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luglio 29, 2011

SAM LIPSYTE, Venus Drive

Ogni generazione considera la precedente come qualcosa da abbattere, comunque da superare: si tratta spesso del classico conflitto "figli contro padri", nell'accezione magari di un manipolo di enfants-terribles che vanno a tirar la barba bianca ai soloni, a ciò che è accademia, istituzione, gloria nazionale magari un po' polverosa e ingombrante. Una sostituzione di un determinato codice di valori, di un repertorio di immagini e metafore e concetti, uno svecchiamento di fondo che a volte magari è scriteriato o fine a se stesso (e a volte niente c'è da svecchiare!); a volte ha un suo indubbio merito e una sua necessità: ci voleva proprio, vien da dirsi.
Per quanto alle “singole” generazioni d'avanguardia, prese – mettiamola così – cellula per cellula, epoca dopo epoca (per quanto oggi, ancor più di ieri, si tenda inevitabilmente ad una generalizzazione di fondo, rimpiattando tutta la polvere letteraria sotto lo stesso tappeto del post-moderno), questo meccanismo risulti sempre nuovo, è, questa, una dinamica che invariabilmente si ripete nella storia dell'uomo, al di là di limitazioni letterarie, artistiche e via discorrendo.
Come sempre, in tutto c'è del buono del cattivo, del loglio e del grano – per usare un'espressione da accademico polveroso o vecchio trombone che dir si possa volere. Nello specifico, mi sembra che accanto ad indubbi meriti di quella che oggi può dirsi la punta più d'avanguardia di questo processo – vale a dire gli scrittori che, con 20-35 anni sulle rispettive spalle, si trovano ad operare in quello che del mondo occidentale è ombelico e fulcro, senza nulla voler togliere alle periferie (intesi non come luoghi minori, giacché molti degli scrittori di cui sopra operano tutt'altro che a New York o Los Angeles; bensì come posti in cui effettivamente si langue in tutti i sensi – ad esempio da noi, tanto per dire) – si torni sempre lì: e detta proprio sinceramente, lasciare (dico nomi alla rinfusa, ognuno metta quel che preferisce...) Hemingway o Capote, o Flaubert o Carver, o Richler o Steinbeck, o chiunque insomma vogliate, per abbracciare un continuo battere e girare sempre intorno allo sballo che quest'acido procura, alla figura del ragazzo senza lavoro che si droga, allo scioperato che abita il sobborgo ed è sfasato rispetto al mondo e fuma marijuana, a tutta la gamma possibile di roba da tirare da iniettarsi da fumare da inghiottire da assumere, insomma: fino a che punto si tratta di un ritratto effettivo e sentito, e fino a che punto di un mettersi in posa esagerato, un'esibizione forzata e spinta al limite nient'altro che per meravigliare/scandalizzare chi ben pensa e chi la polvere d'accademia ama e brama, tanto per fare?
Io per me, che peraltro non benpenso e la polvere non necessariamente amo, per quanto ciò potrà valere, mi scandalizzo ben poco, né ci vedo chissà qual fascino o attrattiva nelle descrizioni artistiche dello sballo. Il principio è sempre il solito: non tutti hanno a essere Bukoswki solo perché scrivono di sbornie o scopate, insomma.
Né si può ripetere all'infinito lo schema, magari con tecniche diverse che senz'altro son nutrite da una indubbia e puntuta fantasia, magari alimentata e affinata dalle scuole di scrittura (che qualcosa effettivamente fanno – viene il dubbio, considerando che tutta questa generazione più o meno esce da corsi di scrittura creativa di qualche college!), e da un senso del frizzante brioso che diverte e effettivamente dà ogni volta un sentore d'aria nuova (per l'appunto più frizzante!): se a un determinato codice, magari polveroso, datato, magari un po' magniloquente e in pompa magna, in definitiva non perfettamente aderente alla realtà odierna; se vi si vuol sostituire questo, grazie tante, io mi tengo ancorato al passato.
E questo avviene in certa misura con Lipsyte, che anche con buona parte di grano alla fine lascia interdetti, perché i personaggi son sempre gli stessi e tutta questa marginalità a metà fra lo svampito e lo straniato pare un po' forzata. Molto meglio il suo senso di ironia e di grottesco, che però è ben lontano da Saunders, o anche la tecnica narrativa e la sintassi andate mossa, che rivaleggia (e perde, forse) con un altro tizio all'incirca gli stessi limiti, che si chiama Rick Moody. Si rasenta la farraginosità, e non si sa mai per certo se scriva bene o scriva male. Nel tempo che te lo chiedi il racconto è giunto al termine, e hai letto di un'altra droga, di un'altra storia un po' sconclusionata che magari stavolta non ti ha colpito nemmeno più di tanto, sommata a tutte le altre, sempre a metà fra qualche frase un po' ad effetto e qualche contorsione linguistica notevole però un po' fine a se stessa...
Invecchio io?

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