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ottobre 18, 2003

ELEPHANT, Gus Van Sant

Piccola premessa veloce: dunque, la visione del film ce l’ha sciupata il cassiere del multisala dove siamo andati a vederlo (che ora non nomino – il multisala non il cassiere, abbiate pazienza mi incasino sempre con l’intreccio dei complementi – per non far pubblicità, o anzi sì lo nomino tanto che me frega, era il Vis Pathé, di Campi Bisenzio per chi non lo sapesse), dal momento che ha pensato bene di incoraggiare i nostri dubbi dicendoci qualcosa tipo: “ehi, andate a vedere Elephant. Tutti quelli che l’hanno visto mi hanno detto che è BBBBEEEEEELLO!”. Al che abbiamo provato a rispondere, imbarazzati: “ok, ma noi volevamo un’altra stronzatona, tipo Terminatortre, hai presente…”; “stronzata? Io sono qui che aspetto a gloria il 4, e voi mi dite che è una stronzata?”. Ok, comunque sia poi erano pronti i nostri biglietti, e abbiamo chiuso lì la conversazione. Che andasse per Elephant, COME ON!
E allora, in ordine sparso: Scoprendo Forrester; Cowgirl, Il nuovo Sesso; Will Hunting – Genio Ribelle (e sospendiamo il giudizio su Psycho, che tutto sommato può anche andare, forse). È solo l’elenco dei film firmati dal nostro Gastone, fin qui. E basterebbe quello. Ma invece, poiché siamo buoni, si continua. In fondo, Elephant è una cosa diversa; tutto sommato non così BBBBBBEEEEELLO come si potrebbe pensare, ma ovviamente altro rispetto ai precedenti.
Positività del film: dura poco, e poi puoi divertirti a guardare le facce stranite degli altri spettatori. Cercando di evitare quelli che vanno lì perché loro sono intellettualoni, loro di qua loro di là, insomma. Li riconosci perché vestono alternativo. E discutono, discutono, discutono. Negatività: spesso si parla troppo “intellettualese”. Sennò non ci andrebbero i suddetti, è anche chiaro. E la pesantezza del film-documento si fa sentire, anche se non ai livelli di quelli mediorientali o italiani o indiani.
Ma soprattutto: il film comincia, e la telecamera inquadra il cielo, fissa, ferma, immobile. Un palo della luce, qualche nuvola, la musica di Beethoven sotto (Chiaro di luna, primo movimento – famossissimo, si vuol fare tanto gli intelligentoni e poi c’è un pezzo così… così… abusato? Ok, il suo effetto lo fa sempre, però perché no allora i Trois Gymnopedies di Erik Satie? O altro?). La cosa si ripete altre due volte nel corso del film. Più o meno a metà, e alla fine, così tanto per gradire. È lecito (più che lecito, insomma) chiedersi: “ma che cazzo vuoi, GusVanSant? Si ok, tussei proprio bravino… aaah ma quanto sono ammirato; questa sì che è arte! Ma te l’ha suggerito Diane Keaton? No, visto che produce…
Drammatizzazione di un evento accaduto realmente, come tutti sanno, Elephant è interessante nella realizzazione tecnica: la telecamera ferma sul campo di gioco, con gli studenti che entrano ed escono dal campo visivo giocando a football, o correndo; la ragazza bruttina che rientrando negli spogliatoi sente le voci maligne delle compagne che la prendono in giro; i lunghi piani-sequenza che seguono gli allievi per i corridoi (anche se in questo caso si può dire che il troppo stroppia, caro il mio Gus Van Sant); il tempo che torna indietro, seguendo ogni volta la giornata di uno dei protagonisti (idem come sopra, però, alla lunga).
Quantomeno, è un modo molto originale di raccontare una storia. Quasi affascinante, se si evitano certi eccessi, il cui esempio lampante è certo il cielo inquadrato fisso senza una ragione ben precisa, gratuito. Altra cosa è che forse si manca un po’ in coerenza: i personaggi ci vengono presentati in sequenza, introdotti sempre dal nome del ragazzo in questione. Come fossero una serie di brevi episodi. La macchina da presa, ovviamente, li segue ogni volta, incrociandoli con gli altri quando le strade dei singoli personaggi si incontrano. Niente ci viene risparmiato, insomma: per quattro