Visite

aprile 27, 2011

HABEMUS PAPAM, Nanni Moretti

Ad un primo sentire, ad un ripensarci a caldo, quel che il nuovo film di Nanni Moretti lascia è un che d'irrisolto, un qualcosa che rimane in sospeso, un giudizio che non si forma compiutamente. A qualche giorno di distanza mi continuo a chiedere perché: c'è forse uno spunto geniale nella sceneggiatura, nell'idea di fondo del film; ci sono momenti sinceramente esilaranti, altri decisamente originali e pure stilisticamente notevoli; il consueto tocco d'autore, ormai vera e propria cifra stilistica che sconfina nell'autocitazione (ancora piacevole - gli habitué avranno certamente capito che intendo il consueto momento di sospensione quasi lirica della canzone, del - diciamo così - "ballo d'insieme", del tableau che si sofferma come fuori dallo schema narrativo, innalzato dalla musica); ma forse manca una direzione finale, una sintesi, un approfondimento e una sviluppo in profondità del tema di fondo. È piuttosto ovvio che questo tema di fondo sia il sentimento d'inadeguatezza e paura, sempre attuale per i nostri tempi e ancor più bruciante e d'impatto se lo si immagina appiccicato a chi dubbi non dovrebbe nutrirne per sua stessa realtà costitutiva, parlo ovviamente del papa, un papa eletto direttamente da Dio per tramite di un conclave appunto dall'alto illuminato ed ispirato. E niente di più terreno si può immaginare, per contro: dalla scena in cui ogni cardinale si augura in cuor suo di non essere eletto (una delle migliori del film), ai ritratti che caratterizzano ciascuno di loro colto nel proprio particulare (nessuno – chi si riempie di ansiolitici, chi gioca a carte, chi fa i puzzle – dei cardinali di Moretti è preso nell'atto di pregare: difficile pensare che sia un caso), come immaginare un sentimento diverso nutrito in petto da chi da tal consesso fuoriesce quale presunta guida? Quindi: riflessione sulla dicotomia esistente tra una istituzione (la Chiesa, fatta – male, per quanto qui prevalga sguardo tutt'altro che fustigatore e machiavellico, casomai indulgente e bonario – dagli uomini) e quel che questa dovrebbe rappresentare (il divino, che dappertutto si potrà trovare fuorché in Vaticano)? Tentativo di ripensare il mondo e la presenza dell'uomo in esso nei termini dell'antico adagio del palcoscenico e di noialtri come attori, lì ad indossare costantemente una maschera e magari chiedersi cosa comporti e quanto pesi (ed ecco la catartica fuga del neo-papa entro i rassicuranti – si fa per dire... – luoghi di chi per l'appunto esorcizza questo sentire confinandolo e confinandosi al di là di un arcoscenico e un sipario)?
Il fatto probabilmente è che Habemus papam commedia è – e buonissima – e commedia resta: sarebbe sbagliato voler vedere qualcosa che forse non c'è, o c'è solamente a tratti (quanto a questo in effetti qualche scivolone, qualche superficialità sono piuttosto lampanti, valga per tutte il papa in borghese che incrocia, sulla porta di casa di questa, la psicologa da cui ha cominciato il trattamento – un tocco d'irreale un po' troppo stridente); di sicuro c'è un interprete notevolissimo (ovviamente Michel Piccoli, la cui dolente umanità, il senso di straniamento, l'ineluttabile percorso verso un nuovo gran rifiuto che lo muovono sono veramente straordinari), e un altro costantemente sopra le righe, come da tradizione – la sua forza e la sua debolezza: ricordate l'orrido (e sopravvalutatissimo, quasi una fictionesco) La stanza del figlio? Accantonate simili tonalità e colori, la figura dello psicanalista ci regala momenti assolutamente irresistibili, e torna il Moretti a cui basta un'inquadratura e un'esclamazione per dare al suo film una comicità pura (il dialogo sul darwinismo col cardinale dialogo che riprende le battute del loro primo incontro subito prima della prima “seduta” medica per il nuovo papa, mentre tutt'intorno si svolgono ardite partite a pallavolo è un momento che ha veramente pochi precedenti, a mio parere, nella storia della commedia). Azzeccato e acuto, giustamente condotto quasi in flebile controcanto – anche se si poteva marcar di più: perché riservare tutte le riserve di acidità per il solo TG2? - il ritratto dei giornalisti. Originalità, senza strafare o far espliciti sberleffi: un tocco da veri maestri. E per di più, non si avverte quasi mai quel senso di povero, di misero, di stantio che affligge il cinema italiano. E non è poco.
Tra tutto quello che è stato detto (oscar della stupidità – la novità! - agli articoli de Il Giornale e soprattutto di Libero), forse semplicemente questo è un film che chiude in modo minore, facendo quindi falsamente pensare a qualcosa di tirato via e a qualcosa di inespresso che rimarrebbe nell'aria, tra quelle tende che restano mosse dal vento sul balcone da cui non si affaccia nessuno.
E forse proprio in questo sta la sua grandezza, nell'annunciare musicalmente una cadenza e andarci serenamente incontro, come serenamente Michel Piccoli decide di cedere a quel che prova dopo aver ascoltato un sermone di un umile e (anche questo non un caso: "Cardinale, palla prigioniera non esiste più da vent'anni!") giovane prete di periferia, che parla della necessità di riconoscersi bisognosi di aiuto, del nostro non essere adeguati. Ecco: spogliate questo messaggio della valenza un po' autoflagellante propria del cattolicesimo, ed ecco il consueto tema registico morettiano, da La messa è finita in giù, passando per Ecce bombo, e via andare.
Cosa siamo diventati?

Nessun commento: