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novembre 20, 2006

MARIE ANTOINETTE, Sofia Coppola

Allora: Sofia Coppola ha un Naso Veramente Importante. Inoltre è Figlia-Di, e ha dietro di sé la casa di produzione cinematografica-centro di ricerca-laboratorio d’idee dello stesso padre di cui è figlia-di. La casa si chiama Zoetrope, ed è quanto di più vicino al paradiso si possa immaginare. Così ne parla il fondatore, Francis Ford, di cui la Nasona è Figlia-Di: “ho in mente uno studio da sogno sulle nuvole, composto da un bel gruppo di edifici circondati da parchi e giardini; l’Ufficio Scrittori è facile da riconoscere: ha un’enorme penna gialla appesa sopra la porta di ingresso e un bar al suo interno. Al primo piano si trova la mia rivista di short story, «Zoetrope: All Story» (accanto al bar), e sugli altri piani ci sono l’Ufficio Sceneggiature, l’Ufficio Soggetti e il Centro Documentazione per Scrittori. Nel seminterrato è situata una piccola cella di isolamento: l’Ufficio Idee Pazze. Io passo molto del mio tempo lì a escogitare idee, e «Zoetrope: All Story» è una di queste”. Cosmico. Che ci aggiungo? F.F. ha smesso di far film e sta lì a pensare a nuovi modi di creatività, a cercare di fare e far fare qualcosa di nuovo. Sì, signori: un tipo famoso, colto, intelligente, coi soldi, che commissiona e cerca nuove idee, ricerca e dà spazio a nuove persone con idee, mettendo pure a disposizione una rivista per le short-stories (appunto “Zoetrope: All Story”, una silloge della quale è uscita pure in libro, in Italia). Un mecenate-artista illuminato, con una figlia. Che – guarda caso – si mette a far film, col suo Naso Importante. Partiamo dalla critica che a Marie-Antoinette fanno su Il Foglio (!): “due ore di delizia”. Ecco: due ore di delizia una bella sega. Non son due ore di delizia, due ore in cui si vede spuntare per tre volte un microfono peloso dall’alto, per errore; non son due ore di delizia, due ore in cui si fa (con cognizione di causa – poi ne dico) un ritratto fra il kitsch e il glam di una regina spensierata e frivola, per poi farla apparire di colpo grave e compresa del suo regale ruolo divino, cambiando tono e impianto generale al film; non son due ore di delizia, due ore in cui si vedono un paio di Converse tra la collezione di scarpe della Regina; non son due ore di delizia, due ore in cui un figlio (il di lì a poco decapitato Quasi-Luigi XVII) in pratica nasce di tre anni, tanto par quasi coetaneo della primogenita. Qualche bella trovata, sì, ma perché a me se mando - per esempio, eh? - dei racconti o romanzi a giro per case editrici mi trovano tutti i difetti possibili (e i personaggi non sono perfettamente delineati psicologicamente; e non descrivi, bensì suggerisci; e i dialoghi son troppo didascalici; e la storia non ha uno sviluppo narrativamente coerente, ecc. ecc.) e a lei e a quelle come lei gli fanno fare (pubblicano) un film (libro) del genere? E poi ci devono pure venire ad ammorbare con la storia che è assai peggio esser Figli-Di, che si lotta contro chissà quale pesantissima eredità? Ma vaffanculo.
Comunque, qui qualcosa di buono c’è. Non credo venga dalla Nasona, quanto dal babbo, ma fa niente; il film è suo e quindi bisognerà parlarne. L’idea di fondo, anzitutto. E l’idea di fondo è: non siamo cambiati; nel ‘700, come oggi, l’aristocrazia imperava. Quella era un’aristocrazia di sangue; questa è un’aristocrazia del denaro. Entrambe basate sul nulla. Ecco spiegata Marie-Antoinette come Paris Hilton, Jennifer Lopez, Britney Spears e qualche altra nullità del jet-set nostrano, star della movida. Le feste, i cagnolini-da-borsetta, le miriadi di scarpe e vestiti, la pseudo-cocaina e le pseudo-canne (ok, questo un po’ esagerato, cara la nostra Nasona…) alle feste, i parrucchieri-stilisti-guru. Tutto come allora, tutto come oggi. In questo contesto ecco perfettamente a calzare a pennello il tono di fondo e la musica pop-rock di sottofondo, fino pure alle Converse bellamente inquadrate e alla regina che si mostra nuda (difficile che i reali, stirpe divina – almeno secondo loro – si mostrassero nudi a chicchessia) al suo amante. Non si cerca la realtà storica, e va bene. Ma non esageriamo. Anche perché, di punto in bianco, senza grossi motivazioni se non quelle di far finire il film, Marie-Antoinette diventa la Regina nel senso più Nobile del termine, capace di atteggiamenti regali e di inchini (bello) estremamente significativi di fronte al popolo inferocito, nobile coraggio e ieraticità nell’affermare “il mio posto è qui, accanto al mio sovrano”.
Bella anche l’idea di lasciar sullo sfondo i giganteschi avvenimenti storici che si addensano come nubi su una società da abbattere, con l’idea che Hollywood-Versailles e la gente che lo popola sia un mondo a sé, completamente staccato dal resto. Ancora: un po’ come oggi. Com'è anche stata la vita di quel Naso-coi-capelli.
Nonostante qualche (maldestro e troppo sbandierato, e perciò “suo”) tentativo di inserirsi in filoni dotti – Kubrick Rossellini e l’immancabile Eisenstein, rispettivamente con Barry Lyndon, La presa del Potere da parte di Luigi XIV e Ottobre (mostrare il Potere attraverso i suoi orpelli – si pensi qui alla sequenza di dolci, scarpe, chincaglierie; ma anche il finale troncato e dimesso deve molto a Kubrick), restano grossi difetti, anche di credibilità: Luigi XV più che un re, pare un mandriano texano assai dotato in petrolio e rozzezza; la servitù misteriosamente parla e annuncia in francese, e così la figlia di Marie-Antoinette, almeno per i primi anni di vita. Le gazzette satiriche che a un certo punto sfilano davanti alla cinepresa sono in Inglese. Su Asia Argento (quante cazzo saranno le attrici, in America?) è meglio stendere un velo pietoso; quantomeno, non importava ruttasse.
Su tutto, poi, i microfoni che sbucan dall’alto. O era il Naso Importante dell’Artistona?

giugno 30, 2006

VOLVER, Pedro Almodovar

Ovvia giù, ultimamente coi film son stato fortunato. Voglio dire, almeno lì... è stato quasi rieletto Berlusconi, la Nazionale non è ancora uscita dai Mondiali, Melissa P. ha pubblicato un altro libro, checcazzo! Comunque: c’è stato Capote (sì, col mio idolo Philip Seymour-Hoffmann – quant’è che lo dico che è il mio idolo, e che potessi me lo dipingerei sulla maglia, o ricaverei una scultura-capitello poggia ripiano per il mio tavolino da fumo in salotto? Non fosse che non fumo l’avrei già fatto, giuro) che è stato un capolavoro assoluto; c’è stato Crash che non era da meno; c’è stato Syriana che anche quello valeva assai e assai.. Un po’ ingarbugliato, ma alla fine resti veramente felice d’averlo visto. C’è stato anche Radio America di Altman, che finalmente, dopo l’orrido The Company, è tornato a fare un film all’altezza di lui, e c’è stato Romance & Cigarettes, per il quale si può dire la stessa cosa. Certo, poi ho sciupato tutto andando a vedere anche il Codice da Vinci (Tom Hanks, più fisso che mai) e Orgoglio e pregiudizio (con quella trota unicellulare/mezza-fia-che-si mette-fisso-in-posa-ma-a-cazzo che è di Keira Knightley o come cazzo si scriverà, vedete un po’ se uno si può mettere a vedere come cazzo si scrive Keira Knightley - nome del cazzo), tanto per dirne due, ma mica può andare seNpre bene. 
Poi sono andato a vedere Volver. Ci sono andato pieno di pregiudizi. Di solito un film di Almodovar è eccessivo, irreale, un po’ gratuito. Di solito c’è qualche vicenda sessualmente dolorosa (una violenza, ad esempio) ambientata nei bassifondi – puttane, travestiti, la strada, la miseria – e tutt’intorno travestitismo e promiscuità, voglia un po’ fine a se stessa di provocare, uomini assenti o comunque cumuli di nullità piene di merda, a petto di donne eccezionali e forti e superiori a tutto, anche nelle avversità e nelle sconfitte. Il tutto è immerso in un clima di critica (spesso e volentieri) alla religione e alla famiglia intesa in senso borghese, il che non è neanche male non fosse per una sensazione di disagio in chi si trova di qua dallo schermo, come se l’autore volesse un po’ troppo manieristicamente darci dentro, e arrivasse (involontariamente) ad auto-svilirsi. Comunque sia, la società di Almodovar è unicamente matriarcale; i soli uomini che vi hanno diritto di cittadinanza sono quelli che si travestono da donna, quando non proprio transessuali. Elementi del genere sono delle vere e proprie costanti, dei veri e propri marchi di fabbrica. Unici. Ora, queste cose possono esser lette positivamente o negativamente, ma in ogni caso configurano Almodovar come Artista. Come Fellini, ad esempio, che ha quei tre o quattro elementi ossessivi, costantemente ricorrenti e presenti, che costituiscono il fondale del suo cinema/Arte. Lo stesso discorso si può fare per l’autobiografia: o questa si scioglie nell'arte, salendo di un gradino, o resta nella collana di aneddoti, magari fastidiosi perché magari moralistici, comici a tutti i costi, pretenziosi, ecc. Il punto sta proprio qui: in Fellini spesso e volentieri questi elementi si fondono e trascendono nell’arte, superando il loro aspetto (in sé e per sé) macchiettistico o di carattere. In Almodovar no, o comunque non sempre. Tanto per dire – vi fregherà un cazzo? Lo dico uguale – avevo volutamente evitato (oh, magari avevo fatto male, eh? che ne so...) Parla con lei e La mala educacion, coi coglioni rotti da quell’orrido polpettone melodrammatico e eccessivo, ma anche esagerato (lo salvava solo l'inquadratura notturna di Barcellona, all'arrivo della protagonista), che era Tutto su mia madre (in cui una suora, che ovviamente non ha i baffi e ovviamente è uguale a Penelope Cruz, è stata violentata). Avevo visto anche Tacchi a spillo, Legami, Matador, (quando la sua musa era Victoria Abril) qualche pezzo di Carne Tremula e Kika, ma l’impressione che mi restava era quella di un regista molto originale, un artista (coi suoi tic e le sue ossessioni), ma che non mi pareva tutto ‘sto genio dell’arte. Se vai a vedere una mostra al Poumpidou di Parigi di Ilio Machado Cacini, noto scultore nel parmigiano, primo inventore della tecnica cosiddetta “a morso”, non è detto che ti piaccia. Anzi, magari farà pure oggettivamente cacare. Ma non per questo pensi al Cacini come idraulico o come impiegato del catasto. Il Cacini è un artista, con una sua personalità e un suo ben preciso iter e progetto, magari. Poi, Piero Manzoni è un’altra cosa; ma un’altra cosa è anche Filippo Wanda, fotografo-pittore della domenica, che mette su la sua Personale nella cittadina d’origine, offrendo magari anche un rinfresco al termine.
Ma qui divago, e non sto dicendo proprio un beneamato cazzo lesso.
Quindi, ratto & repente: Volver andate a vederlo, merde, e vedrete quasi un capolavoro (io comunque continuo a preferire Fellini): ottima storia, ben oliata e senza falle, ottime attrici, ottima fotografia. Bellissima la Madrid povera e derelitta, con le salite in terra battuta e le case strizzate dal sole (di Levante si vede volutamente solo una strada, oltre a due-tre interni, e del tragitto da Madrid a Levante delle trivelle-pozzo assolate). Ci sono gli elementi tradizionali di Almodovar, qui uniti (quasi – resta qualche concessione al non-realismo, tipo Penelope Cruz che dal niente mette in piedi e manda avanti un ristorante, e fa pure pieno di gente) perfettamente e trascesi nell’arte, come si diceva, e come accade in Fellini. Vedrete Carmen Maura e Lola Duenas, rispettivamente la Caramelli vecchia e la Caramelli brutta (ok, è una che conosco io, non c’entra un cazzo ma lo dico uguale – d’altra parte, ricorderete che in Dogville c’era Il Bellandi). E poi vedrete tutta una serie di omaggi al cinema “povero” italiano – la cosiddetta commedia all’italiana – degli anni ’50, da Almodovar citato e ammiccato in tutta una serie di occasioni, prima fra tutte la protagonista del film, che nel fisico doveva ricordare Sofia Loren, nell’acconciatura Claudia Cardinale, e nel complesso Anna Magnani (omaggiata, tra l’altro, dal passaggio finale in Bellissima di Visconti, che Carmen Maura guarda alla TV in chiusura di film).
Penelope Cruz, casomai, è un po’ "troppo" e rischia di stonare. Non certo in senso cinematografico: è bravissima, così come lo sono le altre due. No, proprio in senso fisico: è un po’ troppo bella (non credo fosse stata mai così bella) come elemento di quella famiglia, e il tentativo di involgarirla, col trucco, i tacchi, il linguaggio – perfetto nelle intenzioni, perfetto e in carattere con il personaggio (anche la regia parrebbe voler contribuire, con tutta una serie di inquadrature a "rimarcare") – ha l’effetto contrario, contribuendo a farla sembrare ancora più bella. Ma son cose perdonabili, tutte.

