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febbraio 18, 2014

INSIDE LLEWYN DAVIS, Joel & Ethan Coen

Siamo nel 2000. Da un pezzo. Tra un po' si entra nella terza decade - o è la seconda? Faccio sempre un po' di confusione, con 'ste cose. Nel 2014, la prima decade è finita, no; e fin lì. La seconda è quella in cui siamo, quindi forse, insomma, sì... ma comunque sia, eh.
Comunque sia: per dire che se anche c'è una -Y, o una -W, o insomma una parola un po' desueta per l'italiano medio, s-i-p-u-ò-a-n-c-h-e-l-a-s-c-i-a-r-e, eccheccazzo. Dovrebbero esser finiti i tempi in cui c'era da mettere la -G eufonica nel nome Callahan, o la -L naturalizzante a Princess Leya o peggio (Boe per Moe, Lord Fenner per Darth Vader, etc), sol perché - già, perché, anche allora? Omaggio all'ignoranza dell'italiano medio? Autarchica salvaguardia dell'italico idioma?
Chissene. Volevo solo notare quanto poco senso abbia rinominare A proposito di Davis un titolo che in originale sarebbe Inside Llewyn Davis, dal titolo di un album dello stesso protagonista, nome gallese anche se su tutto quel che viene dal Galles avrebbe qualcosa da ridire Mr. Roland Turner, splendido John Goodman versione jazzman tossico, splendidamente sentenziante "à la Coen" (davvero: si recuperano in tutto e per tutto le vette di The Big Lebowski, in quella macchina!) con citazione da Bird di Clint Eastwood en passant, tanto per gradire ("nel jazz suoniamo tutte e dodici le note... non sol... sol sol do... sol do!" - che tanto ricorda il "che c'è di tanto straordinario a suonare sempre si bemolle?" di Forest Whitaker che prova incredulo il sassofono dell'astro nascente del "nuovo" rythm'n blues).
Il film è un puro gioiello, una O di Giotto, un cerchio perfetto che torna su se stesso senza che niente sia successo, in definitiva. E la fine è uguale all'inizio, non a caso; si viaggia ma forse non ci si muove davvero, cantami, o Musa dell'uomo che tanto vagò: e il bel gatto si chiama Ulisse - ancora una volta l'Odissea, come in quanti altri film del meraviglioso duo; si intraprende un viaggio, si intrecciano relazioni e si fanno esperienze, ma si torna invariabilmente al punto di partenza, e niente è cambiato, o se qualcosa lo è, è solo per una manifestazione del divino nella tua routine quotidiana, un'epifania che da te non dipende e che non puoi comandare: Dylan, la chitarra e l'armonica, e senti che il vento è cambiato e s'incrina qualcosa nel (tuo: piccolo, misero) cerchio.
Al di là della vicenda della musica folk, che può appassionare forse relativamente un pubblico diverso da quello statunitense o comunque anglofono, la vicenda di Llewyn Davis è un viaggio utopico e niente affatto formativo: utopico perché il protagonista vorrebbe salvaguardare (e salvaguardarsi, senza compromessi) una purezza & indipendenza artistica impossibile già nel 1961, nel contempo evitando le fauci del Mostro, il tritacarne pronto a ingoiarti, digerirti e risputarti ormai consunto e esaurito ingranaggio del sistema, nemmen più buono per andare al bagno da solo; non formativo perché l'Ulisse di turno sa che le prove che deve superare non le supererà, invariabilmente e inevitabilmente, ma farà solo presenza, con un contegno a metà fra il passivo e il dimesso, con lo stato d'animo di chi sa che un'alternativa non c'è, se non quella di sognare che la vita non sia semplicemente esistere: esistere per cacciare il branco di sardine.  
L'alternativa ci sarebbe eccome, e il sogno sarebbe realtà: mi bisognerebbe essere Bob Dylan. 
Così l'Odissea avrebbe avuto un senso e una (almeno temporanea - per il resto, poi, siamo sempre in viaggio: ne sarebbe presto iniziato un altro, destinazioni e sfide ignote, tra svolte elettriche e altre parole) fine: e l'alternativa sarebbe stata la perfezione e la purezza della propria Arte. Diversamente, il viaggio torna su se stesso, esattamente com'era iniziato, e il protagonista sa che non ne avrà niente, in nessun termine: e mentre avverte la presenza sul palco di tutto quello che ha cercato nella sua personale Odissea, e gira il collo avidamente (inutilmente) per assorbirlo, sta dirigendosi ancora sul retro del locale, per ricominciar daccapo e non arrivare a nulla: "Hang me, o Hang me - I'll be dead and gone... wouldn't mind the hangin...'" - la canzone è vecchia come tutte le canzoni folk, ma non smette d'avere senso.  
Liberamente ispirato alla vicenda di un cantante folk veramente esistito (Dave Van Ronk, omaggiato anche nel titolo, che riprende appunto quello di un suo album del '63 "Inside Dave Van Ronk"), il film ha una meravigliosa fotografia (il Greenwich Village doveva essere un posto maledettamente bello, nei primi anni '60!) e gronda il più puro spirito Coen, nero e surreale, stralunato e corrosivo, yiddish, tragicomico, irresistibile; con John Goodman, Frank Murray Abhram, la "tipica" famiglia ebraica (i Gorfein) e i consueti ed efficacissimi personaggi di contorno; l'ottimo protagonista (Oscar Isaac) e un fantastico gatto fulvo: ma che qualcosa che si può voler di più?

