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dicembre 04, 2011

PETER CAMERON, Un giorno questo dolore ti sarà utile (Someday this pain will be useful to you)

Ok, la dico grossa: Un giorno questo dolore ti sarà utile vale in tutto e per tutto The catcher in the rye, il testo epocale (1951) di J.D. Salinger, che da noi hanno tradotto coll’assai più infelice titolo de Il Giovane Holden. Di questo, il libro di Cameron ha la levità, il candore disarmante, l’(apparente) semplicità, la magia delle magie che pochi testi hanno dentro di sé (ad esempio non l’hanno gli altri di Salinger, né i Nove racconti Franny & Zoey): il farti scordare la “fatica” della scrittura prima e quella della lettura poi, in sostanza il loro meccanismo stesso; un fenomeno che diventa quasi una sorta di “lettura inconsapevole”, automatica – una specie di corrispettivo della scrittura automatica surrealista, però rovesciato dal punto di vista di chi fruisce l’opera – come se il libro si scrivesse dentro di te per empatia, un processo naturale e leggero in cui salta il tradizionale schema dell’occhio che segue sulla pagina dei segni grafici, a beneficio del cervello che li elabora e (quindi) dei tuoi sentimenti che li assorbono in modo più o meno profondo.
Leggere Un giorno questo dolore ti sarà utile è in questo senso un’esperienza più cinematografica che letteraria: va da sé che buona parte del libro è in forma di dialogo, praticamente una sceneggiatura bell’e buona, e non a caso già pronto è l’adattamento cinematografico, ad opera di quello stesso Roberto Faenza che qualche mese fa tirò fuori dal cilindro il sorprendente (terrificante) documentario Silvio Forever!
Lo schema di base del romanzo è riassumibile in una struttura dialogo-riflessioni (ancora una volta una sorta de Il mondo secondo…, uno schema apparentemente semplice ma che funziona solo se il testo è veramente un capolavoro - penso al Voyage au bout de la nuit, a Barney, al mondo secondo Garp, a qualche testo di Fante, e via così) che abolisce del tutto l’azione; una struttura che basta talmente a se stessa, è cioè così compiuta e perfetta come romanzo da rendere del tutto superflua anche un'eventuale riserva fatta in nome di un realismo, forse più fine a stesso ed ideologico-dogmatico che reale ed effettivo – in soldoni, che probabilmente un diciottenne odierno possa non avere pensieri di questo tipo, così cristallini, penetranti e al tempo stesso così efficaci nell'aprire crepe profonde nel granitico mondo degli adulti. 
James Sveck e Holden Caulfield ragionano allo stesso modo e si muovono allo stesso modo, ma al tempo stesso il primo non è il plagio pedissequo del suo (ormai) “nobile” predecessore, la sua brutta o comunque svilente copia: no, entrambi restano due entità completamente distinte e autonome – pensi a Holden perché ci pensi, ed è inevitabile farlo; ma lo fai non col fastidio di qualcuno che vede un patetico epigono che tende al suo modello, inevitabilmente senza raggiungerlo. È come se qualcuno in un’altra dimensione, in un altro mondo avesse dato vita allo stesso personaggio inconsapevolmente, per caso: una vera e propria magia. E Cameron dalla sua ha, credo – per quanto ogni presente sia il peggiore dei mondi possibile, agli occhi di chi lo vive (poi, l’evasione che uno sogna può essere in avanti o indietro, ma questo è un altro discorso) – un mondo che rispetto a quello degli anni ’50, qualche casino in più lo ha combinato. Un mondo ancora più contradditorio e, per quanto certo questa parola non basti a definirlo, brutto.
Poco da aggiungere, come sempre succede quando ci si imbatte in opere di questo livello. Di solito, l’unico cosa che si può dire è: leggetelo/guardatelo/ascoltatelo, quel che è di volta in volta.
E poi, per chiudere, si mette qualche parola di quelle scritte dall’autore, ché son così complete che in se stesse hanno anche la loro spiegazione, la loro critica, tutto:

Non sono uno psicopatico (anche se non credo che gli psicopatici si definiscano tali), è solo che non mi diverto a stare con gli altri. Le persone, almeno per quel che ho visto fino adesso, non si dicono granché di interessante. Parlano delle loro vite, e le loro vite non sono interessanti. Quindi mi secco. Secondo me bisognerebbe parlare solo se si ha da dire qualcosa di interessante o di necessario.
[...]
Quasi tutti pensano che le cose non siano vere finché non sono state dette, che sia la comunicazione, non il pensiero a dargli legittimità. È per questo che la gente vuole sempre gli si dica «Ti amo, ti voglio bene». Per me è il contrario: i pensieri sono più veri quando vengono pensati, esprimerli li distorce o li diluisce, la cosa migliore è che restino nell’hangar buio della mente, del suo clima controllato, perché l’aria e la luce possono alterarli come una pellicola esposta accidentalmente.
[...]
Ecco un’altra ragione per cui non voglio andare all’università: non voglio essere uno appena laureato che si dà un sacco di arie per il suo primo «lavoro vero», sbandierando un potere che non ha e credendo che fra un anno o due dirigerà Vogue o Vanity Fair. L’aspirante Anna Wintour ce le aveva dipinte in faccia, le sue visioni di mega uffici, pranzi al Four Seasons e servizi fotografici a Tangeri.

1 commento:

Big-eyed ha detto...

ebbrave gamellone!