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giugno 06, 2007

A PROVA DI MORTE - DEATH PROOF, Quentin Tarantino

DEDICATO ALL'ing. FERRAÙ (iddio l'abbia in gloria)

Mi ricordo, sì mi ricordo che quando parlai di Kill Bill Volume I conclusi il tutto col chiedermi (a me, un bel domandone retorico tanto per far guapperia colta & sostenuta, che poi tanto lo so che non legge nessuno qui, quindi più che guapperia colta potrebbe dirsi anche necessità inevitabile & mysera): “ma tu porteresti tuo figlio a vedere questo film? No, cazzo, certo che non ce lo porterei. Non ho un figlio […] però IO non lo porterei a vedere quasi nulla di quel che danno, quindi il problema non può porsi…” ecc ecc.
Ecco. Così mi sono anche auto-citato e ora posso pure credermi assai importante & intellettuale e farmi un (metaforico) segone di gïoia. A tutt’oggi ancora non ho un figlio, e se lo avessi non lo porterei certo a vedere questo splatterone e tantomeno nient'altro o quasi di quel che danno, nemmeno – cazzo, cazzo e stracazzo – Un ponte per Terabithia che sennò come minimo mi chiede di entrare negli scout, dopo. Meglio la zoppia, sapete. Comunque sia.
Comunque sia, ah che bellezza Tarantino che torna col suo quinto film (considerando Kill Bill un tutto unico & indivisibile, e non considerando invece Sin City, in cui pure aveva più che una consulenza, alla fin fine) ancora più sgangherato e caciarone del precedente, un omaggio – in tutto e per tutto: si pensi ai salti di pellicola, i fruscii, il montaggio “strappato”, i cambi repentini bianco e nero/colore – ai b-movies che ci garbavano tanto, al Tarantino già commesso di videoteca, sì da fargli dire poi a Cannes una delle verità più marmoree che abbia sentito negli ultimi anni: “il cinema italiano? Schifo; meglio quello dei b-movies anni ’70 che quello di oggi”. Sette minuti di applausi ideali, da parte mia.
Che poi, dicevo, Cannes. Cioè, capite? Tarantino è andato a Cannes con questo filmone tutto inseguimenti in macchina e vintagismi (si dirà vintagismi? Di sicuro no, ma finché vive Briatore e ci sono i master io dico un po’ il cazzo che mi pare) e schizzi di sangue e incongruenze nella sceneggiatura e via così, e pare pure di vederlo sghignazzare, di fronte a cotanti CULTURONI® colla barba e incravattati, tutti intenti a trybutar dieci mEnuti di sodi applausi all’ennesimo italico polpettone melo-lagrimevol-elegiaco, o alla solita pretenziosa e lambiccatissima riflessione ossessivo-estremorientale su qualche aspetto del sesso tipo sfrucugliare torridamente una con un cocomero aperto fra le gambe, o sfrucugliare torridamente il cocomero che tanto è uguale se non meglio, di sicuro più perverso & controverso e quindi degno di nota intellettuale. Viva Tarantino, sicché. Lui si presenta a Cannes con Death Proof, e una sceneggiatura (come per Kill Bill - assai più che in Kill Bill!) che per un po’ vede una la storia svolgersi (o pare insomma, chi lo sa) negli anni ’70, e poi d’improvviso si ritrova ai giorni nostri e poi si chiude di botto, come se a un certo punto avessero finito – poteva succedere anche quello, nel genere! – i soldi e dovessero troncare in fretta e furia il film. Già, il finale. Ah, il finale, CHEBBELLO! Ma dicevamo: è il tipo di film a cui si può perdonare tutto, per mille e più ragioni – le stesse di Kill Bill, tra l’altro: “si parte da uno stato di cose su cui non ci può esser nulla da obiettare e poi ci si getta una manciata di pepe […] e si fanno succedere un sacco di cose, coi personaggi come figurine. Già, i personaggi: nemmeno su di loro […] c’è un minimo approfondimento caratteriale. Ed è perfetto così: puro intreccio, mettendo nel calderone sempre più ingredienti grezzi”. Toh, mi son ricitato, piglia incarta e porta a casa. E porta sei. Ma come son bravo.
