il burattinaio capace di creare nel nome della Sicurezza Nazionale e dell'Ordine (ovviamente secondo lui: who watches the watchmen?) una grande macchina del ricatto e del controllo, sopravvivendo (creatore e propria opera) a ben otto presidenti - né simile impostazione, insomma, si diceva, poteva favorire di per sé lo sbocciare di un Grande Film, non quantomeno nel senso di ciò che con questo s'intende al solito: niente quadri storici eclatanti, e ad esempio ecco che l'assassinio di Kennedy resta concentrato in una laconica telefonata del protagonista all'allora procuratore generale e fratello dell'assassinato. Idem per Martin Luther King: tutto resta sempre tutto sullo sfondo, quasi un sommesso brusio. 
Eppure, quanta potenza nell'Hoover che guarda dal suo balcone la parata di insediamento del nuovo presidente!
Curzio Maltese ha scritto che il film esce sconfitto soprattutto dal confronto con il Citizen Kane (Quarto Potere) di Orson Welles, il quale a differenza di Clint Eastwood era riuscito nell'impresa di coniugare felicemente pubblico e privato, ponendo (ad entrambi conferendo pari importanza e impatto drammatico) sullo stesso piano narrativo la vicenda privata del cittadino Kane (Rosebud!) e la sua ascesa pubblico-sociale. Ma quella di Clint Eastwood è anzitutto una precisa scelta di stile nonché scoperta dichiarazione d'intenti - se vogliamo anche una riflessione su cosa c'è alle radici di un potere che necessariamente corrompe, se sia nato prima l'uovo o la gallina, se più colpe sian da cercarsi nella semenza o nel meccanismo - ed ogni confronto fra i due film, mi pare, si rivela più marginale che effettivo, ragion per cui rimango lo stesso bischero licenziato di cui sopra, e torno ai miei affari, pur dissentendo nientemeno che con Curzio Maltese di Repubblica, che ovviamente ha tutte le ragioni e ben più ampio background per sostenere le sue idee, e vince necessariamente lui.
A me, tuttavia, resta una scrivania in gran bell'ordine.

1 commento:

Ferraù ha detto...

Forse il buon vecchio Clint rende meglio quando non è "ingabbiato" dal rispetto delle vicende storiche (anche Invictus mi sembrava un poco al di sotto degli altri film), ma stiamo parlando di un 9,5 invece di un 10 e lode...