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marzo 06, 2011

THE FIGHTER, David O. Russell

Aaah, un film di bocs! Adoro i film di bocs.
Anche se spesso grondano retorica, se raccontano la stessa identica storia del pugile venuto su dal nulla che sembra spacciato e che alla fine ce la fa; anche se ci squadernano netto davanti agli occhi il solito conflitto tra il buono e il cattivo, con (non solo) la vittoria del primo (ma anche!), e redenzione finale del secondo.
Perché – ormai solo sul grande schermo, dacché non si danno più notizie di uno sport sicuramente troppo brutale e pericoloso ma coi suoi innegabili e ancestrali fascini, almeno finché c'è stato qualcuno che lo praticava, prima cioè del circo-frullatore mediatico super-sponsorizzato a svilire invariabilmente e inevitabilmente, quale più quale meno (questo di sicuro in massimo grado), ogni tipo di sport – al cinema questi film riescono comunque sia ad esprimere una magia tutta particolare, spesso inserita in un quadro di fondo di miseria e crudo realismo, e il "romanzato grosso" dei combattimenti fa battere forte il cuore fino a farti sentir lì, col pugile, sorta di aggiornamento dell'epica all'età nostra moderna. Forse sarà una formula preconfezionata, e buona per suscitare emozioni squadrate e a buon mercato? Forse, ma non sempre è così. Io nel dubbio mi sono guardato avidamente molti film di bocs, ogni volta come godersi un buon pasto: lo pseudo-biografico Toro Scatenato di Scorsese, il caposaldo Rocky (da cui, nel presente, qualche inevitabile ma discreta citazione), che pure tanti danni ha fatto con suoi inutilissimi seguiti, lo stellare The Million Dollar Baby, che tanto ti colpisce in profondità da non poterlo riguardare fino in fondo - aaah, Clint Eastwood, c'è qualcosa che tu faccia male? - l'inevitabile Alì, che seppure di Micheal Mann si fa pur sempre guardare. Cinderella man no, ché è un film di Ricky Cunnigham-Ron Howard (quale dei due è quello vero?) coll'attualmente bolso Russel Crowe e a tutto ci sarà pure un limite, cazzo.
Ma tiriamo qui una riga.
Tutto quando dicevamo sopra (realtà degradata, miseria incipiente, fallito che si redime nel successo, rozzezza dei dintorni) c'è e non ci poteva non essere in un film del e di genere (valgono un po' gli stessi parametri di quando uno comincia a denunciare “i soliti luoghi comuni” che ci vengon propinati quando qualcuno discetta dei film sulla danza – fino a che punto si può parlare di luoghi comuni e fino a che punto di una fotografia innocente? Voglio dire, in fondo ogni mondo ha i suoi cliché!), ma c'è anche molto di più. Anzitutto, e non è poco, si evita il patetismo e la parabola a zuccheroso lieto fine, ché Micky Ward (Mark Whalberg, forse un po' troppo pompato e culturista nonché, almeno a mio parere, un po' troppo massiccio per un peso Welter's) – chiusa del film, con didascalia prima dei titoli di coda – arriverà a combattere con Alfonso Gatto e saranno tre massacri e cifre a nove zeri. Non gloria, non vittoria, non nobiltà del combattimento e del combattente: cifre a nove zeri. Questo, quel che voleva l'avida e concretissima e abbrutita famiglia di lui; questo quello che ottiene. Lui stesso e la ragazza Charlene (barista bella ma sciupata di provincia, puttana perché ha studiato, o almeno ha iniziato, agli occhi dello sciattissimo sciame di sorelle) non sono poi quegli angeli sensibili e caduti loro malgrado nel sobborgo d'inferno, e anche lei pur nella sua maggior grazia rispetto agli altri strepita volgarità e picchia duro; lui vuole arrivare, milioni di dollari, succube dell'atmosfera asfissiante della provincia più degradata e “familizzata” - solo, un po' meno degli altri che paiono veramente degli zotici al limite dell'umano e ti fanno augurare che – come Dogville – Lowell venga presto cancellata dalla carta geografica.