Alla fine dei conti: anche nell’ambientazione – Austin, Texas – più Lansdale (La notte del drive-in, molti racconti), che Elmore Leonard (e del resto l’esperimento di tradurre in cinema il suo idolo Leonard, Tarantino l’ha parzialmente cannato con Jackie Brown - a quando il tentativo con l'altro suo idolo letterario, Charles Willeford?) e un “modo, indecente e irrispettoso, giocoso e euforico, femminista e «cannibale» di amare e di fare arte con il cinema” come ha scritto Silvestri su Il Manifesto (Mereghetti sul Corriere della Sera ha aggiunto pure della “radicalità della regia, […] che sembra cancellare la sceneggiatura per seguire solo lunghissime e confusissime discussioni tra donne, spezzate all'improvviso da gratuiti inseguimenti in auto, senza mai spiegarne le ragioni”). I difetti ci sono eccome, sì. Ma contano poco. Eccetto quelli che son spuntati dopo. Già, perché Death Proof ha una storia particolare alle spalle, e io ora ve la dico giacché sono infinitamente buono e infinitamente meglio di una spinta sulle scale o un film con la Morante o Scamarcio. Originariamente distribuito in USA sotto il titolo di Grindhouse (nel trailer originale c'era la spiegazione del termine, da vocabolario, esattamente come avveniva all'inizio di Pulp Fiction. Nel caso, comunque, eccola qua: da Grind, Triturare, Macinare; House, casa, abitazione. Grindhouse è il cinema dei sobborghi americani dove negli anni '70 venivano proiettati, al costo di un singolo biglietto, più film uno dietro l’altro. Abitati e frequentati per lo più da gente di malafede, prostitute, ladruncoli e piccoli spacciatori, proiettavano splatter, film a basso costo, o più genericamente quelli che oggi chiamiamo b-movies), si componeva, dicevo, di due episodi slegati e indipendenti, di circa 85’ ciascuno, inframezzati da quattro falsi trailer di altri registi. Uno degli episodi – Death Proof appunto – era firmato Tarantino; l’altro – Planet Terror – Robert Rodriguez, il regista (co-regista) di Sin City, Dal tramonto all’alba e tutte quelle cose lì, insomma. Però poi 85 minuti per due fa circa 170-180 minuti. I geniali produttori europei, sulla scorta anche – ok, give Ceasar, etc... – del flop negli USA, hanno avuto la pensata: si dividono i due film (Planet Terror pare esca a fine luglio, tanto per incrementare l'incomprensibile tradizione "tempo d'estate, tempo di horror"), si fa aggiungere e rimpolpare delle scene, si fa due incassi invece di uno e si va in culo e porto sei. Bravi. Applausi. Però poi il tutto ha delle conseguenze, eccome. Il Death Proof  “europeo” dura mezz’ora in più, e i dialoghi tra le troie (ops, le attrici – ero entrato nello spirito del film) son troppo lunghi, e non sempre sono ispirati tipo Le Iene o Pulp Fiction. E si sente che sono un po’ posticci, a volte. Ma cazzo gliene fregherà a loro, che così fanno due incassi?
Menzione speciale, ma ormai non fa più notizia, per la colonna sonora, per il cammeo del regista (si noti la foto/raccomandazione che ha alla cassa) e soprattutto per il consueto auto-rimando ai precedenti. Ad esempio: lo sceriffo e il “figlio numero uno”, sono gli stessi di Kill Bill vol. 1; sulla macchina gialla di Kim c'è l'adesivo Pussywagon, come sul pick-up dello stesso film;  Abernathy ("che cazzo di nome è?" - ahahaha) ha come suoneria il “Twisted Nerve” di Elle Driveriana memoria e via così, sai quanti ce ne sarà e quanti ne sfugge: si pensi che in Pulp Fiction, Mia (Uma Thurman) racconta a Vincent (John Travolta) di aver appena girato un pilota di una serie, su una banda chiamata “Le Vipere Assassine della California”. Meno male che c'è Tarantino...

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