gennaio 31, 2014

AMERICAN HUSTLE - L'APPARENZA INGANNA, David O. Russel

Notevole prova del newyorkese David O. Russel, dopo l'ottimo The Fighter e il più strombazzato che effettivamente valido Silver Linings Playbook (o L'orlo argenteo delle nuvole, Oscar un po' a sproposito per Jennifer Lawrence - che lo avrebbe invece meritato per Winter's bone, film del 2010 da noi passato un po' sotto silenzio col titolo a metà fra il romantico e il crepuscolar-mieloso di Un Gelido Inverno - nonché scialbo ma edulcorato adattamento dell'omonimo romanzo, quello assai più efficace pur senza esser chissà cosa, di Matthew Quick).
Dalle dieci (anche se c'è chi riporta otto, ultimamente) nomination di cui ha fatto incetta, il film dovrebbe riportare un meritato Oscar per la miglior sceneggiatura: intricata e tesa, corale e ben condotta e sapientemente dosata, risultando efficacemente al di qua dell'orlo (assai poco argenteo, quello) della noia, a me ha ricordato quella - anche in quel caso premiata con giustissimo Oscar - dei Soliti Sospetti (il Bryan Singer pre-X-men: era il 1995), quantomeno nella qualità di scrittura e di intreccio.
Non si arriva al capolavoro, alla perfetta quadratura del cerchio, forse perché si lasciano ammirare di più le singole prove del cast che non il risultato globale, in una specie di gioco al rialzo che forse è il limite e al tempo stesso il pregio del film: nuovamente eccezionale (e siamo quantomeno a due: ricordate l'ex pugile sepolto nei fumi di crack di The Fighter?) la prova di Christian Bale, al pari di quella di Jennifer Lawrence; ma non sono da meno Jeremy Renner (fantastico Occhio di Falco Seventies style), Amy Adams e anche - sì, lo so: a me è sempre sembrato un patatone e poco più: ma qui va meglio, via, siam concilianti! - Bradley Cooper. Perfino Robert DeNiro ci fa vedere che in fondo in fondo lui c'è ancora, e sa ancora come farti venire i brividi con uno sguardo e un sopracciglio che si alza e due parole tra i silenzi. Se Oscar per qualcuno degli attori non sarà, è solo perché la campana per molti di loro è gia suonata: Bale, già premiato in sodalizio con Russel, cederà per forza di cose a  Matthew McConaughey (Dallas Buyers Club); Jennifer Lawrence è nella stessa situazione, e in più ha vinto l'anno scorso, come dicevo pure un po' a sproposito. Amy Adams, pur bravissima, è probabile debba cedere il passo a Meryl Streep (fantastica!) per August. Osage County, o anche a Judy Dench per Philomena. A volte è questione anche di "incastri".
Ma comunque sia: probabilmente, sul risultato finale pesa forse una monumentalità un po' troppo "voluta" (a partire dal gran battage pubblicitario che il film ha accompagnato fin da subito), quasi come se si volesse in tutti i modi, programmaticamente, entrare nella storia del cinema a prescindere, fin dal primo Ciak: ma la tensione che esce dalla vicenda, la sensualità sciroccata di Jennifer Lawrence e quella finto-hippy di Amy Adams, la resa del "color locale" degli anni (altro grande pregio del film è la ricostruzione, forse sì un po' cupa, ma quanto mai efficace e azzeccata nello spirito, degli anni '70, musica a costumi - con una scena, quella sì, che nella storia del cinema può entrare, sulle note di Delilah e Carmine Polito e Irving Rosenfeld che cantano sguaiati, bottiglie alla mano), la grande prova degli attori tutti, tirano su di un bel gradino quella che altrimenti sarebbe forse la solita vicenda del "giocarsi tutto alla ricerca di un posto nella vita che riscatti non importa come: basta che si tratti di un colpo grosso e risolutivo, miserie e fragilità" (così Paolo D'Agostini su Repubblica), vicenda assai tipica del cinema e della vita made in USA, in cui qualcosa a portata di mano c'è, lo senti e lo vedi e lo misuri, basta far due passi e respirare in suolo americano, a te il modo per raggiungerlo e scalare il muro, basta volersi prendere sul serio. 
Un cucchiaino di miele di troppo nel finale.