Insomma, la bocs c'entra fino a un certo punto: c'è una cittadina degradata e gretta oltre ogni immaginazione, una popolazione di povere anime mediamente limitate e chiuse su se stesse e le loro miserie, spacciate per secondi di orgogliosa gloria agli occhi del mondo (una gloria da mantener viva omaggiando la leggenda locale e tramandando oralmente, magari anche trasfigurandoli, quei ricordi); una famiglia-clan castrante e brutale, che sembra uscita dalla penna di un Bukowski più acido del solito o di un Orwell con la gastrite. C'è la matriarca, patetica cinquantenne che macina sigarette e rossetti, si cotona i capelli e si mette la minigonna da adolescente, dicendosi manager di bocs degli idolatrati figli – un ritratto che tocca, nella sua crudeltà e crudezza (mentre si gioca forse un po' troppo d'abbondanza e di gusto dell'orrido, con le sette trucissime sorelle), e vi basterebbe aver fatto qualche torneo di calcetto nella vostra cittadina per poter dire d'aver visto qualcosa di simile - poi, si sa, in America tutto è più grande!
E poi c'è Christian Bale, straordinario, magnifico; una prova d'attore degna dello Sean Penn di Milk, del Philip-Seymour Hoffman di Capote, del Pacino in Carlito's Way, o di chiunque vogliate: mai Oscar come miglior attore non protagonista fu più meritato (l'altro lo ha preso Melissa Leo, la mostruosa madre-manager-capoclan).
Sì, perché la parte della Leggenda Locale, seduta sul suo quarto d'ora di celebrità di andywharoliana memoria, in tuta larga da tossico, cieca alla sue quotidianità di miseria e disfatta ormai dal crack che consuma regolarmente in una sgangheratissima factory multietnica, è ricreata con una mimesi veramente strabiliante dall'attore: negli occhi, nelle movenze, nel fisico, in tutto.
A volte – come in questo caso – sono i dettagli che emozionano, in un film, e la perfezione si può dare nella vicenda, nella regia, nella fotografia, nelle sensazioni forti che il film ti fa provare, in una prova d'attore: qui, seppur il senso di “asfissia da famiglia-tribù” sia forte e rappresentato così realisticamente da indurti per simpatia (beninteso, nel senso di "processo simpatetico", non di corrispondenza d'amorosi sensi) uno stato d'ansia; seppure la gretta cittadina abbandonata arrivi a soppiantare la Philadelphia desolatamente industriale di Rocky; seppure i combattimenti e la vicenda totalizzante (non c'è redenzione al di fuori della boxe, nell'inferno della mediocrità di provincia) di Micky Ward sappiano dare emozioni grosse e ti ritrovi a guardare avido, attento a non perdere nemmeno un colpo quasi tu fossi un giudice di sedia; – anche ammesso tutto questo, il titolo e gli onori li calamita tutti lui, il meraviglioso co-protagonista, inconsapevolmente ritratto (lui e a madre nella loro autoreferenzialità cieca e senza ragionevolezze di sorta, pensano che si tratti di un film sul suo ritorno all'attività agonistica!) nel documentario che la HBO va su di lui facendo per documentare gli effetti di una vita persa nella droga, e la bellezza del film è forse tutta nella furiosa corsa dello scheletrico Dicky Eklund via dalla polizia che lo insegue; nella sua maglietta grigia sudata e catene al collo; nel suo incontrarsi pietoso col Campione la cui strada tempo addietro ebbe modo di sfiorare e sulla cui luce ancora vive ancorato, con quello che quasi non lo riconosce; nel suo modo di parlare che da solo basta più di mille concetti.
Emozionante: più, e al di là, della Boxe.

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