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dicembre 13, 2011

MIDNIGHT IN PARIS, Woody Allen

E ci riconciliammo dunque con Woody Allen, dopo l'incontro con l'uomo dei tuoi sogni buttato là tanto per fare, non finito e nemmeno tanto sbozzato, confusionario e messo a riempier l'anno duemiladieci, tra il buono Basta che funzioni novellamente newyorkese e questa Mezzanotte nella capitale francese volutamente così tanto svilita cartolina turistica nel tempo presente, quanto adorata e ricca metropoli culturale negli anni '20 prima e Belle Epoque poi.
Il quarantunesimo film di Woody Allen (quarantuno! Ininterrottamente uno l'anno da quanto? Ci starà pure qualche luna storta ogni tanto!) registra ancora una volta il genio in fuga, a prendere e darci aria nuova: dopo Londra, Barcellona, ancora Londra, anche tornare a New York ha un altro senso, è l'avere un occhio nuovo o rinnovato sul proprio mondo (e appunto Basta che funzioni, funzionava eccome). 
Stavolta la prova è a Parigi - e il prossimo anno è già in lavorazione Roma, con Benigni e Albanese fra gli altri - e già il posto sarebbe scivoloso di per sé (remember Venezia? Tutti dicono I love you, dico. Dico: lo ricordate? Il bel musical melenso che fu): la dichiarazione d'amore per un'epoca d'oro, un'epoca forse irripetibile quanto a fermenti, personalità, innovazioni, scoperte e quant'altro si vuole, assume e riassume tutto il miglior Woody Allen che conosciamo, quello che unisce il riso alla commedia di costume, il ritratto affettuosamente caricaturale dell'artista - mai come in questo caso lo sfondo si prestava! - alla barbarie (va da sé: ritratta assai meno affettuosamente) dei suoi contemporanei, la levità di fondo e la malinconia per un presente che sempre sarà un tempo "prosaico e insoddisfacente"; un tempo poco apprezzato, a vantaggio di "un passato vagheggiato e un futuro immaginato". Così il protagonista, ennesimo alter ego - invero un po' inefficace - del regista-sceneggiatore, il quale affida ad una improvvisa macchina d'epoca notturna il ruolo di time-machine per portarsi fuori da un presente di noia e scarsi stimoli, intellettualodi insopportabili e borghesi repubblicani, conducendo quindi di volta in volta l'allibito protagonista (Owen Wilson - come mai ogni attore che fa Woody Allen, fa Woody Allen, come se questo fosse compreso nel prezzo? Lo richiede lui stesso, o il bagaglio di tic, balbettii, movenze insicure e a scatti son l'inevitabile pegno al cospetto dell'Originale? Forse uno dei pochi attori capaci di evitarlo fu proprio il Jonathan Meyers di Match Point - e non è certo un caso se di solito si pensa a questo film come ad uno dei meglio riusciti del regista!) in mezzo a memorabili feste dei coniugi Fitzgerald, al salotto di Gertude Stein (Kathy Bathes, fantastica e dittatoriale sotto al suo famosissimo ritratto) in perenne colloquio con Picasso, a esiliaranti scene col coraggiosissimo Ernst Hemingway o con lo scapestrato mondo dei surrealisti, Dalì - azzeccatissimo Adrien Brody - in testa. 
Inevitabile - com'era già successo ne La Rosa purpurea del Cairo, film comunque assai diverso, specie per il senso di delicatezza e di candore che lo pervade, sentimenti qui del tutto assenti a vantaggio d'una tentazione al ritrattismo macchiettistico che non era possibile eludere - che il pendolarismo fra realtà e surreale, o comunque fra Prosaico e Réverie si riveli un inesauribile pozzo di trovate, e che l'intreccio rimanga più sullo sfondo - non per questo però ridotto a semplice contenitore di sketch. Sta qui forse, in questo sottile equilibrio - stavolta mantenuto - la capacità di farci ridere e sognare (allegria malinconica e riflessione acuta), che i migliori film di Woody Allen hanno.
Da notare anche il contrasto fotografico fra la Parigi attuale (turistica, un po' da paccottiglia) e tutta in ocra ed oro e il rosso sgranato e un po' caldo (modello pellicola dirò d'un tempo che fu, ché dire Vintage è ormai quantomeno stupido) del passato letterario, che par s'accentui al cospetto di Gauguin, Degas e Tolouse-Lautrec. 
È stato scritto che il senso del film è a metà fra la sterilità - piacevole e lenitiva, ma un po' fine a stessa - della nostalgia e la mancanza di coraggio nell'accettare ciò che il destino e il presente hanno deciso per noi, ma credo che il giudizio sia un po' limitante. È un film molto piacevole, che muoverà magari al riso solo una parte degli spettatori (quelli che sanno di cosa si sta parlando, per dirla in termini grossolani), ed è anche un film che prende molti dei temi consueti di Woody Allen, come spesso accade. In sostanza, un film da vedere e da gustarsi.
Si noti che non c'è da spendere una parola che sia una sulla parte affidata alla première dame de France, Carla Bruni, a riprova di quanto grande possa esser la stupidità dei media e del gossip in genere.

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