volte, ad esempio, da quattro punti di vista diversi assistiamo all’incontro del fotografo e del biondino (a proposito… ma perché lui non viene fatto fuori? Proprio LUI??? Cazzo, ci saremmo risparmiati un futuro membro di boy-band, quello biondino e tenero, target per le teenager diligenti a scuola!) nel corridoio, a seconda che la scena sia vissuta dall’uno, dall’altro, dalla ragazza bruttina e ancora. Tutto questo può essere bello, ma come dicevo, pare mancare un po’ di organicità: perché, così per dirne una, viene presentata con tanto di titolo e storia seguita passo passo, la ragazza bruttina e presa in giro, e non le tre amiche? Perché il fotografo sì, e la coppietta di ragazzi no? Eppure, i primi non hanno affatto qualcosa in più rispetto ai secondi, nessuna funzione particolare. Se ne presenta solo qualcuno, a caso. Ed è chiaro quindi che il gioco perde di significato. Che i due assassini non siano presentati per ultimi, come gran finale pirotecnico, si può anche accettare: magari si vuol far notare come questi siano “due fra mille”, classici adolescenti che non escono dalla media, al di sopra di ogni preventivo sospetto e così via, ma perché tutto il resto? O si presentano tutte le figure principali, o nessuna. Sarebbe venuto un film troppo lungo?
Un po’ semplicistico inoltre il fatto che i due siano degli sfigati ed inetti Nerds, presi selvaggiamente per il culo da un po’ tutta la classe e istituto, capaci poi di trasformarsi in due perfetti Commandos e di concepire un piano diabolico come quello. E che infine (particolare immancabile!) si riducano a far finocchierie nella doccia perché le ragazze vuoi mica che li considerino, due coglioni così? “Io non ho ancora baciato nessuno…”, e giù verga.
Bello (e purtroppo realistico – e giusto tutto sommato che non ci sia nessuna critica, perché l’occhio della telecamera qui ha da riprendere e basta, non da giudicare) il chiacchiericcio tra le tre amiche alla mensa (anche se pare evidente lo “strappo” temporale, tra il momento in cui si siedono al tavolo e quello in cui si alzano: sono passati solo un paio di minuti!), concluso da una capatina in bagno a vomitare, da brave adolescenti anoressiche. E soprattutto, perfetta l'esecuzione dilettantistica di Per Elisa prima e del Chiaro di luna poi, del Rambo #1, tutta giocata non sulle stecche, ma su tanto pedale, sulla mano sinistra pesante, su rallentamenti dovuti alla difficoltà, sulla mancanza di mezzi-toni, ecc. Perfetto, lì, come doveva essere: esattamente come l'avrebbe suonata un dilettante scarso. Un particolare degno di Kubrick.
Ma la figura finale, quella che beh si insomma ci voleva se ne sentiva proprio il bisogno, è il ragazzo di colore che passa qua e là, vestito da stella del basket NBA. Questo (possibile, ma probabilissimo) Allen Iverson dei poveri, non dice mai nulla; appare come un messia per i corridoi rimbombanti di esplosioni e di panico studentesco e cammina piano, guardandosi intorno silenzioso, come in trance. Aiuta, da buon santone, una ragazza a fuggire dalla finestra, prendendola dolcemente per mano, e poi che fa? Non esce anche lui – sa una sega cosa succede, il cretino – ma continua a camminare assente per i corridoi, finché si imbatte nel Rambo #2, il quale sta gambizzando il preside. Cerca di fare finta di nulla, ma l’altro lo vede e gli spara. Il commento che gli riserva poi è: “che stronzo!”. Ha ragione anche lui, insomma… (a proposito, la lezione di gruppo che si teneva nell’aula lì vicino era qualcosa del tipo “Come si riconosce un frocio rispetto alla media? Dalla camminata?” – logico che i due John Rambo, lì, si siano incazzati!)
Ok, ma tutto sommato è un film che si può anche vedere, in fondo dura 80 minuti e, ripeto, il montaggio, la fotografia, l’atmosfera, non sono male. Ma togliamo quel cazzo di inquadratura sul cielo, perdio! Spocchia, spocchia, spocchia…

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