gennaio 21, 2014

THE COUNSELOR - IL PROCURATORE, Ridley Scott

CCCHHHIIIIIIIII?
Il procuratore? E chi cazzo è, nel film, un procuratore? Cosa diavolo c'entra "Il procuratore", nel titolo? Il tizio upper-class che decide di entrare nel giro della droga è un avvocato, non un procuratore. Porca miseria. Un avvocato patrocinante, per esser precisi, cioè un avvocato che sostiene la difesa in un giudizio - tra l'altro, nel film c'è pure una scena in cui l'avvocato in questione va a parlare con una sua assistita, assegnata d'ufficio. Più chiaro di così...
Counselor, poi, può significare anche Consigliere, Consulente, Patrono: cosa diamine c'entra Procuratore.
Chi le fa, 'ste cazzate? 
Ma ricominciamo.
Recensione: THE COUNSELOR, Ridley Scott
Primo Tempo
Era una notte buia e tempestosa. A un tratto echeggiò uno sparo! Una porta sbatté. La ragazza lanciò un grido.
Improvvisamente, apparve all’orizzonte una nave pirata. Mentre milioni di persone morivano di fame, il re viveva nel lusso. 
Intanto, in una piccola fattoria del Kansas, cresceva un ragazzo.

Fine primo tempo. 
(Nella seconda parte tutto ciò trova un legame). 

Secondo tempo.
Cadeva una neve leggera, e la fanciulla con lo scialle a brandelli non aveva venduto una violetta in tutto il giorno.
In quel preciso momento, un giovane interno all'ospedale civico stava facendo una importante scoperta.
La misteriosa paziente della stanza 213 si era finalmente svegliata. Emise un debole lamento.
Era possibile che si trattasse della sorella del ragazzo del Kansas che amava la fanciulla con lo scialle a brandelli che era la figlia della ragazza che era sfuggita ai pirati?
(cit.)

E invece no, che non era possibile neanche quello! No. Niente si tiene e poco si lega, e poi c'è Cameron Diaz che è veramente grottesca, e un tizio che fa l'ABOGADO in Messico che ci stiòcca un pippone assurdo sulla vita e su Machado, e c'ha uno studio che pare Amir Jafari.
E perché poi un avvocato (il Procuratore di 'sta cippa) che c'ha già un tenore di vita abbastanza alto e Penelope Cruz che gli dice che non potrà andare più con nessun altro, s'ha da andare a mettere nel giro della droga? (ok, si dirà: avidità - e grazie al pyffero, tutto qui???). Non le poteva comprare un anello un po' meno costoso, senza andarglielo a prendere ad Amsterdam da Bruno Ganz, doppiato ridicolmente da SandroCiotti redivivo?
E perché soprattutto Cormac McCarthy s'è prestato a questo gioco, tirando fuori una sceneggiatura tutta verbose & insopportabili sentenze e un po' di dialoghi/scene tristi aventi a tema la cara & vecchia PASSERA©, esibita o nominata insomma, ma del tutto gratuita e fuori luogo?
Alla fine è la solita vicenda corale & nerissima sulla droga, il solito grand'affresco-intreccio tragico in sommo grado in cui tutti son doppi, tutti son crudeli (ma grrrossa novità: Malkina-CameronDiaz è anche perversa, a differenza, tipo, di "cuore di mamma" ma feroce Selma Hayek de Le Belve, altro patinatissimo & truculento film assai di maniera sul genere a cui questo strizza l'occhio, però quell'altro l'aveva fatto Oliver Stone, quindi lasciamo perdere, pur se il libro da cui era tratto era di Don Winslow), e su tutto vigila il potentissimo e ieratico Cartello, che tutto vede e quel che vuole può.
Se lo fai bene ne esce un capolavoro, terrorizzante e "totale" (esempio: Traffic, Steven Soderbergh). Altrimenti, a voi The Counselor - Il procuratore (e questo nonostante il cast stellare, eh?).
Momento clou dell'opera: quando Ridley Scott e Cormac McCarthy si travestono da Joel e Ethan Coen, e Cameron Diaz si scopa la macchina di Javier Berdem, e quest'ultimo lo racconta tirando in ballo i pesci gatto - "una cosa così ti segna per la vita".
Bello invero anche Brad Pitt strangolato da una garrota meccanica portatile. Sempre in nome della FICA©, ché lui è furbissimo ma basta una bionda con la faccia triangolare e gli occhi da gatta che gli chiede se è canadese alla reception d'un albergo.
Finale con MagnetoGiovane che si dispera nella camera d'una bettola che ha affittato nel sempre invitantissimo Mexico, poiché un peone bambino gli recapita un DVD con l'ultima partita della Vigor Lamezia, ma lui per sbaglio lo tocca senza i guanti da Magneto, e irrimediabilmente lo smagnetizza.

