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ottobre 17, 2011

THIS MUST BE THE PLACE, Roberto Sorrentino

"Il mondo secondo Cheyenne", avrebbe potuto intitolarsi il film, un frizzante ed originale breviario di metodi e filosofie coi quali passare attraverso la vita, mantenendo uno sguardo che tanto più penetra a fondo delle cose quanto più pare distaccato e lontano. Uno sguardo quasi di bambino: per la sua purezza, per la sua freschezza, per il suo stupore e al tempo stesso per la sua ostinazione; un senso del grottesco e un mazzetto di figure secondarie – il tatuatore, l'agente di borsa che presta l'amatissimo pick-up, il cacciatore di nazisti, la professoressa, l'inventore di trolley, il bambino con la fobia dell'acqua – che potrebbero venire dritti in linea retta dai Coen (la co-protagonista Frances McDormand non a caso ripropone pari pari lo stesso personaggio cui aveva dato vita in Fargo); un interprete assolutamente unico nonché vero cuore del film ancor e assai più della vicenda in sé, che niente più si rivela se non una giustapposizione di scene tutte egualmente valide, surreali e al tempo stesso concretissime, esilaranti ed amare ("hai mai fatto caso al fatto che oggi non lavora più nessuno, ma tutti fanno qualcosa di artistico?")
La linea narrativa patisce forse un po' questo carattere del film, che comunque certo non ricerca la verisimiglianza e il canone della logica causa-effetto più tradizionali: la ricerca di un criminale nazista attraverso la classica America periferica popolata di marginalità e caffè e motel e miserie più o meno spicciole (secondo il più tradizionale canone del film/romanzo on the road) è assolutamente secondaria, e al suo posto poteva benissimo starci la ricerca di un figlio, di una madre, di un qualsiasi altro evento potesse fare da sfondo agli incontri, alle massime, al distacco straniante della maschera del Candide aggiornata ai giorni nostri in chiave rock. Forse questo – il fatto che la ricerca dell'aguzzino del padre non sia poi tutto questo casus belli, tutto questo motivo per mettersi in viaggio, per scrivere la prima pagina del proprio bildungsroman – un po' si sente, come ogni tanto si avverte un eccesso di simbolismo un po' fine a se stesso: la baracca in mezzo al nulla del criminale nazista; l'inutile chiusa con Sean Penn senza più trucco davanti alla finestra della madre in remota attesa del figlio; la stessa figura di quest'ultima, messa forse lì a vieppiù (inutilmente) aggiunger pathos – tutte, forse, metafore un po' stonate e pretenziose, figlie irriducibili di un modo di pensare il cinema (quello italiano, appunto) come qualcosa di nobile, indegno a meno che non si veicolino in un modo tra il lezioso e l'accademico concetti che si giudicano “alti”, magari indugiando nell'(ab)uso di fatti di storia o cronaca che a questo si prestino (l'olocausto, il fascismo, i fatti di cronaca nera – quanti film italiani cosiddetti "impegnati" ci cascano?), e accompagnando il tutto con l'altrettanto irriducibile (e fastidiosa) tendenza al melodramma ed alla lacrima, qui peraltro e grazie a dio brillantemente evitata dall'attore (“no, tardi è tardi!” – e immaginatevi la stessa scena con qualche coppia di divetti nostrani e preparate i fazzoletti).
Nel complesso un film che sorprende, originalissimo e visionario (bellissima fotografia, di Luca Bigazzi), molto meno italiano del solito, ma che forse pone la storia un po' troppo al servizio della tecnica, il plot al servizio dell'estetica. Bello - anche se forse una goccia di provincialismo ci può stare, nel far apparire un musicista perché se ne sceglie un pezzo... - il cammeo di David Byrne, nella parte di se stesso (ancora: niente più che un pretesto per un'altra delle perle di Cheyenne).

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