Visite

marzo 09, 2011

BURLESQUE, Steve Antin

Avete voglia di vedere un lunghissimo video musicale con melismi aggressivi e assolutamente fini a se stessi, urlati (esattamente: urlati) senza senso né gran musicalità? Tizi particolarmente glamour e senza un pelo, sempre a torso nudo, vestiti alla guisa marziana, e che costantemente gesticolano in modo smaccatamente cool; o figlioline discinte che sculettano e urlano su canzoni senza nessuna piacevolezza o orecchiabilità sotto luci accecanti e ambiente rintronante?
Detta così è dura, eh? E si pensi che nemmeno il confezionamento a tavolino con tutte le arti (quali?) del marketing fa cambiare al prodotto la sua allure finale, quella che passa al pubblico. Sai già a cosa andrai incontro quando ti siedi sulla tua bella poltrona. Puoi solo sperare – non dico di divertirti godurioso come un porcello nel brago come in Mamma Mia! - che come per Chicago, almeno le canzoni siano belle e la storia godibile.
Ma è una speranza vana, e quindi ti sorbisci la solita "Success Story" trita e ancor più svilita del solito: una ragazzetta di provincia lascia la medesima sdilinquendosi d'eroici furori di gloria e giunge nella mecca d'ogni peccato e d'ogni occasione, Los Angeles (potrebbe anche essere Peccioli, vediamo solo un albergo all'inizio e una villa più o meno lussuosa che il barista bello coll'eye-liner ci gabella come suo appartamento – per il resto conta il buio del locale), finendo ben presto – a parte i soldi (anche rapinata - ragazza mia, ma ce l'hai proprio tutte, eh?), com'è d'uopo per farci apparir simpaticamente sfortunato il personaggio – in un locale non ben identificato - un locale dove si balla, dove si fan spogliarelli più o meno innocenti (appunto 'sto cazzo di burlesque che da qualche anno a questa parte ci vogliono a tutti i costi presentare – chissà perché – come divertente, o artistico, o interessante, vai un po' a capire); dove si canta, dove suonano dal vivo, dove servono da bere, dove c'è il DJ in consolle? Io sinceramente non l'ho capito - è un po' l'uno un po l'altro, forse (peraltro, essendo un locale gestito da un Organismo Geneticamente Modificato e Plastificato, etichettato chissà perché nei titoli di testa come “Cher”, non è che si possa pretendere chissà cosa); poi a un certo punto Christina Aguilera – il cui ingresso nel cinema poteva anche esserci risparmiato, mettiamola così – si mette in testa di fare un provino perché ovviamente nelle Success Story la trota di campagna ha sempre del talento che cova sotto la pelle, e prende in mano un microfono (che poi non avrà quando canterà davanti al pubblico – magia delle magie) e comincia a urlare su non si sa bene che base che un tizio da qualche parte in alto, appunto una consolle tipo la più maranza delle discoteche, gli mette. La fintamente burbera padrona del locale – ovviamente: locale in crisi, conti da pagare, debiti, tentativi di acquisizione da parte di avidi e subdoli immobiliaristi di plastica respinti in nome – ne resta affascinata (la sera dopo lo stesso tizio in consolle, a un'ora non ben precisata della notte, metterà un'altra base, stavolta qualcosa di soft - se cantasse qualcosa di movimentato probabilmente le partirebbe una vena sul collo - per lei, e ci dovremo sorbire pure la pletorica ballata notturna del cyborg) e per quel che le consentono le sue limitate capacità di movimento dovute ai troppi rendering chirugico-computeristici, la vorrebbe abbracciare ma non ce la fa.
Seguono (e, ahimè, precedono) svariati numeri musical-canori buttati là un po' a casaccio, arruffati, urlati, senza nessuna piacevolezza per l'ascolto, mentre sullo sfondo si svolgono i consueti drammoni del genere: l'amore (si capiva in realtà da prima che iniziasse il film) che sboccia incerto tra la protagonista dotata di talento e il barista bello coll'eye-liner che anche lui poi si scopre essere uno di provincia con un talento (si badi il caso: scrive – invero, pessime - canzoni. E per chi le scriverà, poi, indovinate un po'?), solo però che quest'ultimo ha prima da risolvere nobilmente il suo conflitto con la precedente ragazza, che si trova a New York a studiare recitazione (uno che lavori senza un talento ci sarà?); le marginali peripezie appiccicate con lo sputo delle altre ragazze di fila: quella messa incinta da Tizio, con relativo matrimonio riparatore e in grande stile; la starlette spodestata, meschina e viziata (pure bruttina, vedrai ha anche l'alitosi), col vizio del bere, che però alla fine torna all'ovile, redenta ma non troppo; verità profonde enunciate ed amori gay tra l'assistente checca isterica (Stanley Tucci - che attore sprecato!) e un tizio bello e muscoloso; il passaggio nel lato oscuro della protagonista la quale – manco a dirlo – nel primo periodo del suo nuovo successo si monta la testa e fa cose tipo vestirsi a cazzo con scarpe di vetro, darla al malvagio palazzinaro piacione, e via discorrendo, finché si redime, salva con un abile coup-de-théâtre il locale (in sostanza: il palazzinaro piacione vuol comprare il Burlesque Lounge della pixarizzata Cher per tirarci su il grattacielo più alto di Los Angeles; la nostra eroina mette a nudo le sue mire, apre gli occhi e trascina in fretta e furia la pantagruelica proprietaria dal tizio detentore finora di simile ammirabilissimo record, dicendogli: “coso, non vorrai mica che qualcun altro ce l'abbia più grosso di te, eh?”, e quello gli firma un contratto di acquisto del Burlesque Lounge, accollandosi tutti i debiti e promettendo di lasciarlo in gestione alla fissa e pinatissima Cher, la cui prima canzone, Welcome to Burlesque, non era male, e faceva davvero sperare in qualcosa di meglio).
Insomma, alla fine c'è solo da esser felici che tutto si sia risolto per il meglio e che (soprattutto) sia finito. Il tempo di visione effettivo è 115 minuti; quello percepito è pari a quello effettivo di America Oggi (per il quale varrebbe invece il discorso inverso).
La regia è un continuo clip musicale; la sceneggiatura è quel che è.
Si dirà: ma la parte trainante e quel che fa grande questo genere di film sono i pezzi cantati!
Ecco, appunto.

Nessun commento: