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dicembre 01, 2003

DOGVILLE, Lars Von Trier

Chiariamoci subito, Dogville è un capolavoro. O quasi, insomma. Del resto, di queste cose non si può mai essere sicuri; come di tutte le altre, alla fin fine. Però ora non stiamo tanto a confonderci. Dicevo, Dogville è un capolavoro. Però in Dogville c’è il Bellandi. Il Bellandi sarebbe uno che conosco. L’attore (fedelissimo di Lars Von Trier, penso si chiami Paul Bettany, se non ho capito o ricordo male) principale, è chiaramente lui. Ora, ogni volta che era in un’inquadratura il Bellandi (e la cosa capitava assai spesso), non si poteva non ridere, è chiaro. Così, qualsiasi capolavoro si smorza, capite. E ragion per cui, quindi, potrei anche star qui a parlare di Dogville come di un film imperniato sul simbolismo (la cittadina che simboleggia in realtà il mondo intero; la piccola comunità che è specchio dell’intera e misera razza umana; i gangster e Grace – non a caso, Grace, la Grazia, che può essere accolta o meno… libero arbitrio, no? – che rappresentano la divinità che giunge dal cielo, a giudicare, a mettere alla prova l’Umano, che però è sempre Troppo Umano, ahahah mi si passi la citazione pseudo-stronz-colta), e sull’allegoria (in fin dei conti il film è una grandiosa parabola sulla meschinità dell’umanità, cui è offerta, invano ovviamente, una redenzione). Oppure potrei dire della realizzazione tecnica del tutto (tra teatro – certo teatro d’avanguardia, che adesso non ricordo ma forse era Artaud? Giuro che m’informerò – e letteratura, nello strutturare rispettivamente il mondo come una lavagna-palco, pieno di convenzioni sceniche, anche quelle fortemente simboliche, a partire dall’organizzazione dello spazio; e la svolgimento della vicenda, organizzata come un racconto in nove capitoli più un prologo per voce narrante). Infine, potrei considerare che spesso i film che si immergono nel simbolismo e nell’allegoria, rischiano di diventare presuntuosi, cerebrali, insopportabili insomma, specie poi se cercano altri artifici, prendendo a prestito da altre arti (senza contare fissità di luci e primitivismi di montaggio, per quel che riguarda in senso stretto quella cinematografica), aggiungendo subito però che non è questo il caso, che si rimane sempre (o quasi) ben al di qua della noia e del fastidio che certe operazioni (condotte male) possono dare.


Tutto questo, potrei dire, sì, certo, e sarebbe pure bello, perché secondo me è di un gran film che si sta parlando (ma Dancer in the dark è e resta una cagata, e così molto altro della produzione precedente). Ma – cazzo! – c’era il Bellandi, capite? Come faccio?

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