giugno 25, 2013

JOHN WILLIAMS, Stoner

Prima di tutto, di cosa si parla? Si parla di un libro scritto nel 1965 da un professore universitario di umili origini, un professore con una carriera piuttosto ordinaria e senza acuti presso l'università Denver; un professore al suo terzo romanzo, coi due precedenti finiti in un dimenticatoio senza infamia e senza lode, staccato dal tempo, consueto esercizio accademico di abilità fine a se stessa a cui l'hortus conclusus (piglia e porta a casa - era per non nominar la Torre d'Avorio che fa sì Accademia, ma italiana...) dell'Accademia con la 'A' maiuscola ogni tanto inevitabilmente porta (Butcher's Crossing, il secondo titolo, di cinque anni addietro, è un'indagine sulla vita di frontiera nel Kansas del 1870 - dio, riuscite ad immaginar qualcosa di più avvincente & succulento? Tenete a mente che cinque anni prima nella CityLights Book di Ferlinghetti era stato appena letto The Howl; nel 1957 era uscito On the Road, ed erano già stati pubblicati Catcher in the Rye, The Old man and the Sea, The Grass Harp, per dire...)
E stesso destino attende immancabilmente anche Stoner, storia romanzata di un professore di inglese dalle modeste origini contadine, cresciuto in una fattoria vicino a Columbia, Missouri, passato come il lento incedere d'un grande fiume attraverso varie vicende fino al trovar la propria strada nelle Lettere dopo aver abbandonato studi d'agraria intrapresi in modo piuttosto casuale e passivo. Una tranquilla vicenda di provincia, dal 1910, con un protagonista diciannovenne, al 1956, l'anno della morte: un monotona vita priva di eventi significativi, quasi fuori dal tempo, con due guerre mondiali sullo sfondo e un'amante ad increspare un fluire di avvenimenti altrimenti assai sommesso.
Eppure in questo testo avviene il miracolo, apri il libro e si sprigiona la luce: a dispetto dell'asciuttezza del carattere di Stoner, della banalità delle vicende che si susseguono, della semplicità della trama. 
Ecco, proprio la trama: Stoner è la dimostrazione pratica di quanto possa essere marginale un intreccio, se si riesce a sprigionar questa magia con le parole. Nel romanzo non succede nulla, o quasi: banali situazioni, casi della vita. E Stoner è pure un po' scialbo, passivo ma senza essere l'Eroe passivo di tanti romanzi, o l'inetto di turno, tanto per scomodare Musil o Svevo. Stoner è come il suo nome suggerisce, squadrato e inquadrato, una pietra, semplice in tutto ciò che fa, senza mezzi toni o pieghe dell'animo.
Eppure ti trovi a fare il tifo per lui, a seguirlo con una partecipazione che non ti spieghi, a sentir quasi del male fisico quando subisce torti, quando si "incaglia" in qualche secca. Sarà un entusiasmo, un coinvolgimento che la mano dello scrittore passa sulla pagina come per via fisica, un fluido invisibile, sarà quel che sarà: a me era successo - non che debba importare a qualcuno, eh? - con Armance, romanzo giovanile di Stendhal. Il senso che sprigiona dal romanzo è secondo me identico; capisci che c'è qualcosa che ti sfugge, qui come nell'altro, qualcosa di più, e non è nemmeno un fatto di stile (ovviamente il romanzo, visto il padre, è scritto più che bene, in ottimo e correttissimo inglese, senza nemmeno troppi fronzoli o abbellimenti) o di orginalità di qualcosa. Semplicemente, è la magia della letteratura, una vera e propria epifania. Non puoi nemmeno dire di riconoscere Stoner come tuo simile, come tuo parente che condivide la miseria della vita. No: c'è qualcos'altro, e anche senza intreccio, senza trama o quasi lo avverti, e devi continuare a leggere, sperando che dia una svolta, che batta i pugni, che qualcosa di bello lo ricompensi.  Eppure sai già che anche quando questo avverrà (la vicenda di Katherine Driscoll), tutto è destinato a finire. Ma lo accetti come lo accetta Stoner, che poi rimarrà immobile anni dopo, ritrovandosi il suo libro in mano, dedicato a W.S. e tu sentirai esattamente quel che prova lui in quel momento, come se tu avessi vissuto la vicenda, come se tu stessi tenendo in mano quel libro.
Questa, senza se e senza ma, è la magia della letteratura, questa è la forza dell'Arte - ok, mettici anche un finale di livello veramente assoluto, con la descrizione del peggioramento delle condizioni di salute del protagonista, la stasi della sofferenza, il deliquio, la morte. 
Sei a dama: pagine che letteralmente "ti tirano dentro".
Su tutto c'è come un senso di dolente e tranquilla nostalgia, una perdita accettata e inevitabile, con le parole di Katherine Driscoll ("se anche non avremo altro, abbiamo almeno avuto questo") a fare da perfetta epigrafe.
Nato entro l'ovatta dell'accademia, il libro non poteva inevitabilmente avere un uditorio ampio - nel chiuso dell'orto nasci, nel chiuso dell'orto rimani: dopo anni di oblio, nel 2006 (si badi: dodici anni dopo la morte del mediocre professor John Edward Williams, il quale nel frattempo aveva pubblicato un altro romanzo: Augustus, una rappresenzatione romanzata della violenza ai tempi dell'imperatore romano Augusto - e qui, qualcosa mi dice che la magia come si era posata si era già alzata in volo, nonostante nel 1973 il titolo abbia vinto ex-aequo il National Book Award con John Barth, Chimera) fu in qualche modo riscoperto, pubblicato dalla New York Review Book, e il forziere rimasto nascosto e sepolto finalmente si aprì: il fascio di luce magica si era sprigionato dalle pagine.
Da lì alla illuminante postfazione di Peter Cameron, il resto è cronaca.
Un testo magico, come metafisico.

