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marzo 31, 2011

SILVIO FOREVER, R. Faenza-F. Macelloni

Andate a vedere Silvio Forever. Se ci riuscite, certo, giacché ad esempio la rai ha oscurato il promo del film (mancava il contraddittorio nelle dichiarazioni della defunta mamma Rosa, o non era rispettoso mostrare una defunta ma quand'era ancora viva in un film - non s'è mai capito troppo bene quali fossero i motivi) e non è detto che il medesimo riesca a durar granché, in sala. Andateci: non ci sarà niente di più di quel che non abbiate già visto, e purtroppo non sposterà d'una virgola la situazione attuale, che è un po' lo stesso dato di fatto che poteva valere per Videocracy prima e Draquila - L'Italia che trema poi. Però andateci lo stesso: perché il senso di disgusto che si avverte durante quel che si vede, alternato agli spasmi d'ilarità che si provano quando si riesce, magari solo per un attimo, a vivere la situazione sullo schermo come se fosse effettivamente solo sullo schermo, sono impagabili. In entrambi i sensi; in entrambe le direzioni. E mettiamoci pure il senso (non sarà molto, lo so: ma contentiamoci!) pseudo-consolatorio e un po' (lo ammetto: ma concediamoci anche qualche atto d'amore verso noi stessi!) auto-referenziale di non esser mai appartenuto al novero dei tanti – tanti? Io son tra quelli che di brogli ha sempre accusato l'accusatore, in nome d'una ben nota strategia d'un marketing spicciolo che più o meno recita: accusa il tuo avversario di quello che fai tu – che l'hanno in qualche modo fatto arrivare dove si trova, e che ci fa sentire come orgogliosi nel ripeterci “io sono diverso, io sono diverso, io sono diverso”.
Al di là di e più che tutto, forse, l'importanza di film come questi sta nel fatto che mantengono bassa – o contribuiscono a darle una salutare scossa – la soglia di assuefazione che chi comanda vorrebbe diffondere a macchia: vedere che siamo comandati da un tizio che dice di avere, già a quattro-cinque anni, salvato la vita alla sorella che era caduta in un mastello per i panni; che a sei andava a mungere le vacche e veniva pagato in natura e portava il secchio di latte in casa, per sollevar seppur di poco le ristrettezze da tempo di guerra del focolare; che a sette raccoglieva la carta per strada e la metteva a macerare nella vasca da bagno e rivendeva poi quel che ne risultava come carburante (qui – confesso – non m'han retto gli occhiali sul naso, e dal ridere mi son finiti sotto la poltrona del tizio davanti); che a scuola faceva i compiti ai compagni in cambio di soldi, salvo poi restituire le somme qualora questi ultimi non fossero arrivati al sei; che negli anni dell'Università (ovviamente la Cattolica) metteva a disposizione del prossimo, dopo ciascun esame superato, i propri mirabolanti riassunti, manco a dirlo notati ben presto dai piani alti di detta università, dalla quale conseguentemente affluiron tosto danari per coprire i diritti d'autore (?) del brillante laureando, col medesimo che ovviamente dava il tutto regolarmente in beneficenza – insomma, ascoltare tutto questo è, credo, quantomeno salutare ed istruttivo.
Se poi viene raccontato direttamente dal protagonista, insomma... che aggiungere? Già perché il docu-film di Faenza e Macelloni ha questa particolarità: nessun racconto su Berlusconi, fatti salvi qualche opinione o qualche aneddoto raccontati dai diretti interessati (Indro Montanelli, Marco Travaglio, Dario Fo, ma anche mamma Rosa, Mike Bongiorno, e via così), viene da fonti diverse rispetto alla sorgente primaria e più pura: la voce diretta dell'attuale presidente del consiglio, che racconta la sua vita e parla di sé in interviste, talk-show, comizi. E ricostruisce da solo la sua storia, Una Storia Italiana (sì: confesso che io li ho entrambi, e li custodisco geloso!);  quella di uno strepitoso personaggio della commedia dell'arte – per dirla con le parole con cui è stato presentato il film. Una storia che diacronicamente annovera gli inizi misteriosi nell'edilizia, il mausoleo privato e le vicende di governo; le comparsate da Vespa e il puttanajo da – si spererebbe: macché! – crepuscolo del sultanato di provincia che s'è aperto e continua ad aprirsi nonostante mamma Rosa avverta ad inizio film: "mai vedrete Silvio nelle foto con le donne". No, mai: e se ci sono, son tutte tizie di specchiata moralità. E l'SMS di Nicole Minetti a un'altra tizia di cui (mi si perdonerà) non ricordo il nome: “più troie siamo, più bene ci vorrà”, è solo un elaborato messaggio in codice per dire che il premier l'altra sera ha fatto beneficenza all'UNICEF.
E non si pensi – più di tanto: cioè, non nel senso in cui lo fu ad esempio Draquila, di Sabina Guzzanti – a un'operazione brutalmente militante: quello che viene fatto qui, con anche la collaborazione di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo (autori de La Casta) è semplicemente elencare, mostrare, incollare. Certo – alcuno potrebbe obiettare – si posson fare operazioni ben assai militanti con semplici opere di taglia e cuci, ma alla fine le parole contano, e le azioni pure; e di entrambe, almeno qui, per lo spazio di 85 minuti 85, è direttamente responsabile il medesimo. L'opposizione – quella propriamente detta, quella politica – non compare mai (e direi che non è un caso); i tanto vituperati magistrati di sinistra nemmeno: compaiono, nella parte di loro stessi, Zapatero ed Angela Merkel, con le loro facce tra l'incredulo e l'imbarazzato; compare il simpatico Gheddafi, a cui s'è pensato bene a suo tempo di baciar la mano; compare il buon Dell'Utri, quando dice che la mafia non esiste. Il resto è nient'altro che - appunto - una storia, una storia raccontata dal protagonista. Un'autobiografia non autorizzata.
E cercate di vederlo, se potete. Sarà pur meglio di Amici miei - Come tutto ebbe inzio o qualcosa del genere, no?
(Ok, da un punto di vista più strettamente cinematografico, si potrebbe notare come al cinema italiano sia rimasta quasi solo simile strada, la strada del documento e del film-verità, per fuggire alla asfitticità e miseria a cui lo inchiodano con precisione quantomeno preoccupante commediole scipite e banalmente di carattere, regionali e dozzinali, che vorrebbero replicare, vieppiù svilendolo, un modello che altra fortuna e altri interpreti ebbe in altre epoche, ma lasciamo stare, ché la cosa s'addice sì, ma mi pareva s'addicesser più due parole sul contenuto e se ci mettiamo a far gli schizzinosi anche sull'estetica e sulle questioni di stile si va ancor meno lontano
).

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