maggio 29, 2006

ROMANCE & CIGARETTES, John Turturro

Allora, la produzione dei Coen conta non moltissimi film, dagli anni ’80 ad oggi. Toh, pigliate:

Blood simple [Sangue facile]
Barton Fink [Barton Fink]
Rising Arizona [Arizona junior]
Fargo [Fargo]
Miller's crossing [Crocevia della morte]
The Hudsucker Proxy [Mister Hula-Hop]
The Big Lebowski [Il grande Lebowski]
O brother, where are thou? [Fratello dove sei]
The man who wasn’t there [L’uomo che non c’era]
Intolerable cruelty [Prima ti sposo, poi ti rovino]
Ladykiller [La signora omicidi]

Undici, in tutto; in più, un paio di produzioni:

Bad Santa [Babbo bastardo], regia di Terry Twigoff, e appunto questo ultimo
Romance & cigarettes [Romance & cigarettes], regia di John Turturro.

Gli attori, con qualche novità ogni tanto – e magari concessione al successo e al botteghino – sono sempre più o meno gli stessi: John Turturro, Steve Buscemi, John Goodman, Billy-Bob Thorton, Frances MacDormand, Holly Hunter. George Clooney, Nicholas Cage, eccetera. Questi, comunque, i principali.
Ora, con punte più o meno alte (meglio questo, meglio quello, via così), io i Coen li amo et li adoro. Quindi sarò pure di parte. Non sono riuscito ancora a vedere i vecchi Barton Fink e Blood simple, ma vedrò di rimediare (Blood simple esce in DVD a giugno – ed è ridicolo che di Fargo ancora non esista nessuna edizione rimasterizzata). Ho pure il volume di racconti di uno dei due (Ethan), I cancelli dell’Eden, edito da Einaudi e ormai fuori catalogo, perché per l’editoria italiana è meglio certo pubblicare e ri-pubblicare la Mazzantini o Baricco, laddove quella –off tende a far conventicola chiusa e auto-incensante.
Comunque, si diceva di Romance & Cigarettes. Romance & Cigarettes è fantastico. Per giorni, poi, un fan dei Coen non può smettere di pensare a Bo Diddley (magnifico, eccezionale, super Christoper Walken) che sui ricordi che vanno canta Delilah, o a Steve Buscemi che fa l’operaio (“stai scherzando, fa male! Chi me lo taglierà lo farà per vendetta”). Idem per le tre sorelle che provano canzoni straziate in giardino (“siamooo… belleee!”). E anche la fidanzata del fruttivendolo non è male.
Grandi anche gli altri interpreti: Gandolfini (che in pratica prende – bene, benissimo – la parte che anni fa sarebbe stata certo di John Goodman), Susan Sarandon e Kate Winslet versione Tori Amos. Tutti insieme, continuano e rimpolpano la pittoresca et variopinta galleria al cui vertice c’è Drugo, uno dei personaggi degni di una storia del cinema con la S maiuscola.
Grande anche la colonna sonora, come da tradizione.
Il punto forse è che, di fondo, al di là dei singoli film, dei registri espressivi, dei temi toccati, i Coen (e Turturro, con Buscemi l’attore per eccellenza dei Coen, con 6 presenze su 10) hanno una specie di marchio di fabbrica, che unisce tre diverse componenti e lega tutto il resto: l’assurdo, lo stralunato e il frenetico. E personaggi di contorno (oltre ai principali) assolutamente incredibili. La cosa, nell’insieme, suscita un riso grottesco e una sensazione straniante, un “fuori posto” per chi guarda, stranamente piacevole e disorientante. È assolutamente fantastico, nell’insieme.
Qui, questo marchio di fabbrica c’è, e tanto basta. John Turturro lascia da parte Illuminata (pretenzioso, capace più che altro di annoiare o confondere) e tira fuori qualcosa di memorabile, imparando dai suoi primi maestri. Nonostante i multisala preferiscano fare spazio al Codice di minchio, o alle evoluzioni di un Patrick Swayze anziano ma ancora piroettante e/o piacente (??? - per tacere di altri polpettoni italiani sentimental-intimisti, come da consolidata e arrugginita tradizione), vedete d’attrezzarvi e andarlo a vedere comunque. Sennò vi rubo i coprimozzi delle vostre macchine di merda. Chi ha la GIP, gliela brucio. Idem per la Smart o la Mini, con l'aggravante che prima gli caco sul sedile passeggero. In culo, tutti quanti.

W i Coen.

