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luglio 05, 2011

BODY AND SOUL, Micheal Radford

Documentario che ricostruisce più o meno efficacemente la musicalità assoluta di Michel Petrucciani, che è quanto di più “Mozart” aggiornato ai giorni nostri si possa immaginare. Il film ha sicuramente un suo perché, e fra qualche annotazione di tecnica pianistica e di colore, nonché dall'insieme emerge senz'altro la personalità e la caratterizzazione per così dire quotidiana dell'artista, ma quello che danneggia forse il risultato finale è la schematicità della regia. Michel Radford (già regia per Il Postino, Il mercante di Venezia) si limita al compitino e rinuncia, forse per contrasto col Genio Assoluto che si tova a dover sceneggiare, a qualsiasi tipo di virtuosismo od originalità nelle riprese, limitandosi a giustapporre qualche dichiarazione e un po' di musica, un'intervista e del materiale di repertorio magari dal vivo, qualche racconto di episodi a un altro po' di musica. Uniche due particolarità: nessuno dei personaggi chiamati a dir la loro è mai identificato da una sovrimpressione (e questo non è che giovi granché, alla lunga) e tutti parlano nella loro lingua, sottotitolati (e questo invece giova, senz'altro). Alla fine la ripetitività dello schema – che accompagna l'artista Petrucciani dalla nascita alla morte, dalla Francia alla California, a Big Sur, poi a New York e di nuovo alla Francia – invariabilmente nella forma fissa ed alternata di momento orale-momento musicale stanca e forse fa evaporare un po' del demone artistico, con tutto quanto ciò si porta dietro, che una regia un po' più movimentata avrebbe trasmesso.
Certo, restano alcune emozioni forti: i ricordi degli altri jazzisti - dal Charles Lloyd folgorato e riportato sulla via del Jazz dalle mani del piccoletto trovato in casa a suonare il piano, all'affetto quasi fraterno di Joe Lovano, Aldo Romano e via discorrendo; le riflessioni dello stesso Petrucciani (spesso, per parola degli stessi amici, nient'altro che aneddoti ingigantiti di un uomo del sud), e le sue quattro mogli e l'episodio doloroso del figlio, probabilmente e in un certo senso vittima del Genio del Padre, capace – lui – di annullare il grave handicap e sublimarlo nella musica e nell'eccezionalità di un dono cui tutto si può perdonare e a cui tutto può cedere il passo, fino al bruciare se stessi e i propri (pochi) anni nell'arte, potendo beffardamente dire che va tutto bene, sto benissimo e vivo alla grande. Normali sarete voi.
Si può anche riflettere che, quando ciò non si dà, la prospettiva cambia, e parecchio; ma dal momento che il documentario è sul Michel Petrucciani uomo e artista, body and soul, questo può essere un (amaro) effetto collaterale del film, e meglio di tutto è senz'altro chiudere con quanto riportato nelle circa due ore di interviste e ricordi:
un pianoforte è nulla più che uno strumento musicale. Se però al pianoforte siede Herbie Hancock, siede Chick Corea, siede Michel Petrucciani, il pianoforte suonerà come Herbie Hancock, come Chick Corea, come Michel Petrucciani (io avrei aggiunto Thelonious Monk e Bill Evans – magari pure sostituendo uno dei primi due, eh?). Se al pianoforte siede qualcun altro, il pianoforte suonerà come un pianoforte.
Molto semplice, e molto sintetico: sta in questo, forse, la musicalità assoluta, il "mozartiano", di cui dicevo poco sopra. Il film lo cattura solo in parte, sarebbe stata necessaria forse una regia meno schematica, capace al tempo stesso di mantenere un ordine (per dire: l'ordine non c'è, nemmeno con questo schematismo!) e una creatività, sullo stesso filo. Difficile, e - comunque - il non esserci riusciti non toglie il sapore di fondo al film-documento, che resta un ottimo viaggio da intraprendere e ascoltare.

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