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marzo 28, 2011

CLOCKERS, Spike Lee

Amo Spike Lee. Credo che a un primo livello, superficiale, “di pancia” o qualcosa del genere, sia proprio una cosa così: o adori i suoi film o non lo sopporti. Questo certamente perché i temi sono più o meno sempre gli stessi, tanto che probabilmente i detrattori potrebbero cercare di ascriverlo (come si fa inopinatamente di solito - mossi da non so bene qual intento catalogatore, dall'alto della nostra boria – quando si vuol rimpicciolire, rimettere al proprio posto, distribuendo patenti “da minore” rispetto a – che cosa, tra l'altro?) al cinema di genere: brutalmente, e per voler liquidare la cosa, potrebbero senz'altro sostenere che Spike Lee si macchia dell'orribile colpa di fare film di genere, quindi può certamente esser preso con sufficienza, con un sorriso di circostanza, lo stesso che di solito i medesimi riservano a chi scrive noir (orrore!), thriller (mioddio!!!) e via così. Come se la grandezza, l'arte, la bellezza, quel che diavolo vi pare e serve a far vivere meglio questi gran signori, dovessero senza tema di smentita trovarsi tutte nel cosiddetto mainstream, che è ovviamente puro, assoluto, e non si contamina certo con gli spuri e vituperabili generi, tantomeno con uno che sforna invariabilmente film sulla questione razziale. Questa la sua colpa, questo il suo genere. Che tanto poi la questione razziale è faccenduola di poco conto, roba da caratteristi...
ora, sicuramente il regista su questo aspetto gioca, e a volte pure pesantemente (oltre ai continui rimandi a Malcom X e Martin Luther King, anche chiamare la propria casa di produzione 40Acres & a Mule Filmworks, a perpetua memoria della promessa di risarcimento fatta agli schiavi africani alla fine dello schiavismo, vale a dire quaranta acri di terra e un mulo, è dato assai significativo) ma ovviamente poi, se riusciamo a metter da parte tutte le idiozie di cui sopra, saremo anche serenamente in grado di vedere che ad esempio un libro come In fondo alla palude è un capolavoro assoluto anche se (per dire) da noi è uscito in prima edizione nella collana dei Gialli Mondadori e non nei nobilissimi Meridiani; che Lehane o Leonard sanno ogni tanto (ogni tanto, per carità: e chi vorrà sostenere che l'intera produzione di – chessò – Capote o Hemingway sia meravigliosa a prescindere, nella sua interezza?) essere grandi scrittori. E mille e mille altre cose, tra cui non ultima che il regista di New York (in realtà è nato in Alabama, ma fa lo stesso – solo Woody Allen è newyorkese quanto lui) ha sfoderato quantomeno due film di assoluto livello, sotto tutti i punti di vista, e uno è senz'altro questo, il suo film numero otto, datato 1995. Chi ha familiarità con la sua filmografia saprà di certo qual è l'altro, che credo resti anche uno dei migliori film in assoluto per l'ultimo decennio – parlo ovviamente de La 25° ora (2002), che ha tutte le rotondità dell'Opera Matura, con le due rispettive lettere maiuscole e i singoli e ricorrenti temi trascesi e fusi nel capolavoro, quindi non stiamo tanto a perderci tempo.
Detto per inciso, altre suoi notevolissimi lavori sono He got game (del 1998, film con un paio di sequenze che varrebbero le famose scene del “triello” di Sergio Leone ne Il buono, il brutto e il cattivo: fanno scuola! – mi riferisco ad alcune scene di gioco e soprattutto all'ultimo pallone in aria mentre Denzel Washington va verso il muro della prigione) e Inside man (2006), ma appunto perché lo diciamo per inciso non importa stare a dir molto altro.
Clockers comincia come un documentario sulla vita di strada (i crudi titoli di testa - come sempre a valere qualcosa di più di quel che sembrano nella produzione del regista – cadaveri, gente che guarda, nastro giallo do not cross, sangue sul marciapiede); diviene un saggio sulla cultura afro-americana e sull'integrazione, e si chiude come una vicenda a metà fra la cronaca e il noir, con un manicheismo che come sempre succede nei film di Spike Lee pare esser l'unica fonte di aggregazione nonché l'unico punto focale della vicenda, e invece è l'esatto contrario, con i neri del ghetto visti tutt'altro che con aprioristica condiscendenza e coi bianchi che non necessariamente sono i bastardi oppressivi che detengono il potere e schiacciano i Fratelli – altro che film di genere, ma questo vallo a spiegare agli intellettualoidi!
C'è un'umanità e una partecipazione in questi personaggi (Strike – per me sarebbe stato da Oscar – suo fratello Viktor, il poliziotto André, la stessa coppia di detective Keitel-Turturro, o il magnifico Delroy Lindo, che ci spiega come il Male possa essere una gabbia in cui ti trovi quasi per caso, e il confine da varcare non è poi mai così lontano) che raramente vediamo in un film; e l'assenza di retorica o facili moralismi sarebbero una lezione che farebbe tanto comodo imparare a tanti, primi fra tutti due nomi eccellenti e ben più celebrati, quali Steven Spielberg o Oliver Stone.
Brooklyn è uno sfondo – in questo senso il regista ha fatto grossi passi in avanti rispetto a Fa' la cosa giusta (1989, sua prima opera a tutti gli effetti), in cui in uno scenario un po' caricaturale si muovevano figurine altrettanto eccessive, in uno schematismo di fondo quello sì un po' manicheo – che conquista suo malgrado, col suo squallore a metà e la sua decadenza assolata: e Strike sogna una fuga dai suoi blocks e al tempo stesso vi è intimamente legato (ideale dell'ostrica aggiornata ai nostri giorni), perché solo qui si fanno i soldi, e solo con la droga.
Sembra tutto così immutabile, così prestabilito che se non sei un duro non sei niente.
Spike Lee rende così bene la caratterizzazione, l'ambiente, l'agire umano con le sue varietà (dalla ferocia insensata all'amore protettivo della madre; dal senso di oppressione che l'uomo ottiene – quasi beffarda ricompensa – dal suo volersi integrare e piegare nel sistema allo spirito di emulazione che tragicamente perpetua ed amplifica pessimi modelli, quasi avessimo capacità innate di assorbire e ricreare più facilmente il peggio piuttosto che il suo opposto); tutto quanto è così reale che ti sembra di esser lì, in mezzo alla gente e muoversi con loro. E su tutto c'è anche un intreccio di prim'ordine, tratto da un romanzo di Richard Price; una musica e una fotografia che assolvono in modo del tutto virtuosistico ai propri compiti (rispettivamente di Terence Blanchard e Malik Sayeed, da sempre collaboratori del regista), e un'ultima, struggente sequenza di chiusura, anch'essa da scuola di regia: il bambino che gioca felice coi modellini dei treni, mentre Strike felice ed incredulo, su quel treno che finalmente ha preso, guarda l'orizzonte, e un cartellone pubblicitario recita "no more packing", promessa (forse non mantenibile, ma chissà!) di una nuova vita, nel tramonto.

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