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gennaio 31, 2014

AMERICAN HUSTLE - L'APPARENZA INGANNA, David O. Russel

Notevole prova del newyorkese David O. Russel, dopo l'ottimo The Fighter e il più strombazzato che effettivamente valido Silver Linings Playbook (o L'orlo argenteo delle nuvole, Oscar un po' a sproposito per Jennifer Lawrence - che lo avrebbe invece meritato per Winter's bone, film del 2010 da noi passato un po' sotto silenzio col titolo a metà fra il romantico e il crepuscolar-mieloso di Un Gelido Inverno - nonché scialbo ma edulcorato adattamento dell'omonimo romanzo, quello assai più efficace pur senza esser chissà cosa, di Matthew Quick).
Dalle dieci (anche se c'è chi riporta otto, ultimamente) nomination di cui ha fatto incetta, il film dovrebbe riportare un meritato Oscar per la miglior sceneggiatura: intricata e tesa, corale e ben condotta e sapientemente dosata, risultando efficacemente al di qua dell'orlo (assai poco argenteo, quello) della noia, a me ha ricordato quella - anche in quel caso premiata con giustissimo Oscar - dei Soliti Sospetti (il Bryan Singer pre-X-men: era il 1995), quantomeno nella qualità di scrittura e di intreccio.
Non si arriva al capolavoro, alla perfetta quadratura del cerchio, forse perché si lasciano ammirare di più le singole prove del cast che non il risultato globale, in una specie di gioco al rialzo che forse è il limite e al tempo stesso il pregio del film: nuovamente eccezionale (e siamo quantomeno a due: ricordate l'ex pugile sepolto nei fumi di crack di The Fighter?) la prova di Christian Bale, al pari di quella di Jennifer Lawrence; ma non sono da meno Jeremy Renner (fantastico Occhio di Falco Seventies style), Amy Adams e anche - sì, lo so: a me è sempre sembrato un patatone e poco più: ma qui va meglio, via, siam concilianti! - Bradley Cooper. Perfino Robert DeNiro ci fa vedere che in fondo in fondo lui c'è ancora, e sa ancora come farti venire i brividi con uno sguardo e un sopracciglio che si alza e due parole tra i silenzi. Se Oscar per qualcuno degli attori non sarà, è solo perché la campana per molti di loro è gia suonata: Bale, già premiato in sodalizio con Russel, cederà per forza di cose a  Matthew McConaughey (Dallas Buyers Club); Jennifer Lawrence è nella stessa situazione, e in più ha vinto l'anno scorso, come dicevo pure un po' a sproposito. Amy Adams, pur bravissima, è probabile debba cedere il passo a Meryl Streep (fantastica!) per August. Osage County, o anche a Judy Dench per Philomena. A volte è questione anche di "incastri".
Ma comunque sia: probabilmente, sul risultato finale pesa forse una monumentalità un po' troppo "voluta" (a partire dal gran battage pubblicitario che il film ha accompagnato fin da subito), quasi come se si volesse in tutti i modi, programmaticamente, entrare nella storia del cinema a prescindere, fin dal primo Ciak: ma la tensione che esce dalla vicenda, la sensualità sciroccata di Jennifer Lawrence e quella finto-hippy di Amy Adams, la resa del "color locale" degli anni (altro grande pregio del film è la ricostruzione, forse sì un po' cupa, ma quanto mai efficace e azzeccata nello spirito, degli anni '70, musica a costumi - con una scena, quella sì, che nella storia del cinema può entrare, sulle note di Delilah e Carmine Polito e Irving Rosenfeld che cantano sguaiati, bottiglie alla mano), la grande prova degli attori tutti, tirano su di un bel gradino quella che altrimenti sarebbe forse la solita vicenda del "giocarsi tutto alla ricerca di un posto nella vita che riscatti non importa come: basta che si tratti di un colpo grosso e risolutivo, miserie e fragilità" (così Paolo D'Agostini su Repubblica), vicenda assai tipica del cinema e della vita made in USA, in cui qualcosa a portata di mano c'è, lo senti e lo vedi e lo misuri, basta far due passi e respirare in suolo americano, a te il modo per raggiungerlo e scalare il muro, basta volersi prendere sul serio. 
Un cucchiaino di miele di troppo nel finale.

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