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settembre 07, 2004

D. DE LILLO, Great Jones Street

(Le favolose recensioni di Bambèdo Cugnas, paperogonfio a rate, impiegato presso il CEAP (Centro Elettrodomestici A Pile) e nEpote di Fuffy, Pimpy, Tinty & dello Stronzolo Gigante. Altrimenti detto, IL DOTTOR MERDA)

Una Rockstar misticheggiante e trasgressiva, Bucky Wunderlick, sente la vacuità di tutto il suo (e non solo il suo) mondo, e decide che è venuto il tempo di mollare tutto. In incognito, quindi, va a rintanarsi in uno scalcinato appartamento nei bassifondi di New York, in Great Jones Street, appartamento della sua altrettanto allucinata compagna, una groupie al momento misteriosamente assente, forse spersa in qualche polveroso paese “senza tempo”.
Riusciranno comunque a trovarlo; e alla sua porta ecco quindi tutta una serie di personaggi: il manager, funzionari della holding che detiene i diritti delle creazioni di Bucky, tormentati scrittori pseudo-falliti del piano di sopra e vedove con figlio gravemente handicappato del piano di sotto, misteriosi emissari di una Comune agricola che ha appena inventato una nuova e (presumibilmente) potentissima droga, e che vorrebbe coinvolgerlo nello smercio, fino a possibili e altrettanto allucinati acquirenti di questa.
Tra pensieri straniati e meditazioni contorte, tra il ritorno di Opel (la groupie, che si rivela tra l’altro l’anello di congiunzione fra la Comune Agricola e il laboratorio clandestino che dovrebbe analizzare la nuova droga – e anche lì, il dottore che lo presiede mostrerà connotati pazzoidi e diabolici, sinistri e allucinati) e pressanti richieste della casa discografica (che in mancanza di nuovo materiale sottrarrà con l’inganno vecchie e del tutto personali e sconclusionate registrazioni dell’“artista”) Bucky Wunderlick si renderà conto una volta di più che non gli è possibile ormai alcun ritiro, alcun silenzio: quel suo mondo lo ha definitivamente inglobato e lo possiede, e non esiste più nessuna libertà di scelta, nessuna cosa che dipenda solo da se stesso. Anche lui è niente più che un prodotto, e un prodotto si vende, con altri che, a tavolino, decidono tutti i suoi destini. Tutto questo lo stritolerà, e alla fine sarà la Comunità Agricola a ridurlo al silenzio, perpetrando così la sua leggenda per i milioni di fan e occhi che comunque inevitabilmente a lui guardano e lui cercano.
Tutto questo, quindi, per una corrosiva satira del mondo del rock, dell’industria dello spettacolo e delle arti americana. Credibile, certo, Bucky Wunderlick nella sua ossessività (compaiono anche i suoi testi, dagli album del passato), e ottime alcune tirate di qualche personaggio (su tutti Globke, il manager, sulla vendibilità di un “prodotto”, cap. 24; ma anche i vari concioni di Fenig, lo scrittore, sul concetto di mercato, sparsi qua e là), ma nel complesso il libro non riesce a interessare. Stanca, e tra un errore di traduzione e/o sintassi e l’altro si rivela troppo gonfio, troppo denso, come spesso capita quando c’è di mezzo DeLillo. È come se tutto fosse pretesto per un interminabile esibizione di bravura, un virtuosismo continuo, che porta sempre lo scrittore a indugiare troppo su concetti deliranti, sulla meditazione fine a se stessa e che si compiace di certe assurdità. Non è un caso infatti che il libro susciti maggiore interesse e coinvolgimento all’inizio, quando cioè la vicenda viene presentata, e (soprattutto) verso la fine, quando cioè il corso degli eventi è più serrato e va effettivamente verso qualcosa, quando insomma i nodi vengono al pettine e la vicenda torna a riemergere un po’ più chiara e meno sommersa e annacquata da tutti i pensieri pletorici e contorcimenti stilistici. Scremando un po’, insomma… ma DeLillo vuole sempre che chi legge rimanga ammirato dalla sua proprietà di linguaggio, dalla sua capacità di maneggiare idee, fino a fartici perdere. È una costante sua e di altri, Salman Rushdie e Philip Roth, ad esempio. Ma di questi solo l’ultimo riesce davvero, anche a questo prezzo, a prenderti. E nemmeno sempre, tra l’altro. Qui, dopo un po’ ci si annoia, pur ammirando, e nel caso specifico tutto – quasi tutto – è troppo assurdo e allucinato. La trama in sé (e anche l’inizio: “la celebrità, questo tipo particolare di celebrità, si nutre di oltraggi, di quello che i consiglieri di uomini di statura ben minore definirebbero pessime relazioni pubbliche: scene isteriche dentro limousine, litigi tradimenti, pandemonio, droghe”) farebbe pensare a qualcosa di meglio e di diverso, a un Glamorama (ma Bret Easton Ellis rimane comunque un citrullo e poco più) del mondo alternativo (pseudo-alternativo) e psichedelico, rock e ribelle (pseudo-ribelle), che fallisce però, contaminato dallo stile eccessivo e manieristico dell’autore.

Nel complesso, dato che il DOTTOR MERDA™ ha da dare i voti, e lui li dà da uno a dieci (che sennò pare abbia copiato IBS, e ciò non è giuste oltreché bello) vi dice che questo libro vale 6.5. O anche 6, dipende da quel che ha sognato stanotte e da come le stelle gli sono propyzie.
E se ciò non vi va bene, protestate pure. Tanto non v'ascolto.

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