maggio 30, 2012

COSMOPOLIS, David Cronenberg

Un Cronenberg disciplinato, lineare e (più o meno) teso nell'inseguimento di un filo logico. Era così anche nel precedente A dangerous method (e ancor prima, in History of Violence - sono non solo cronologicamente lontani i tempi di Spider e, soprattutto, de Il pasto nudo!). Restano, trait-d'union al bagaglio consueto del regista canadese, il pessimismo e il mostrare la desolazione e il vuoto letale del nostro mondo. 
E che cosa può dirsi migliore, per i nostri giorni, per mostrare al suo massimo quel vuoto e quella desolazione, di una telecamera che si posa su quella che un tempo fu baldanzosa new-economy piena di speranza (?) ed oggi è - forse, ché nemmeno di questo si può esser certi! - solo caos e caso, bolla ormai scoppiata e dissolta, piena come si è rivelata di capriccio miliardario, immancabile ingiustizia, folle gioco fine a se stesso? 
Le 24 ore di Eric Packer, che decide di andare a farsi tagliare i capelli all'altro capo di Manhattan (Hell's Kitchen, quartiere di ricordi infantili e innocenza perduta - ma davvero nessuno ha notato la seduzione "Orsonwellesiana": Rosebud!), attraversando a passo d'uomo, chiuso non solo metaforicamente nel suo mondo di lusso, silenziato e separato, costruito sul nulla, incomprensibile a 360° (come incomprensibile in quasi tutti i sensi è la crisi che stiamo vivendo e che continueremo a vivere), sono una discesa nel niente immobile e autoreferenziale di un mondo costituito dalla sinistra e vuota unione di capitale e tecnologia, asserviti (?) per soggiogare e fortificare, o semplicemente perpetuando quel binomio - e, verrebbe da chiedersi, i due termini sono veramente asserviti a qualcuno o sono essi stessi padroni che mietono schiavi? -  o mettendo in moto catene di eventi che ci si illude di poter controllare sempre e comunque, perché tutto a un suo posto e tutto deve essere dominato, fino a scoprire, in una correlazione fra io e tu, fra corpo e mondo che già di per sé sarebbe invece significativa, che ci può esser sempre qualcosa che ci sfugge e non si immagina: la prostata asimmetrica, il crollo dello yuan. Una vita, un'altra, al di fuori di logiche (quali logiche?) che non siano accumulo autistico,
E anche l'incomprensibile - inteso sia come linguaggio cinematografico che come contenuto e messaggio veicolato - diventa giustificato e tutt'altro che fuori posto. Idem per la scelta dell'attore (l'inespressivo - ma qui a buonissima ragione - ex vampiro insulso di Twilight, Robert Pattinson) che si rivela più che azzeccata e felice. Tralasciando Paul Giamatti che, be', è sempre Paul Giamatti e vale di per sé il prezzo del biglietto.
Gran merito a Don DeLillo (era il 2003!) di aver previsto tutto questo, anche nei minimi dettagli (si veda alla voce Occupy Wall Street, ad esempio), anche in quelli più di colore (la torta in faccia che si è preso Murdoch nel 2011): Cronenberg prende pari pari il romanzo breve dello scrittore statunitense (solita scrittura densa e protagonista di per sé) e lo traspone in sceneggiatura, copiando spesso anche i dialoghi. Qualcosa si perde, qualcosa salta (qualche dato in più su Benno Levin-Paul Giamatti), ma che tensione che riesce a costruire nella sequenza finale, in attesa di uno sparo...

aprile 26, 2012

The Avengers!