maggio 04, 2006

CHIEDI ALLA POLVERE (Ask the Dust), Robert Towne

Ma andate a fare in culo! Ecco, la recensione dovrebbe star tutta qua, e tanti saluti.
Però: poiché chi legge (io stesso medesimo e basta, penso) paga (?), e ha quindi sempre diritto a qualche cosa che secondo me sarebbero solo e soltanto nerbate & ghiaja in culo, però per i più dice siano spiegazioni, vediamo di dargliele. Per le nerbate, magari ripassate.
Allora, Robert Towne è un amico di vecchia data di John Fante, nonché un suo grande ammiratore. Ha firmato la sceneggiatura di Chinatown di Polanski e Toro Scatenato di Scorsese, mica cazzi. Sì, però anche di Mission Impossibile 2, checcazzo. Comunque sia, anni fa (1993) Robert Towne si è messo a scrivere una sceneggiatura da Chiedi alla polvere, in vista di un progetto che prevedeva la trasposizione cinematografica del romanzo. Contemporaneamente, pare abbia acquisito i diritti anche per La confraternita del chianti (che einaudi ha ripubblicato, al pari di tutta l’opera di fante, riproponendocela col titolo de La confratenita dell’uva e con una bella introduzione di qualche personalità di grido, com’è ormai costume. Magari c’è pure, in qualche volume della nuova serie, l’intervento – gioia! – di Ammaniti o di Baricco). A proposito, in più parrebbe anche che Peter Falk abbia acquistato i diritti per Il mio cane stupido, e abbia pensato a un futuro film con John Turturro. Per adesso, comunque, il testo è stato portato sulle scene teatrali con un monologo di Andrea Brambilla (sì, quello che faceva “si, pronto, centrale? ce l’ho qui la brioooooocheee” – si cambia tanto, nella vita), che se non regge (non potrebbe, ovvio) il paragone con l’originale, è comunque carino e godibile. Comunque sia, la sceneggiatura in questione è pubblicata in un bel volumetto nero con le consuete e orribil-improponibili (ma chi l’avrà raccomandato, quello? Che sia il padrone?) illustrazioni che da sempre contraddistinguono marcos y marcos, ed è raccolta assieme al Prologo a Chiedi alla polvere (di fatto, un’altra veloce stesura del racconto), e ad un capitolo della biografia di John Fante, scritta dal biografo ufficiale, Stephen Cooper. La sceneggiatura di Towne giunge, più o meno, al punto in cui Bandini ruba le bottiglie di latte dal furgone del lattaio amico di Hellfrick. Quindi, non molto in là.
Questo, per quel che riguarda l’antefatto. Per rilanciare in allegria, mettiamo sul piatto anche che il film è prodotto da Tom Cruise (!), e che gli attori sono Colin Farrell, che sta sempre in canottiera e ha un bel fisico ed è pure un po sexy, e Salma Hayek, che nelle interviste di presentazione ha rilasciato meravigliose dichiarazioni del tipo “il libro non l’ho mai letto”, “la sceneggiatura l’ho letta una volta anni fa, ma non ci ho capito nulla. Poi l’ho riletta a distanza di anni, e allora mi è piaciuta, e ho capito perché: non ero abbastanza matura, prima”.