Ho comprato il mio primo fumetto Marvel (l’Uomo Ragno, n. 184) all’età di 6 anni. Era il periodo d’oro dell’editoriale Corno. Le uscite mensili superavano le 10 unità e in televisione apparivano i primi cartoni animati di Spiderman e dei Fantastici Quattro.
Di lì a poco avrei iniziato a comprare i Fantastci Quattro, Capitan America e via via tutti gli altri, e tra tutti  il Mitico Thor e i Potenti Vendicatori.
Benché il fumetto e la scrittura di per se stessi siano in grado di dare emozioni e immagini di “fantasia” meglio di qualsiasi altro strumento, quel bambino sognava già all’epoca di vedere un film con i “suoi” personaggi.
“Suoi” personaggi, perchè come amici di infanzia hanno vissuto una vita insieme. Hanno condiviso istanti indimenticabili, lo hanno preso per mano e portato in un mondo di meraviglia.
 Con loro ho passato ore, giorni, anni. Ho sofferto il fallimento della Corno, le tribolazioni del loro ritorno. Gli sforzi della Star Comics, o della PlayPress, la paura di un nuovo tracollo editoriale.
La mia paura di perderli di nuovo, io che per aiutarli compravo sempre un doppio albo.
Così quando ieri sera è finito il film, l’unico mio pensiero è andato a quel bambino che correva all’edicola a vedere se era uscito il nuovo giornalino, e le uniche parole che mi son venute di dirgli sono state "un sogno che si avvera".
Si proprio così. In The Avengers ci sono tutti gli elementi che un marvelzombies poteva chiedere.
L’affresco del film è stato preparato, come nella tradizione dei comics, con una serie di avventure di avvicinamento. I primi due film di Iron Man, il film di Thor, Hulk e Capitan Americacome in un crossover fumettistico, sono tutti legati insieme da vari elementi, perfettamente riuniti nel film sui vendicatori.
I personaggi sono tutti azzeccati, da Loki a Maria Hill, da Tony Stark (eccezionale Robert Downey JR) a Nick Fury, con un Hulk talmente simile al Bruce Banner dei fumetti da diventare non una comparsa ma un elemento imprescindibile per la riuscita del film.
La storia non annoia mai, non perde mai di originalità (merito di Whedon, sceneggiatore di fumetti), e gli scontri mai ripetitivi sembrano usciti dalle pagine degli albi e trasportati direttamente sullo schermo.
Spettacolo puro, puro divertimento (anche per chi non legge i fumetti).
Si poteva fare di meglio? No, credo proprio di no.
Aspettatevi di tutto, aspettatevi di più, non rimarrete delusi.

P.S. Thor si trattiene contro Hulk!

fsn

marzo 18, 2012

PETE DEXTER, Spooner

Giornalista prima ancora che scrittore (quando la scrittura per così dire "creativa" inizia con un trauma: 1981, circa una trentina di cittadini di un quartiere malfamato di Philadelphia - Devil's Pocket, anche il titolo, significativo, del suo primo romanzo - che sottopongono il giornalista, reo di averli offesi con un articolo su un fatto di cronaca avvenuto in quella zona, a un pestaggio che lo lascia in fin di via, condannandolo a una parziale disabilità e una serie di interventi chirurgici), Pete Dexter, nato a Pontiac (Illinois) negli anni '40, ci regala con Spooner il suo ottavo romanzo, direttamente dall'isola nella suggestiva zona del Puget Sound (una baia fra Seattle e Vancouver, nello stato di Washington). Si tratta di una sorta di autobiografia spuria, che mischia in modo piuttosto confuso episodi reali e di finzione, o - meglio - che parte da episodi reali e da lì si muove. Verso? Verso qualche tentennamento e qualche scivolone, con questa figura di Spooner che sfugge e non si fa propria, mai o quasi mai. Quel che stride è forse che l'autore vorrebbe una partecipazione del lettore - o forse non la vorrebbe affatto: ma non pare del tutto chiaro nemmeno a lui, in definitiva, come non del tutto chiaro pare la cifra stilistica da dare a Spooner. Si tratta di un eroe picaresco sempre pronto a cacciarsi nei guai, di un anti-eroe che sente irresistibile l'impulso verso il crimine o la contestazione, un Huckleberry Finn o un inetto assoluto, un giovane Torless, un individuo marchiato fin dalla nascita dal senso di colpa? Di un Jean-Jacques che fa le sue Confessioni, di uno Zeno che alla fin dei conti cade sempre in piedi? E non vale tanto il dire: non è nessun di questi, che in sé potrebbe essere anche un pregio. Perché è po' questo un po' quello, e forse il romanzo patisce un po' il continuo attraversar di confini, fra autobiografia (senza che per questo debba essere esatta o trasparente al 100% - quale autobiografia lo è?) e finzione: perché ogni volta i personaggi si ridefiniscono in una sorta di transustanziazione letteraria, smaterializzandosi da una dimensione per ri-materializzarsi nell'altra, e non è un caso - secondo me - se il momento migliore del lavoro di Dexter è l'ultima sezione del libro (la parte ottava, Whidbey Island), in cui ormai la scelta per l'autobiografia (di nuovo: senza che questo debba necessariamente significare una cronaca fedele della vita presente o passata del cittadino Pete Dexter, che pure rielabora nuovamente il tragico episodio del Devil's Pocket) è stata fatta, e questi scivolamenti un po' fastidiosi - in particolare, il personaggio che ne patisce di più è senz'altro lo sfuggente (suo malgrado) Calmer Ottosson, al pari anche della madre e gli anni d'infanzia, che soffrono di un tratteggio poco chiaro e confusionario  - non ci sono più. 
Lo stile dell'autore è ellittico ed originale, per così dire mosso, come già nelle altre prove, ma si ha la sensazione che le cartucce migliori siano state sparate (la migliore, senz'altro Paris Trout, romanzo del 1988, vincitore del National Book Award, da noi uscito in infelicissima e pasticciata traduzione con gratuita citazione conradiana acclusa; pessimo fu Train, pare sia ottimo The Paperboy, tradotto come Un affare di Famiglia - saprò dire quanto prima, casomai a qualcuno interessi) e a poco serva come collante il "sentire" di Spooner bambino e adulto, il suo senso della vita lungo tutta la stessa, una sorta di ansia costante, la "sensazione di venir risucchiato in un violento turbine, come se qualcuno avesse tirato l'acqua e lui stesse precipitando giù per lo scarico del gabinetto", la paura di perdere quello che ha conquistato (e che ha avuto come per caso, ma sempre con fatica - è forse tutta qui la contraddizione irrisolta di questo romanzo-autobiografia!), per cui "aveva sempre dato per scontato che qualunque cosa gli cadesse in grembo gli sarebbe anche caduta dal grembo, prima o poi". 
Interessante, certo: acute e pungenti alcune annotazioni, sicuramente il personaggio Dexter è un tipo decisamente originale (la carriera di pugile dilettante, il giornalismo, i fratelli più "svegli" e più "riusciti" di lui, etc), ma la sensazione del colpo mancato c'è. Eccome se c'è.

marzo 11, 2012

YOUNG ADULT, Jason Reitman

Alla fine si ricompone il connubio Jason (figlio di Ivan, mitico regista di Ghostbusters e tanto basta - oh: tutto il mondo è paese e niente ci possiam fare; comunque sia, siam fuori da ogni sospetto, si può ben dire per il caso: e anzi il figlio è onore e non onere per il padre - certo, acchiappa-fantasmi a parte!) Reitman e Diablo Cody, ex-spogliarellista di qualche paesino sperduto in Minnesota passata poi dietro alla macchina da scrivere con esiti freschi e frizzanti (Juno, felicissimo frutto del sodalizio di cui sopra), un po' convenzionali ma comunque apprezzabili per il genere (l'horror Jennifer's body), e infine nuovamente discreti, seppur lontani dal dieci e lode dell'esordio.
Al suo quarto film dopo due gioielli (Thank you for Smoking e, appunto, Juno - non saprei dire quale dei due più riuscito) e qualcosa di riuscito a metà (Up in the air, da noi uscito col titolo di Tra le nuvole, film che avrebbe dovuto consacrare definitivamente il ragazzo al di fuori del circuito del Sundance Film Festival, ma che a fronte di un'incisiva idea iniziale à la Coen, si annacquava nei fastidiosi manierismi facciali da piacione di George Clooney), Reitman recupera in pieno lo "spirito Sundance" - che sarebbe poi dire politically uncorrect, ritmo, anticonformismo divertito al di là di qualsiasi giudizio o moralismo, un pizzico di off-culture e underground, giovanilismo nel senso buono del termine (per capirsi: non nel senso in cui lo stesso concetto trionfa da noi) - e ci propone l'eterna opposizione metropoli-provincia (tradotto nei nostri confini: città-campagna), senza come al solito esser pro o contro l'una o l'altra, ma per  ricavare spunti acuti e brillanti da una situazione. Tant'è che alla fine, il divertimento ritmato rimane e un'amarezza molto autobiografica (della sceneggiatrice) si sente, ma non finiamo per parteggiare né per Mavis Gary (Charlize Theron, molto brava), ex-reginetta del locale liceo in (sterile) fuga dalla soffocante e monotona provincia, né per Buddy Slade (Patrick Wilson, un po' troppo di plastica nel suo dar corpo al provincialotto costantemente in camicia a quadri con maniche arrotolate e aperta su maglietta bianca) e tutto ciò che si trova a simboleggiare. 
La provincia pigra, chiusa in se stessa, con tutto ciò che nega e tutto ciò a cui lega; il poco, il niente, il limitato e il limitante; il sentirsi contenti con (quel) poco o il sentirsi morti dentro, vivendo senza un domani, inconsapevoli soldatini di un posto sul lago che "puzza di merda di pesce", in cui ciascuno è "grasso e stupido" a suo modo. E la grande città, Minneapolis - MiniApple nella terminologia un po' bifolca degli abitanti di Mercury, Minnesota, i quali hanno (si pensi!) un nuovo locale "fico" in paese - con le sue opportunità e le sue luci, la sua vita "ventilata" e piena di occasioni.
Di fatto, due ragioni diverse della solita infelicità - perché l'infelicità ce la portiamo dentro, non è fuori di noi né si può legare a un posto piuttosto che ad un altro, né - tantomeno - nasce dal bersi le solite birre al solito bar ogni benedetta sera, ripensando ai tempi d'oro del liceo, piuttosto che vedere e vedersi più cool in uno dei tanti locali più raffinati della grande città - da una parte limitazione, dall'altra solitudine. 
Non conta dove siamo né si fugge da noi stessi, se noi stessi siamo personaggi usciti da Glory Days di Bruce Springsteen (di fatto Diablo Cody e The Boss fotografano, ciascuno col proprio linguaggio, la stessa situazione). 
"Quanti ne abbiamo riportati a casa ubriachi dal bar, di ex-capitani della squadra di football del liceo?", diceva il detective Emily Sanders (di nuovo Charlize Theron - magari avrà fatto tesoro di quel personaggio per dar vita a questo) nel bel film di Paul Haggis, Nella Valle di Elah (2007). Be', è più o meno la stessa cosa, lo stesso modo di sentire e vedere uno stato di cose. Per questo forse, più che la vicenda messa in scena dal duo Diablo Cody-Jason Reitman - divertente e amara al tempo stesso - conta lo spirito e l'odore che il film spande per l'aria durante la visione.
Limitazione e solitudine, si diceva. I due elementi si incontrano nel personaggio ottimamente reso di Mavis Gary la quale, pur fuggita dall'insostenibile senso di soffocamento del paesino monotono e limitante, di fatto ne è ancora in tutto e per tutto figlia (una figlia che ben volentieri passa le serate nel solito bar rievocando i tempi del liceo, pur a quindici e passa anni di distanza!), rivelando che dietro un odio tanto acceso per il posto c'è un trauma adolescenziale, e poco altro. 
Per questo, il ritorno è terapeutico - e un po' fuorviante è sulla locandina del film leggere "Tutti invecchiano. Ma non tutti crescono" (cazzo c'entrerà?): compiuto il percorso, avvenuta la catarsi, riabbracciata in tutto e per tutto la provincia e fatti i conti col passato, la scrittrice-semi-fallita-semi-alcolizzata-mezza-isterica Mavis può chiudere finalmente la porta dietro di sé, e la parola fine e in realtà un inizio.
Vita, eccomi.

marzo 02, 2012

Paradiso amaro!


Paradiso amaro, nell’ossimoro sbiadito del titolo italiano viene riassunta la piattezza del film.
La trama è semplice e banale. La moglie di un ricco avvocato immobiliare( mi pare che questo facesse, ma non ho ben capito il mestiere visto che in tutto il film cerca di vendere un pezzo di isola) va in coma in seguito ad  un incidente in mare. Il marito cerca di unire o meglio riunire la famiglia, divisa, in questo momento di lutto e dolore.
“I miei amici credono che solo perché abito alle Hawaii io viva in paradiso” questo è l’incipit del film. E io aggiungo se vivi alle Hawaii e sei pallido cadaverico, passi 24 ore al giorno in ufficio, trascurando tua moglie che infatti ti tradisce, tua figlia ecc, te la sei cercata. Nessun luogo sarà mai il paradiso per viverci, visto che non sarai mai 365 giorni all’anno in vacanza, ma le Hawaii non sono la valle della morte. Comunque questa commedia drammatica rimane inerte per quasi 120 m, che sembrano un ‘eternità, in una sorta di nulla emotivo che non sconfina mai nel dramma o nella commedia. La storia come accennato è leggera. L’incidente della moglie cambia la vita dell’avvocato immobiliarista, Clooney. Lui cerca di affrontare il dramma in maniera razionale e equilibrata. Cerca di recuperare il rapporto con le figlie(perchè come era prevedibile e scontato lui era il genitore di riserva) evidenziando le difficoltà di comunicazione. "Una famiglia è proprio come un arcipelago, le cui isole sono un tutt’uno benché, separate, sole e sempre alla deriva, lentamente si allontanino”. Però se i temi sono elevati, come per esempio la precarietà della vita, il modo in cui sono trattati è stucchevole in stile soap opera. L’ancora una volta insopportabile Clooney(basta per favore non fatelo recitare più, affogatelo nel caffè) si limita a fare smorfie per esprimere il dolore che prova, senza riuscirci. Tutti i personaggi sono disegnati con il compasso. La figlia adolescente ribelle(avvilente nella sua scontatezza), la moglie fedifraga, l’amante opportunista, per non parlare della moglie di questo e della sua scena di gelosia al capezzale della signora Clooney. Il tutto ammassato alla rinfusa con un finale felice dove l’arcipelago familiare si riunisce. Per chi scrive un brutto film che  riesce ad annullare sia il dramma che la commedia. Nemmeno originale l’idea del regista di dare a Shaggy, Norville Rogers, attore più buffo  che bello il ruolo dell’amante  antagonista di Clooney per rimarcare l’amarezza del paradiso.
fsn