Il film è mostruoso. Da un certo punto in poi, si passa all’invenzione e al caos più totale, e probabilmente John Fante sarà lì che si rivolta nella tomba, cieco e senza gambe com’è finito, povero lui. Arturo Bandini e Camilla Lopez finiscono a villeggiare senza motivo dentro ad uno stucchevole paesaggio che fa molto pubblicità-Nivea: casa in riva al mare, amorevole veranda, spiaggia deserta e pseudo-selvaggia, cucciolo tenero & dolce, bambini giapponesi (?) che si ritrovano davanti casa loro per giocare, la mattina, a rugby (con camilla – che si trova per l’occasione un paio di pantaloni – e arturo che partecipano); arturo che insegna teneramente a leggere a camilla, sdraiato con lei sul letto con un libro di favole, interrogandola poi per un misterioso quanto improbabile esame per la cittadinanza americana (“quante stelle ha la bandiera americana?”, ecc ecc). Poi i due trombano (e ce la fanno vedere proprio tutta, così, tanto per metterci anche l’immancabile scena di sesso – il culo di Colin Farrell-Bandini, Camilla che apre le gambe, e via e via), vanno al cinema, si confrontano su temi quali l’immigrazione e la discriminazione razziale, lei lo lascia perché lui non la vuole sposare, e via e via.
Insomma, son cose belle; pare quasi che, arrivati a metà del film si sia intromesso il produttore (Tom-Cruise-dopo-la-cura, quella che lo ha dotato della quarta espressione di cui è attualmente capace - quella con l'occhio pio e il sopracciglio alzato) e abbia detto qualcosa del tipo:
“ma che è ‘sta roba? ora mi son rotto il cazzo, e ora la scrivo io un po’, la sceneggiatura. Vedrai la facevo meglio io del JohnFante, lì. Che vi credete, io ho recitato pure con kubrick, ora ve lo faccio vedere io chi è quello che sa, qui!”
E ci s’è messo d’impegno. Questo è il risultato: imbarazzante, che fa perdere non tanto e non solo la trama del romanzo ma, in tutto e per tutto lo spirito su cui si basa, riducendolo a un insulso feuilleton degno tutt'al più di una fiction televisiva con Martina Stella o Elisabetta Canalis.
Un pappone melenso, ridicolo e inverosimile, che si chiude con la morte (!) di Camilla, la sparizione (forzata, fuori luogo e inutile) di Sammy il barista e con un bandini che si è fatto crescere non si sa bene come e perché, i baffi e torna, con tanto di cane-ormai-cresciuto, proprio il suo cane mi pare ovvio, sul luogo in cui aveva a suo tempo seppellito (!) il corpo di camilla, le ultime parole della quale erano state “non mi lasciare mai”. Poi, di punto in bianco, era schiantata. Perché di tisi si muore così, pare. Si tossisce un po’, si sputa un po’ di sangue, e poi si muore in silenzio e tranquilli tranquilli. Abbracciati lagrimevolmente al proprio amore & tesoro, che veniamo a sapere è "cresciuto dentro di lei, come un bambino" (???).
Decenti, almeno per gli inizi (fin quando il film segue, più o meno, l’andamento del romanzo) i personaggi di Hellfrick e di Sammy, nonché la fotografia (un po’ troppo abusato l’effetto “grande depressione”, con quel tono di giallo-vecchio-oro, ma tutto sommato ok)
Nessuno, fra quelli che se ne sono occupati dopo (ma l’avranno letto, il libro?), ha detto nulla riguardo alla totale diversità del romanzo di John Fante, nemmeno sulla trama. E all’inizio del film si trova scritto “based upon the novel ask the dust, by John Fante”.
Ragion per cui, quindi:
Ma andate a fare in culo! NERBATE & GHIAJA IN CULO. A tutti voi

gennaio 23, 2006

G. LOVISOTTO e un sacco (ahimè!) di altra gente, Chick-lit

Berlusconi e il suo corteggio di mentecatti, il Grande Fratello 6, MariaDeFilippi e i suoi Amici, LapoElkann che lo piglia nel culo, le appassionanti vicende sessual-sentimentali di chili e chili di VIPS. Si può cadere più in basso? Certo che sì, siamo in Italia. E allora eccoci: c’è la chick-lit. Direttamente dagli USA, dai quali abbiamo la grande capacità di importare solo il peggio, arrivano orde di triste trentenni scatenate, pronte a raccontarci le loro avventure, perlopiù in sindacato (gruppo di amiche – immancabile), davanti ai drink dell’happy hour, o a casa dell’amica di turno. E allora via con supreme verità di vita (quando va bene, profonde banalità fatte passare per acute riflessioni) e pruriginosi resoconti sessuali, o con leggere (stucchevoli) constatazioni sull’universo maschile, che magari piscia fuori dal vaso o pensa solo al calcio o al sesso, per finire il tutto con le solite disquisizioni su locali & abiti, scarpe & sesso, il tutto condito da termini quali trendy, glamour, strafigo e via così, ivi inclusa l’immancabile sigarettina fra le dita, tenuta col gesto vezzoso di chi vuole apparire, sì, ma una misera parete bianca, una stanza vuota, una stolida ricca sì, ma d’insipienza d’animo.
Bridget Jones docet. Sex and the city docet. Io avrei dato cinquant’anni di carcere a vita agli autori, agli interpreti, ai produttori. Ma dice siamo in democrazia e quindi ognuno può (deve?) dire la sua.
E poi vorrebbero pure esser simpatiche, ché stanno lì a vomitarti battutine & luoghi comuni che nemmeno al peggior Zelig o Cabaret. Si dovrebbe solo compatirle, le autrici di chick-lit. Già di per sé la definizione dovrebbe suonare offensiva, ma loro se ne fanno vanto & bandiera; e quindi ciarlano, ciarlano, ciarlano…
Non sanno cosa fare della propria vita? Si leggano un libro. Un libro vero. O scopino (senza poi per forza volercelo raccontare) a destra e a manca. O magari si buttino nel mondo della droga. Tutto, meglio della chick-lit (o di Forza Italia, le cui iscritte però - penso - coincidano, come autrici o lettrici).
E poi ti diranno: ok, ma non t’arrabbiare, ché la loro non è letteratura. E loro lo sanno, ci mancherebbe. Certo. E LORO LE PUBBLICANO, si potrebbe aggiungere. E a corsa, spuntano pure come funghi. E andate in culo, di cuore, tanto per chiudere.